Barigazzo: il tempo ritrovato

Esiste un posto dove il tempo scorre col suo ritmo naturale? Abituati alla frenesia delle grandi città, probabilmente alla domanda faremmo fatica a rispondere. Ebbene,qualche volta capita di smentirsi e di riscoprire quel senso del tempo che l’uomo moderno ha perso ad una fermata della metropolitana. No, non troveremo di nuovo il tempo nel traffico vorticoso delle città. Questa volta il tempo lo troviamo proprio dove non avremmo mai immaginato. Negli ultimi anni abbiamo avuto la possibilità di apprezzare il miracolo della vita ma anche la sua caducità e l’impellente bisogno tutto umano di vivere il nostro tempo, nel nostro tempo e in comunità. La pandemia ci ha riportato alle origini delle necessità, alla nostra natura e alla Natura. È in questa circostanza che si scoprono luoghi autentici come quello di cui vi sto per parlare. Barigazzo, frazione di Lama Mocogno, sull’Appennino Modenese, è la materializzazione di una realtà autentica, fatta di tempo, comunità, tradizione e sentimenti. La scoperta di Barigazzo non è stata e non è nel mio caso una semplice e singola passeggiata sull’Appennino, ma una vera esperienza di vita; come dicevo, un ritorno al senso del tempo, al tempo interiore di ciascuno di noi. Gli appassionati di storia e di camminate attraverso i boschi apprezzerebbero sicuramente questo piccolo borgo incastonato ai piedi del Monte Cantiere. La storia di Barigazzo si fonde e si confonde con leggende e tradizioni, musica e folklore. Già Plinio il Vecchio nella sua monumentale opera Naturalis Historia cita la località di Barigatium, facendo riferimento ad un fenomeno naturale legato alla comparsa di alcuni fuochi provenienti dal sottosuolo. Chiaramente, oggi sappiamo che quanto raccontato da Plinio il Vecchio trova la sua spiegazione scientifica in una naturale sorgente di metano. Come ogni eredità del passato pagano, anche il fenomeno dei fuochi di Barigazzo si trasforma ben presto in un racconto che mescola leggenda e religione. Secondo la tradizione, durante una notte tempestosa, una fanciulla del posto sentì bussare alla porta due uomini, rispettivamente il nobile Obizzo da Montegarullo e il suo scudiero: la fanciulla li accolse e i due ripresero il loro cammino. Tuttavia, lo scudiero tornò indietro e con impeto afferrò la fanciulla e la portò via sul suo cavallo. La ragazza pregò intensamente San Giorgio che la salvò, disarmando lo scudiero: il mattino seguente,alcuni viandanti videro la fanciulla aureolata in una fiamma che veniva proprio dalla terra. Questa leggenda contiene molti degli elementi che caratterizzano la storia e la cultura del posto: Obizzo da Montegarullo che ha tessuto la trama della storia medievale del borgo e San Giorgio, santo patrono del borgo a cui la comunità, da sempre, ha affidato le proprie preghiere, intitolandogli la chiesa. La chiesa di San Giorgio (che anticamente era collocata nella parte vecchia di Barigazzo) oggi sorge poco più sopra di Campo dell’Orto, l’antica borgata della famiglia Lancellotti.

Fabrizio Tazzioli, contadino e liutaio di Barigazzo
Costruzione di un violino
Antico mulino ad acqua con ruoto

Oggi, a Campo dell’Orto vivono alcuni dei discendenti dei Lancellotti, i Tazzioli. Di essi, alcuni ancora conservano con orgoglio e sapienza le tradizioni, in special modo quelle musicali. Chiunque arrivi a Barigazzo dovrebbe fare la conoscenza di Fabrizio Tazzioli, meticoloso contadino e liutaio. Fabrizio mi spiega i segreti della sua terra, brulla, sassosa eppure sempre pronta a regalare i suoi frutti se coltivati con amore, pazienza e rispetto. Mi parla del suo grano antico, della forza che la natura sprigiona in estate e dell’ altrettanta pazienza silenziosa che manifesta nei gelidi inverni. Ma Fabrizio è anche un liutaio appassionato, così come lo era il suo bisnonno Ottavio del quale conserva un suggestivo ritratto oltre che il mestiere artigiano. Barigazzo è dunque anche meta per gli appassionati di musica. Entrare e visitare il laboratorio di Fabrizio è un’esperienza unica che permette di tornare a quel concetto di tempo prezioso: il tempo si manifesta nella paziente attesa della natura e delle stagioni, ma anche nella rigorosa arte della liuteria che mescola estro musicale e tecnica di produzione. L’eredità dei Tazzioli non è solo liuteria, ma anche e soprattutto musica, una musica fatta di condivisione familiare ma anche di comunità. La famiglia Tazzioli, infatti, conserva gran parte della tradizione musicale di Barigazzo, dal momento che verso la fine dell’Ottocento Ottavio Lancellotti fondò l’omonima orchestra. Nell’orchestra tanti familiari e tanti strumenti a corda: violini, contrabbasso e chitarre. Gli stessi che oggi vengono costruiti con sapienza da Fabrizio. Se in origine allietava feste e matrimoni, oggi l’orchestra Tazzioli si occupa della conservazione della tradizione musicale della famiglia e, più in generale, dell’Appennino Modenese.

Gli albori dell’Orchestra Tazzioli
L’Orchestra Tazzioli oggi: Domenico, Daniele, Stefano, Fabrizio, Giuliano

Legato alla musica dei Tazzioli è il Gruppo folkloristico di Barigazzo, fondato negli anni ’70 e ancora oggi particolarmente attivo sul territorio: tra valzer, mazurche e abiti d’epoca, il gruppo conserva la propria tradizione e fa tesoro delle proprie radici culturali.

Componenti del gruppo folkloristico di Barigazzo in abiti d’epoca

E’ anche per questo che la musica, a Barigazzo, si fa comunità e diventa momento di generosa condivisione. Chi visita Barigazzo avrà l’impressione di chiudere un cerchio, di sentire la completezza, di sapersi parte di un tutto più grande di noi: il tempo resta se stesso, la natura scandisce il ritmo della vita, le stagioni riflettono ancora e in eterno il rinnovarsi, il riscoprire; le sapienti mani dell’uomo modellano la Natura e con essa pacificamente convivono. A Barigazzo l’autenticità si fa musica dell’animo. A questo posto e ai suoi abitanti devo tanto, non solo l’esperienza di una costante e lunga permanenza, ma anche e soprattutto il caloroso senso d’accoglienza trasmesso. Ai barigazzini e ad alcuni in particolare dedico questo racconto, per tutto l’amore che essi mi dimostrano ogni giorno e per la sensazione d’essere non forestiero ma parte della loro famiglia.

Campi di grano e campanile di Barigazzo

Delia Brusciano

Indietro nel tempo a Castel Morrone, le Termopili d’Italia

Dopo un momento di pausa, legato alla congiuntura di diversi momenti storici (lockdown, pandemia, ecc.) e personali (nuovi impegni, progetti e percorsi lavorativi), riprendiamo con ancora più fervore le nostre passeggiate borgonaute insieme, alla ricerca di borghi da scoprire, tradizioni da conoscere, sentieri da attraversare, artigiani, artisti, musicisti, abitanti da conoscere e soprattutto storie di luoghi, di persone, di culture da raccontarvi! Questa era ed è la nostra battaglia: cercare di squarciare un po’ il velo che copre alcune perle del nostro Paese, ingiustamente ignorate o dimenticate.

Ed è casuale ma fortemente simbolico riafferrare il filo della trama dei racconti delle nostre scoperte da un borgo che ha visto svolgere sul proprio suolo tante battaglie: oggi infatti vi parleremo di Castel Morrone, le Termopili d’Italia, un piccolo paese in provincia di Caserta che ha una interessantissima storia alle sue spalle!

La nostra passeggiata a Castel Morrone

Prima di giungere a Castel Morrone, in una bella Domenica di questo caldo autunno, le uniche informazioni in nostro possesso erano che Castel Morrone fosse una località del Casertano che vantava un bellissimo Castello, costruzione a cui richiama anche il nome del paese, e che non fosse possibile considerare il borgo come un’unica entità, dal momento che esso è un “comune diffuso”, ovvero un agglomerato diviso in varie frazioni, tanti piccoli centri, ciascuno con una sua identità e una propria storia. La nostra fortuna è stata avere come guida un noto abitante di questo evocativo luogo, il signor Pino, grande promotore della cultura del luogo, che, con la sua disponibilità ed enorme passione, ci ha guidato nei meandri del posto e raccontato le (dis)avventure e le storie che si sono intrecciate nel corso dei secoli all’interno della Storia con la S maiuscola che è stata molte volte protagonista a Castel Morrone!  Non è un caso infatti che venga denominata “Le Termopili d’Italia”.

La nostra guida ci ha condotto lungo il cammino e aperto, materialmente, chiavi in mano gentilmente prestate dal Comune, e metaforicamente, le porte chiuse dei luoghi simbolo del borgo.

«Castello di Morrone si vede da ogni Cantone»

Il nostro piccolo borgo si estende su un dolce territorio collinare circondato da una cornice di docili rilievi che si affacciano sulla piana del Volturno. Dopo aver incontrato il signor Pino in Via Scese Lunghe, all’ingresso di Castel Morrone, davanti alla storica pasticceria Sparaco, di cui vi parleremo tra poco, subito ci siamo mossi in direzione Monte Castello, che è stato, sin dall’inizio del percorso, la nostra meta, la collina su cui salire, l’approdo verso cui tendere, la cima da scalare e conquistare: lì ci avrebbe atteso la Storia.

Panorama salendo verso Monte Castello
Panorama salendo verso Monte Castello

La sua posizione strategica l’ha resa, nel corso degli anni, un incredibile osservatorio. Infatti, se si scruta bene, essa lascia ammirare panorami immensi a cominciare dal Massiccio del Matese fino ai Monti Trebulani e alle più profondi valli che si incuneano verso il Sannio, mentre in basso il Volturno fluisce verso Capua in una morbida conca in cui albergano paesi e città testimoni della più grande battaglia conclusiva del Risorgimento italiano. Verso sud, quando il cielo è limpido, lo sguardo arriva fino al golfo di Napoli, regalando una carrellata di scorci di bellezza impagabile.

Scorci panoramici
Borgonauti in esplorazione
Le tracce della storia

Alla sua posizione è legata tutta la storia di Castel Morrone che, in realtà, ebbe inizio nel 313 a.C. con la distruzione da parte dei Sanniti di Plistica, i cui abitanti superstiti fuggirono nella vallata sentendo l’urgente necessità di costruire una fortificazione o meglio un “Castellum” in cui rifugiarsi per proteggersi da eventuali nuove incursioni.

Il castello

Da qui il nome del monte che non è però da collegarsi con i ruderi di un castello medioevale che pure sono ancora visibili. Già salendo con l’auto lungo le vie di Castel Morrone, in cima al monte è possibile scorgere le suggestive mura del castello, che protendono verso il cielo e si può osservare la presenza di una ex cappelletta votiva, all’interno della quale sono ancora rinvenibili santini e preghiere lasciate dai devoti.

Del castello rimane poco. Nell’area in cui sorgeva sono visibili il torrione principale di pianta similmente rettangolare, i resti della cinta muraria e alcune casette, solo piccole testimonianze di antichi splendori. Si narra che il castello fosse stato voluto da Roberto di Lauro, conte di Caserta, sulla scia della fortezza voluta precedentemente dai Normanni. A loro volta, i Normanni rimaneggiarono un edificio già presente di cui ingrandirono l’impianto terrestre. La fortificazione rimase seriamente danneggiata da un violento terremoto, in seguito a cui probabilmente fu abbandonata.

Ma i resoconti anche degli abitanti del posto fanno registrare un altro momento nefasto per il Castello durante la Seconda Guerra Mondiale: sembra che i tedeschi avessero l’abitudine di aggirarsi per Monte Castello per trainare, grazie a dei buoi di fattorie del posto, un cannone che veniva nascosto di notte fra le mura del Castello e di giorno veniva usato contro gli Americani. Un giorno i contadini videro nuvole nere provenire dal Monte: si pensa che un tedesco non addetto all’utilizzo del cannone, per sbaglio ne fece partire un colpo che distrusse buona parte del Castello. In quello stesso giorno gli americani, venuti a conoscenza dello scoppio del cannone, mandarono dei soldati per verificare cosa fosse successo e, durante il tragitto, uno dei soldati mise il piede su una mina nascosta dagli stessi tedeschi e quindi lo sfortunato soldato morì in loco, seppellito dalle mura del castello che la mina aveva fatto esplodere.

Nel medesimo giorno una cannonata ed una mina distrussero ulteriormente il Castello, di cui quel che vediamo sono i resti di tutte queste vicissitudini.

Monte Castello - Ruderi del Castello medioevale
Borgonauti al Castello
Borgonauti al Castello
Resti del Castello feudale
Resti del Castello feudale

Il Santuario di S. Maria della Misericordia

Mentre il castello cadeva nel totale oblio, il luogo divenne anche sacro per la presenza di altari dedicati principalmente ad una Dea protettrice dei raccolti e, ancora oggi, a protezione delle messi, viene invocata colei che è semplicemente chiamata Madonna del Castello alla quale fu dedicato un tempietto intorno all’XI secolo, “Santa Maria De Murrone “ così come viene definita la chiesetta, citata già nel 1113 in una bolla del vescovo di Capua, Senne.

Poco più tardi, per difendersi dalle scorribande gli abitanti si ritirarono all’interno della fortezza costruendovi piccole abitazioni, di cui sopravvivono pochi ruderi, dando vita a Morrone. Questo spiega il forte legame del paese con Monte Castello, che in pratica sancisce la nascita stessa del borgo.

Secondo la leggenda, proprio fra i ruderi del castello feudale, fu trovata un’effigie della Vergine delle Misericordie; poiché la popolazione viveva in un’epoca di fame e sofferenza all’inizio dell’Ottocento, ciò fu visto come un segnale divino, tanto che gli abitanti del borgo vollero edificare un santuario lì, di fianco al Castello, per devozione, e da questa scelta ha avuto origine quindi il Santuario di S. Maria della Misericordia che tuttora sovrasta Monte Castello.

Il santuario è in tufo, con una facciata a capanna, affiancata da un semplice campanile quadrato. L’interno, ad unica navata, è ricoperto da stucchi del secolo XVIII.

 

Ingresso del Santuario
Santuario di Castel Morrone
Apertura dello scorcio
Apertura dello scorcio
Scorcio dal Santuario
Scorcio dagli archi superiori
Scorcio dagli archi superiori
Particolare della struttura in tufo

I vari passaggi della Storia

Sempre per sottolineare quanto la storia del borgo si intrecci con la storia della Penisola italica, dobbiamo ricordare come Castel Morrone abbia visto anche il passaggio di  Annibale e dei cartaginesi durante i celebri “Ozi di Capua”.

Un altro momento fondamentale della vita di Monte Castello ci fa avvolgere vertiginosamente il nastro della storia in avanti fino all’anno 1860, in pieno Risorgimento, e precisamente fino al momento in cui il Re di Napoli Francesco II, a causa dell’approssimarsi dell’armata garibaldina, lasciava Napoli per Gaeta, ordinando prima ai suoi soldati di arretrare oltre il Volturno per un’estrema difesa del Reame.  Il 28 settembre 1860, il 1º Battaglione Bersaglieri dell’Armata garibaldina, di stanza a Caserta, comandato dal capitano Pilade Bronzetti, ricevette l’ordine di raggiungere il Castello di Morrone


Murales Garibaldi

Come 300 furono gli spartani di Leonida alle Termopili, quasi 300 furono i garibaldini di Bronzetti al Castello di Morrone. Il 1º ottobre 1860 da parte borbonica fu dato l’ordine di attacco per l’ultima grande battaglia per la riconquista del Regno: al bivio di Dugenta, la Brigata Ruiz forte di ben 5000 uomini ebbe l’ordine di marciare per Morrone, piombare su Caserta e spezzare il fronte nemico sicché il Maggiore Domenico Nicoletti, comandante del 6º Regg.to di Linea “Farnese” dovette occuparsi dei garibaldini mentre il resto dell’esercito andava verso Caserta.

Nonostante l’evidente sproporzione delle forze in campo, Bronzetti intuì che a Castel Morrone potesse decidersi la sorte di tutta la battaglia del Volturno e non volle cedere di un millimetro. Alle11.00 iniziò la battaglia vera e propria che si protrasse per quasi 5 ore. Alla fine quasi 2.000 uomini combattevano all’arma bianca in un fazzoletto di spazio che, a colpo d’occhio, non sapremmo dire come facesse a contenerli.

Lo scontro si concluse verso le 4,00 del pomeriggio con la morte del comandante dei garibaldini Maggiore Pilade Bronzetti. Sono giunte a noi moltissime testimonianze che mettono in risalto non solo l’eroismo dei garibaldini, ma anche il coraggio e il valore dei soldati borbonici.

Nel punto esatto in cui cadde, una lapide lo ricorda:

Lapide per Bronzetti-Lato frontale del monumento
Lapide-Retro del Monumento
Vista da Monte Castello
Vista da Monte Castello

II combattimento assunse momenti altamente epici e drammatici ed alla fine si concluse con una ventina di morti di cui 16 garibaldini, un grandissimo numero di feriti ed oltre 220 prigionieri.  L’8 dicembre del 1887 fu inaugurato il monumento, una pietra triangolare ideata e scolpita dall’artista Enrico Mossutti, le cui epigrafi furono dettate da Matteo Renato Imbriani che, nel frattempo, era divenuto un notissimo patriota e deputato del Regno. Bronzetti viene anche ricordato all’ingresso della Casa Comunale.

Guardandoci attorno e sentendo i racconti del signor Pino abbiamo poi notato le tracce che anche la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza hanno lasciato sul terreno di Monte Castello: oltre ai segni di bombardamenti di cui abbiamo già parlato, la collina fu anche luogo di deportazione punitiva di diversi abitanti di Castel Morrone in seguito all’uccisione di due soldati nazisti.

 

I Borgonauti con la loro guida, il signor Pino!
I Borgonauti con la loro guida, il signor Pino!

Muovere i nostri passi in quel lembo di spazio antistante il Castello, in quello che era stato il campo di momento così epici o tragici, usare le chiavi per poter entrare nelle stanze della fortezza, affacciarsi e guardare il panorama dalla sommità della collina, leggere l’epigrafe sulla lapide dedicata agli eroi morti sul campo, per un momento, ci ha fatto entrare in una potente macchina del tempo che solo a fatica ci ha poi riportati al tempo presente.

Dalle trame intessute dalla Street Art alle delizie del palato

Al di là delle vicende storiche, delle Comole di cui ci ha parlato il signor Pino, alcuni tra i fenomeni carsici più interessanti del territorio, due crateri siti sul fianco di una collina chiamata Monte Fioralito, al centro della catena dei Monti Tifatini, che speriamo di vedere alla prossima tappa a Castel Morrone, al di là delle varie chiese presenti nel borgo e degli scorci meravigliosi che il posto può offrire, la sua natura agricola, testimoniata anche dalla presenza della Casa della Civiltà Rurale, viene resa manifesta a chi, per la prima volta, si ritrova a passeggiare per i vicoli e le piazze dei “centri” del borgo, anche grazie ai bellissimi murales che colorano i muri e le facciate di alcune case del paese.


Vico Villani in prospettiva - Murales di Marcella Di Patria e Luigia Massaro
La casa dei gatti - murales
Le arti ossigeno della libertà
Le arti ossigeno della libertà
Dettaglio Murales

Già nei pressi del nostro punto di partenza abbiamo potuto subito ammirare la street art firmata da Giovanni Tariello, il cui stile racconta molto bene il mondo contadino di Castel Morrone: la stessa pasticceria Sparaco, che da 30 anni riceve premi e riconoscimenti per i suoi notevoli prodotti dolciari – famosi i panettoni artigianali che abbiamo avuto la fortuna di assaggiare e i dolci ai fichi d’India per cui  il borgo è noto – ha deciso di realizzare packaging originali per la sua attività, sostituendo le solite confezioni monotone, incapaci di esprimere l’identità di un’azienda e di un territorio, con scatole che contenessero un quadro dell’artista. Le immagini di Tariello sono archetipiche e le stesse sagome, spesso solo disegnate a matita, sembrano richiamare elementi primigeni della storia dell’umanità.

Proseguendo poi per il tour tra i vicoli delle varie frazioni, si può giungere al Vico Villani e altre stradine dove i murales di due artiste, Marcella Di Patria e Luigia Massaro, ritraggono scene della vita rurale del borgo immortalando con una calda tavolozza di colori i raccoglitori con cesta sulle spalle, asini e galline, bambini stesi sui dolci pendii delle colline e naturalmente i protagonisti della flora del paese, i tipici fichi d’india che dominano il paesaggio! Altri graffiti li abbiamo potuti scorgere in mezzo ad antichi ulivi, durante una sosta sulle panchine di un giardino comunale, potendo così, ancora una volta apprezzare, il filo sottile che intreccia la natura, in questo caso degli ulivi da cui nasce un altro prodotto rinomato della zona ovvero l’olio, e la rappresentazione di essa tramite la street art.

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Murales con raccoglitore di fichi
Dettagli di vita rurale
Street art tra Ulivi e Fichi d'India
Dettaglio murales
La paura è l’antitesi della libertà

Su uno dei murales incontrati durante il nostro suggestivo itinerario è riportata la frase “La paura è l’antitesi della libertà” e proprio questa è stata la lezione trasmessa, in ogni modo possibile, dalla passeggiata a Castel Morrone, un borgo che ha dovuto convivere con la paura, ha voluto valorosamente combattere per la propria libertà e che mostra, con personalità e dignità, le ferite e i solchi scavati durante la sua Storia

La paura è l'antitesi della libertà

Flora Albarano

I Giardini della Minerva di Salerno

Se non ci sono stati frutti, è valsa la bellezza dei fiori.

Se non ci sono stati fiori, è valsa l’ombra delle foglie.

Se non ci sono state foglie, è valsa l’intenzione del seme.

(Enrique de Souza Filho) 

Non è stata la prima né certamente l’ultima volta che guardiamo con ammirazione la città di Salerno. Come sempre ci piace ritornare nei posti belli e nei diversi periodi dell’anno per scoprire come il susseguirsi delle stagioni colora i paesaggi e come i raggi del sole definiscono l’umore di strade e palazzi: questa volta ne abbiamo conosciuto la vena malinconica di una giornata d’inverno, ma pur sempre viva. Salerno, infatti, brilla di luce propria e non necessita delle illuminazioni natalizie per meritare una visita da parte dei turisti.

Nell’immaginario di tanti, Salerno è vista come una città di mare dimenticando, invece, del suo primato nelle arti botaniche al servizio della prima Università di Medicina al mondo. Ma ci abbiamo pensato noi a ricordarlo con questo articolo, dedicato al Giardino della Minerva, che fu sito di sperimentazione e didattica delle scienze mediche. 

Orto botanico
Orto botanico

LA CITTÀ MEDIEVALE E I SUOI GIARDINI

Salerno è stata nel passato città di giardini e di orti. La loro distribuzione nel tessuto urbano è sicuramente legata alla mitezza delle stagioni, alle acque sorgive in abbondanza, al terreno fertile e all’aria salutifera; elementi provvidenzialmente donati alla città. Chi vi passeggiava per le strade acciottolate non si sorprendeva dunque del profumo intenso dei fiori d’arancio sparsi nei ricchi giardini o degli scenografici vigneti terrazzati. 

Attualmente i giardini non sono più numerosi come un tempo ma la loro memoria è sicuramente conservata all’interno del Giardino della Minerva, situato nel cuore del centro storico

Arancio
Arancio
Scorcio di città
Scorcio di città

GIARDINO DELLA MINERVA

Quest’area oggi è il risultato di un attento restauro che ha riportato il giardino ad una fase sei-settecentesca ma le sue origini risalgono al Medioevo, si tratta infatti di un viridarium appartenuto alla famiglia Silvatico sin dal XII secolo.

Nel 1300 in questo luogo Matteo Silvatico istituì il primo giardino dei semplici della Storia delle Scienze Mediche. In passato gli orti botanici erano destinati alla didattica, al fine di insegnare agli studenti delle scuole di medicina l’identificazione delle piante officinali; e il Giardino di Matteo Silvatico, hortus sanitatis, fu impiegato proprio per questo scopo. Si tratta di un sito di straordinaria importanza per la storia delle Scienze Botaniche in quanto fu al servizio della Scuola Medica Salernitana, la prima e più importante istituzione medica d’Europa nel Medioevo dove medici provenienti da tutto il Mediterraneo diffondevano il loro sapere. La Scuola è stata attiva per oltre otto secoli lasciando in eredità testi che rappresentano le fondamenta del sapere medico occidentale.

Hortus sanitatis ai tempi di Silvatico (sala espositiva)
Hortus sanitatis ai tempi di Matteo Silvatico (sala espositiva)

CONTRARIA CONTRARIIS CURANTUR

Matteo Silvatico, profondo conoscitore delle piante, fu medico personale del re di Napoli Roberto d’Angiò e alla sua corte ebbe modo di confrontarsi con grandi maestri e scienziati. Presso il viridarium di famiglia il medico salernitano condusse le sue attività perfezionando i suoi studi sul principio del “contraria contrariis curantur”. Secondo tale principio Silvatico impiegava elementi terapeutici semplici con caratteristiche (freddo, caldo, umido, secco) opposte a quelle della patologia da curare. Il buon funzionamento del corpo umano è governato dalla presenza di quattro umori, e un loro squilibrio genera la malattia. L’eccesso di un umore rispetto agli altri, deve essere quindi contrastato usando un farmaco con una natura opposta all’umore in eccesso. Dunque, i principi di Silvatico e, in generale della terapeutica medievale salernitana, si fondano sulla “teoria umorale” nata sulle basi della “teoria dei quattro elementi”, cioè che tutte le cose del mondo sono fatte da fuoco, aria, acqua e terra.

Contraria contrariis curantur (sala espositiva)
Contraria contrariis curantur (sala espositiva)
Matteo Silvatico (sala espositiva)
Matteo Silvatico (sala espositiva)

VISITA AL GIARDINO

Passeggiare per le stradine di Salerno significa fermarsi ad ogni angolo e osservare le stratificazioni del tempo e delle culture del Mediterraneo, il mare più bello del mondo.

Per giungere al giardino si percorre il centro storico, leggermente in salita rispetto all’area a ridosso del porto. Costa un po’ di fatica alle gambe ma si viene subito ripagati una volta arrivati al complesso, nascosto dietro una porticina.

Archeologia urbana
Archeologia urbana
Pergola con agrumi
Pergola con agrumi

Appena entrati c’è il Platano di Ippocrate a dare il benvenuto ma anche uno splendido affresco. Questo affresco, riaffiorato da pochi anni e restaurato, risale al Settecento e raffigura una architettura di genere naturalistico, rappresenta infatti un giardino con una fontana sostenuta da figure femminili simili a sirene.

Affresco
Affresco

C’è poi il Palazzo Capasso, ex dimora medievale della famiglia Silvatico, oggi sede dell’Orto botanico dove sono state adibite una sala video e una sala espositiva. Il palazzo ha un terrazzo con una bellissima fontana dove non solo si gode di un bel panorama ma anche di gustosi succhi e tisane, prodotti a km zero nelle aiuole dell’orto.

Terrazzo
Terrazzo

Il giardino è caratterizzato da una serie di terrazzamenti: ogni piano presenta agrumeti e innumerevoli varietà di piante con le loro essenze aromatiche o profumi esotici. D’inverno non se ne possono ammirare i fiori o i frutti ma sono pur sempre belle e cariche di antica saggezza. C’è poi il sistema delle acque, di derivazione araba, che raccoglie e distribuisce le acque; un sistema funzionale ma anche decorativo.

Di grande incanto poi è la scala pergolata che collega i quattro terrazzamenti; essa si sviluppa su un lato del giardino e poggia sulle antiche mura medievali della città. Ce la immaginiamo in primavera con i fiori, chissà che spettacolo!

Pergolato
Pergolato
Pergolato con vista porto
Pergolato con vista porto

IN GIRO PER LA CITTÀ

Anche questa volta Salerno ci ha emozionato con i suoi mille volti e la sua unicità. Ecco altri scatti della giornata.

Castello di Arechi
Castello di Arechi
Mare e foschia
Mare e foschia
Cortili storici
Cortili storici
Chiesa di San Pietro a Corte
Chiesa di San Pietro a Corte
Gradoni Madonna della Lama
Gradoni Madonna della Lama
Pentedattilo il borgo fantasma

Il borgo fantasma di Pentedattilo

Incastonato tra le montagne dell’Aspromonte, in quella porzione di Calabria conosciuta come area grecanica, una zona incantevole e aspra situata all’estremità meridionale dello stivale della nostra Penisola, là dove il mar Tirreno incontra il Mar Jonio, si eleva il piccolo borgo di Pentedattilo, oggi frazione del comune di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria.

Sono giunta per la prima volta a Pentedattilo l’estate dello scorso anno, ad agosto 2021, sotto la guida di un amico originario di quella terra a volte dimenticata, custode di fili di tante storie. E quando mi sono trovata ai piedi del borgo mi sono tornate in mente le parole di un libro che indaga i silenzi parlanti dei luoghi abbandonati:

“Guardo le case[…] hanno le felci, le ortiche, i muschi da tutte le parti; hanno crepe che sono tutto sommato confortevoli. Forse un giorno cadranno, ma per il momento resistono […] L’abbandono ha livellato i destini, e ogni casa, ora ogni casa è un teatro, con le quinte in disfacimento, il palco che crepita sotto i passi, un teatro dove possono esibirsi anche quelli che una scena non l’hanno mai avuta. Ogni sera, ad un’ora imprecisata, possono ritrovarsi qui, con grande strepitio di vesti, come fossero attori bruciati, mimi, comparse, tutti un tempo respinti, tutti perciò falliti. Sotto la luce in disfazione, sotto la luce scoppiata, in un momento si ricreerà uno spazio in cui lieviteranno le nuove attese, e anche chi è rimasto sempre indietro finalmente arriverà, tutto trafelato” . (C. Pellegrino, Cade la terra, Giunti).

Durante tutta la visita una domanda non mi ha più lasciato: «Come può un paese vuoto avere così tanto da dirmi?».

 

Ai piedi di Pentedattilo
Ai piedi di Pentedattilo
Visto dal borgo di Pentedattilo
Visto dal borgo di Pentedattilo
LE COORDINATE SPAZIALI

Questo misterioso borgo, dal millenario fascino, sorge alle pendici del Monte Calvario, una parete rocciosa che, come racconta l’origine greca del suo nome, πέντε δάκτυλο- penta daktylos cioè cinque dita, ricorda un’enorme mano aperta, quella di un gigante – forse di un ciclope – disteso a guardare il mare.

Pentedattilo domina la Vallata Sant’Elia, dove lo sguardo non può non essere catturato dalle rocche arenarie di Santa Lena e di Prasterà, circondate da distese di ginestra, ulivi, e tanti fichi d’India. In diversi punti della Vallata ci sono anche tracce di antichi mulini a ruota greca, in passato alimentati dalle acque della fiumara Sant’Elia, preziosissimo bene per l’economia della vallata.

Ma ciò che ipnotizza non appena si giunge ai piedi del borgo è la maestosa rupe di arenaria che lo sovrasta.

Il borgo tra le dita del Ciclope
Il borgo tra le dita del Ciclope
LE COORDINATE STORICO-TEMPORALI

La storia del borgo probabilmente risale, anche se non se ne hanno testimonianze certe, alla Magna Grecia ed è collegata durante il periodo greco-romano, per molti secoli, alla sua cruciale funzione di snodo strategico di collegamento tra il mare, il polo di Reggio Calabria e l’Aspromonte. Le sue radici affondano nel terreno di una zona, quella reggina, che cercava di difendersi dalle incursioni dei Saraceni.

Ai tempi della dominazione dei Bizantini il borgo iniziò a vivere un lento declino, a causa dei numerosi saccheggi a opera dei Saraceni. Divenuto possedimento dei Normanni nel XII secolo, per concessione del Re normanno Ruggero d’Altavilla, fu trasformato in baronia e affidato al controllo degli Abenavoli Del Franco e, successivamente, alla famiglia reggina dei Francoperta. Quest’ultima lo cedette agli Alberti, che lo tennero, nonostante la tragedia della Strage degli Alberti, fino al 1760, anno in cui il Pentedattilo passò in mano ai Clemente e, quindi, ai Ramirez.

Nel 1783 il borgo fu colpito da un terribile terremoto, evento che portò al suo completo spopolamento. La popolazione iniziò a spostarsi verso Melito Porto Salvo fino al Risorgimento, spaventata dalle continue minacce di alluvioni e terremoti.  Proprio per questo, il vecchio borgo ne divenne frazione nel 1811.

Considerato luogo impervio e difficile da abitare, il borgo viene ufficialmente abbandonato all’inizio degli anni Settanta, quando gli ultimi abitanti sono costretti a trasferirsi a valle per ragioni di sicurezza. Borgo fantasma… ma anche paese di fantasmi e leggende.

 

 

Fichi d'india
Fichi d'india
Scorci sulla Vallata
Scorci sulla Vallata
TRA STORIA, LEGGENDE E MISTERO: LA STRAGE DEGLI ALBERTI

Il mistero del borgo di Pentedattilo è collegato anche a una vicenda, al confine tra storia e leggenda, che fa parte del patrimonio e della memoria collettiva di questo luogo.

Per scoprirne le fila bisogna ritornare indietro di qualche secolo, precisamente a quando l’Italia meridionale era sotto il dominio spagnolo e Napoli ne era la capitale sotto la guida del Vicerè. Pentedattilo era feudo dei Baroni Abenavoli che dovettero subire un ridimensionamento del loro territorio,  che si restrinse a   Montebello Jonico e dintorni, mentre il nostro divenne feudo dei marchesi Alberti.

Strage per amore?

Tra le due famiglie non ci fu mai un buon rapporto. La cosiddetta scintilla che fece scoppiare un vero e proprio incendio fu accesa dal più classico dei motivi di ogni “tragedia” che si rispetti: l’amore conteso per una donna. Il barone Bernardino degli Abenavoli si era infatuato di Antonietta, sorella del giovane marchese Lorenzo Alberti. I due si sarebbero anche potuti sposare con un matrimonio nobiliare concordato tra casate ma invece accadde che Lorenzo Alberti sposò Caterina Cortez, figlia del viceré di Napoli e che, in occasione del matrimonio, il fratello della sposa, figlio del vicerè, Don Petrillo Cortez, si innamorò della, affascinante marchesina Antonietta Alberti e subito si programmò il matrimonio.

Si narra che la vigilia di Pasqua del 1686, il barone degli Abenavoli, venuto a conoscenza della cosa, tramite la complicità di un servo di casa Alberti, che gli avrebbe aperto le porte, si sia introdotto in piena notte nel castello degli Alberti con un seguito di circa 40 uomini, compiendo letteralmente una strage. Era il 16 Aprile. La follia omicida del barone non risparmiò nessuno degli Alberti, né Lorenzo né il fratello Simone, un bambino di appena nove anni. Solo la bella Antonietta venne risparmiata e condotta al castello di Montebello, insieme a Don Alberto Cortez, preso come ostaggio. Il 19 aprile Bernardino costrinse Antonietta a sposarlo. La notizia della strage solleticò il viceré di Napoli che ordinò una spedizione militare verso il castello degli Abenavoli. Don Petrillo venne liberato mentre alcuni autori della strage furono giustiziati e le loro teste mozzate furono appese ai merli del castello di Pentedattilo. Bernardo riuscì a fuggire insieme ad Antonietta, che entrò poi in un convento di clausura, e raggiunse Malta, dove dopo essersi arruolato nell’esercito, morì nell’estate del 1692.

Questa vicenda ha segnato profondamente l’immaginario e la storia del borgo: secondo alcuni, quando il vento si insinua tra le dita di roccia del gigante, si possono ancora udire i gemiti degli uccisi che ancora oggi chiedono vendetta.

Strage per un tesoro nascosto?

Un’altra leggenda giunta sino a noi grazie ai racconti popolari delle nonne narra di un tesoro nascosto, accumulato dai vari popoli che occuparono Pentedattilo, forse conservato e nascosto al centro della rupe. Proprio dopo la strage degli Alberti, avvenuta secondo questa altra versione della leggenda a causa di questo tesoro inestimabile, quest’ultimo venne inghiottito dalla montagna e nessuno riusciva a impossessarsene. Un giorno “un cavaliere fantasma” si manifestò a un contadino svelandogli una profezia che gli avrebbe permesso di recuperare il tesoro nascosto nelle dita della montagna: se fosse riuscito a percorrere, poggiando su un solo piede, cinque giri intorno alle cinque dita sarebbe riuscito a spezzare l’incantesimo e la montagna avrebbe restituito il tesoro.

La profezia si diffuse e in tanti cercarono invano di sfidare la montagna per riavere il tesoro. In molti pagarono con la vita la difficile sfida perché perdendo l’equilibrio, precipitavano tra le rocce. Un giorno arrivò un cavaliere dalla Sicilia per sfidare la montagna e spezzare l’incantesimo. A differenza di chi l’aveva preceduto, l’uomo riuscì nel suo intento e man mano che completava i primi 4 giri intorno alle dita della mano, la montagna iniziava ad aprirsi. Nel momento decisivo dell’ultimo giro, intorno al mignolo, il costone di roccia aprendosi, crollò addosso al cavaliere, uccidendolo. Secondo questa seconda versione della legenda quindi le urla che si odono nelle notti di forte vento, apparterrebbero alle anime sacrificate nel tentativo di liberare il tesoro dalle mani del diavolo di Pentedattilo.

L’aspetto del borgo arroccato e disabitato in effetti facilmente accende la fantasia soprattutto se si considera il fatto che il paese è rimasto pressoché inalterato, conservando un’aura di affascinante mistero.

Tramonto dal borgo
Tramonto dal borgo
 IL BORGO FANTASMA

Il borgo è considerato fantasma in quanto è per gran parte disabitato (si dice sia abitato da una sola persona) a causa dei fenomeni migratori e delle continue minacce naturali che lo hanno interessato nel corso della sua lunga e leggendaria storia.

Da allora Pentedattilo è noto come il paese fantasma più suggestivo della costa calabrese, ma negli ultimi tempi, grazie al lavoro di associazioni e volontari del luogo, sta rifiorendo.

Il borgo è adesso un luogo aperto a chi lo voglia scoprire: molte delle antiche case in pietra formano un albergo diffuso, e tra le vie del paese, restaurate nel rispetto della tradizione, sono sorti il Museo delle tradizioni popolari e il Piccolo Museo del Bergamotto, il profumato agrume tipico di questi luoghi. Degno di nota è anche il castello, i cui resti dominano dall’alto.

PASSEGGIANDO PER LE VIE DEL BORGO

Le casette in pietra che spuntano fiancheggiate dai fichi sono diventate alloggi oppure ospitano piccole botteghe artigiane legate alla lavorazione del legno, della ceramica e del vetro, riscoprendo antiche tradizioni e riportando alla luce l’antica cultura della zona grecanica della Calabria, di cui Pentedattilo è un magnifico e prezioso esempio.

 

 

Connubio tra pietra, vegetazione e fauna
Connubio tra pietra, vegetazione e fauna
Botteghe artigianali di Pentedattilo
Botteghe artigianali di Pentedattilo
Tracce di colorenel borgo
Tracce di colore nel borgo

Sono tanti gli scorci sulla vallata, i gradini, le piante che sorgono spontanee tra i blocchi di pietra e man mano che si sale per le stradine del borgo si ode la voce del vento che attraversa la montagna.

Fermandoci a Pentedattilo e attraversandolo, possiamo osservare chiaramente con i nostri occhi le impronte che la millenaria cultura greca ha lasciato: basta ammirare la chiesa del paese, risalente al XVI secolo, la cui architettura è di sapore squisitamente bizantino, per accorgersi di essere nel cuore dell’area grecanica calabrese, anche detta Bovesia. La Chiesa dei santi Pietro e Paolo, appunto di gusto bizantino, a nave unica, con attuale prospetto neoclassico e con il campanile a base quadrata, è stata sede protopapale e, come testimonia la lapide che ancora si conserva, nell’anno 1655 il prete Domenico Toscano di Bova si vantava di essere il primo arciprete latino della chiesa protopapale di Pentedattilo.

Riedificata dopo il terremoto del 1783, ha subito numerosi interventi di restauro, tra i quali, ultimo, quello del 2001, ma anche ahimè il trafugamento della tela, collocata nella pala dell’altare maggiore, raffigurante i santi Pietro e Paolo. La Chiesa conserva le tombe della famiglia Alberti, la famiglia al centro della sanguinaria storia/leggenda che da secoli marchia di rosso il borgo misterioso di Pentedattilo.

 

Chiesa dei Santi Pietro e Paolo - Pentedattilo
Chiesa dei Santi Pietro e Paolo - Pentedattilo
Per le vie del borgo
Per le vie del borgo
Verso la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo
Verso la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo
CURIOSITÀ

Il borgo, nei secoli, ha ammaliato tantissimi visitatori, illustri e non. Tanti ne hanno lodato bellezza e fascino, come hanno fatto sia il celebre artista olandese Maurits Cornelius Escher, che realizzò di Pentedattilo numerose incisioni, sia lo scrittore inglese Edward Lear, il cui viaggio a piedi in Calabria ha ispirato la creazione di uno splendido cammino – il “sentiero dell’inglese”.

Ancora oggi Pentedattilo è al centro di una terra tutta da scoprire, lungo un asse ancora troppo poco battuto, che va dalle spiagge incontaminate e selvagge del Mar Jonio fino, salendo, al Parco naturale dell’Aspromonte.

Quando si arriva, in fondo abbastanza agevolmente, ai piedi di questo borgo che sbuca dalla mano rocciosa del ciclope, si apre una specie di varco temporale che ti catapulta di colpo fuori dal presente, qualunque esso, e ti proietta in una Storia immortale, scolpita in ogni angolo, assorbita dalla pietra, rintracciabile nei profumi e nella vita della vegetazione, nei colori, nei suoni del vento e nelle tradizioni di un tempo antico la cui voce riecheggia, ritorna e ti ricorda che è lì davanti ai tuoi occhi, fiero della sua esistenza.

Un’esistenza che va omaggiata con la presenza, la rivitalizzazione, la narrazione di un paese ricco di storia in cui tornerò, spero, anche con i miei compagni borgonauti, per aiutare i volontari del luogo a far conoscere questa pietra miliare del patrimonio storico calabro e italiano, che mi auguro diventi una tappa fissa per chiunque ambisca semplicemente a respirare l’essenza della Storia di questa meravigliosa e ancora troppo sconosciuta terra.

Pentedattilo al calar della sera
Pentedattilo al calar della sera

Flora Albarano

Flumen album: un nome latino per il borgo dei Celti

La scure prendi su, Lombardo, da Fiumalbo e Frassinoro!  Il vento ha già spiumato il cardo, fruga la tua barba d’oro.

Menzionato persino nei componimenti del Pascoli (La partenza del boscaiolo), Fiumalbo, in provincia di Modena, è stato negli ultimi anni uno dei borghi più belli d’Italia. Per chiunque abbia voglia di immergersi nella natura e nei boschi, oltre che nella storia, il borgo di Fiumalbo è meta consigliatissima. Questa meravigliosa location sorge alle pendici del Monte Cimone, il Grande Vecchio che domina l’ Appennino tosco-emiliano. Proprio da Fiumalbo, più precisamente dalla località Doccia, si snodano i sentieri naturali che portano fino alla cima del Cimone, a 2165 metri sul livello del mare! Su questi sentieri, poco lontane dal centro abitato, sorgono le capanne celtiche, costruzioni antichissime che raccontano la storia e le tradizioni delle civiltà montane. Questi edifici sono caratterizzati da facciate a gradoni e lastre di arenaria: la loro fisionomia consente di ricostruire la storia più antica del luogo che, con ogni probabilità, affonda le sue radici nelle civiltà celtiche che hanno abitato le zone montane del Frignano. Principale caratteristica di queste abitazioni è il tetto, particolarmente spiovente e nella maggior parte dei casi ricoperto da paglia, in modo da potersi proteggere dal vento e dalla neve. La neve, forse lo spettacolo più frequente da poter ammirare nelle valli del Cimone, rappresenta un’attrazione importante per l’intera zona, specie per Fiumalbo che è a due passi dall’Abetone, quasi sul confine regionale. Ovviamente, a chiunque avesse voglia di “scalare” il Cimone, consiglio la stagione estiva oltre che la partenza proprio da Fiumalbo: il percorso è più comodo e, al ritorno, ci si può fermare e ristorarsi in paese!

Il monte Cimone visto da Barigazzo, (MO)

Ma perché Fiumalbo? Secondo alcuni studiosi, talvolta anche di origine locale, il nome del borgo potrebbe derivare dal latino “flumen album”, cioè fiume bianco: il piccolo paesino incastonato ai piedi del Cimone si trova esattamente tra due corsi d’acqua che, proprio a Fiumalbo, si uniscono a formare il fiume Scoltenna. Ma chi furono i popoli che abitarono questa bellissima terra? La storia di Fiumalbo è millenaria: con ogni probabilità i primi abitanti del territorio furono i Liguri Friniati che si stanziarono sull’Appennino modenese a partire dal secondo secolo a.C.; fin dal 1038 la località è conosciuta con il proprio nome, grazie ad un testo scritto che testimoniava la cessione del luogo da parte del marchese Bonifacio di Canossa (padre della più famosa Matilde) al Vescovo di Modena. Da sempre luogo conteso, a partire dal 1936 parte del territorio di Fiumalbo costituisce insieme a Cutigliano il comune di Abetone, già Toscana.

Fiumalbo e i monti del crinale appenninico
Scorcio della località Borghetto

Visitare Fiumalbo per la prima volta è un’esperienza unica. Prima di raggiungere il paese, ci si immerge in auto su strade colorate a seconda della stagione che ne è padrona: fantastici i tramonti estivi. Il primo luogo che desta molta curiosità si trova proprio all’ingresso del paese: si tratta della piccola chiesa dell’Oratorio di San Rocco. L’edificio fu probabilmente costruito nel 1418 e collocato alle porte del paese per scongiurare epidemie e pestilenze. La struttura attuale risale, invece, agli inizi del cinquecento quando fu ampliata e rivestita di affreschi. L’interno è molto suggestivo: entrando dalla piccola porta, ci si lascia alle spalle la luce per entrare in un’atmosfera dalle note mistiche: sulla volta a botte che ricopre la chiesa vi sono gli affreschi di un artista di Carpi, il Saccaccini, realizzati nel 1535. Le scene raffigurano, al centro, la Madonna col bambino e, di seguito storie degli Apostoli e dei santi, tra i quali San Bartolomeo, il Santo Patrono di Fiumalbo.

Oratorio di San Rocco
Affreschi dell’Oratorio

Il centro storico conserva ancora l’aspetto medievale, con le sue case di pietra e le botteghe che si affacciano sulle piccole stradine che attraversano il borgo. In piazza sorge la chiesa intitolata a San Bartolomeo: l’edificio fu costruito per la prima volta nel 1220 e poi ricostruito nel 1592. Di particolare rilevanza artistica sono le cappelle laterali della chiesa in cui è possibile ancora ammirare frammenti lapidei di età romanica.

Chiesa di San Bartolomeo

Passeggiando tra i vicoli talvolta troppo bassi, è possibile ascoltare il rumore del silenzio e la possente presenza della natura. E’ lì che ci dirigiamo, verso i luoghi che la natura e l’uomo hanno saputo condividere. Esattamente sul versante opposto rispetto a quello d’ingresso al paese si trova il Seminario, luogo di culto e di cultura da più di duecento anni: è possibile raggiungerlo attraversando un caratteristico ponte che oltrepassa il fiume sottostante.

Seminario di Fiumalbo
Scorcio del fiume Scoltenna

A molti viaggiatori Fiumalbo potrà sembrare troppo piccola e invece nasconde in sé degli angoli, dei paesaggi e delle storie uniche; Fiumalbo è la dimostrazione che la storia dei popoli del nostro Paese è viva e che altrettanto vive e preziose sono le radici dalle quali proveniamo: Fiumalbo non è altro che un scrigno che protegge dal tempo la propria unicità.

Scorcio dei vicoli del borgo

Delia Brusciano

Ponte di Olina

Olina e Lavacchio: un viaggio tra cielo e terra sull’Appennino modenese

«Per tutti coloro che hanno un po’ l’illuministico comune sentimento di luogo, che viene a volte alterato e reso debole, Olina è un’eccezione, perché non è un insieme più o meno confuso di oggetti edilizi provocatoriamente collocati in piena antitesi con tutto ciò che natura e storia vi avevano prodotto. È un luogo vero, non un “non luogo” caratterizzato da estraniazioni e da dispersioni insediative»

(Elio Garzillo, in Seicento Appenninico. La Chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Olina)

Le parole dell’ architetto Elio Garzillo descrivono in maniera plastica e viva non solo e non tanto il luogo fisico, ma soprattutto le sensazioni che si destano in chi vi fa visita. Immerso completamente nel verde dell’Appennino modenese, il borgo di Olina è una frazione del comune di Pavullo nel Frignano. Come al solito, immancabile è la curiosità per la toponomastica: il nome “Olina” deriverebbe da “aula”, in latino ampia traduzione di un luogo aperto e arioso e che, difatti, ben descrive il clima mite e la fertilità di tale territorio. Tuttavia, oltre alle meraviglie paesaggistiche che il borgo offre per la sua strategica posizione sull’Appennino, Olina ha significato tanto per la storia locale e non solo. Le fonti attestano che il borgo fu teatro di un violentissimo scontro tra le diverse fazioni che si contendevano il territorio del Frignano: nel 1269, i ghibellini Montecuccoli sconfissero l’esercito modenese guelfo; tuttavia, queste lotte intestine terminarono soltanto nel 1337, quando i Montecuccoli (poi divenuti signori del Frignano) si allearono definitivamente con la più nota e nobile famiglia degli Estensi.

Ponte di Olina
Ponte di Olina

Per secoli, Olina è stata anche un luogo cruciale per la tratta Sestola-Fanano, snodo che si congiungeva alla più importante strada che collegava le città di Modena e Pistoia. Del resto, non è un caso che l’attrazione principale di questa località sia proprio un elemento architettonico che segna il passaggio da un luogo ad un altro: stiamo parlando del suo ponte, famoso nel territorio non solo per bellezza ma anche per raffinatezza ingegneristica. Il ponte di Olina fu costruito nel 1522 per congiungere l’Emilia con la Toscana, collegando così le due sponde del fiume Scoltenna: oggi, ancora in perfetto stato, è il simbolo della frazione. Per secoli, il ponte ha rappresentato il principale collegamento tra Modena e Pistoia: per tale ragione, la sua costruzione fu voluta non solo dai Montecuccoli, ma anche dai signori di Firenze e di Lucca. Progettato da Giovanni e Bernardo Parrocchetti, il ponte fu edificato secondo dei criteri che per l’epoca erano molto avanzati: la forma dell’arcata è parabolica e consente di sostenere e scaricare un enorme peso che, con altre tecniche di costruzione, la pietra locale non sarebbe riuscita a sorreggere. Nonostante la sua imponenza, il ponte conserva ancora oggi un aspetto slanciato e leggero. Come ogni luogo misterioso che si rispetti, anche il ponte di Olina ha la sua leggenda: si racconta che chiunque passi dal ponte in una notte tempestosa e buia senta una voce strozzata che chiede aiuto, come se qualcuno stesse tentando di catapultarla nel fiume. Con un po’ di fantasia, potremmo immaginare il volto o l’ombra di questa voce sinistra, magari affacciata proprio dalla piccola edicola sacra costruita in cima al ponte, a protezione della imponente costruzione.

Fiume Scoltenna
Edicola sacra sul ponte di Olina

Ma se il ponte unisce due lembi di terra, cos’è che l’uomo costruisce per guardare da più vicino il cielo? E’ questa la domanda che ci si pone quando ci si imbatte nelle torri di pietra dei Montecuccoli.

Oggi, una delle meglio conservate è la torre della frazione di Lavacchio, a pochi chilometri dal comune di Pavullo nel Frignano. A partire dagli anni ’80, questo luogo è stato protagonista di un’opera di rivalorizzazione territoriale: oggi, è un borgo d’arte, caratteristico per i suoi mosaici e per i suoi murales che all’antichità della torre contrappongono un’aura di modernità.

Panorama
Scorcio panoramico dalla torre

La prima testimonianza scritta che riporta il nome della località risale al 1034 e cita “locus qui dicitur Lavacli”: dunque, si suppone che la frazione di Lavacchio sia antichissima e altrettanto vetusta anche la sua torre.

Torre di Lavacchio
Chiesa di Sant'Anna

La torre di Lavacchio, come tutte le altre disseminate nel Frignano, era una torre di avvistamento: della sua funzione è testimonianza la forma snella dell’edificio, le caditoie poste solo sulla cima ed un’unica porta di ingresso sopraelevata rispetto al livello della terra. Poco distante, sorge la piccola chiesa di Sant’Anna, probabilmente eretta sulla rovine del castello di Obizzo da Montegarullo e consacrata alla Santa nel 1522: l’edificio conserva un aspetto semplice e rurale, poiché costruito con la tipica pietra locale e possiede un campanile a vela, in linea con lo stile della la vicina chiesa di San Lorenzo martire, presso la località Montecuccolo. I luoghi che qui vi abbiamo raccontato sono una piccola parte dell’enorme testimonianza culturale che solo l’Italia può vantare: un connubio storico e paesaggistico di immenso valore che certamente non ha eguali altrove.

                                                                                                                                                                                                      Delia Brusciano

Eremo di San Vitaliano: l’eleganza di una chiesa di campagna

L’aria mistica dei Colli Tifatini, gli alberi e la vegetazione rigogliosa, il tufo antichissimo e la semplicità delle forme rendono l’Eremo di San Vitaliano un posto unico, un luogo dove il tempo si è fermato all’atmosfera intima del Medioevo. La natura, con i suoi poteri magici, ti scaglia nel meraviglioso mondo delle emozioni, attiva tutti i sensi…quei sensi che nella frenesia giornaliera ti dimentichi di possedere.  E allora scopri quanto è bello lasciarsi accarezzare dal vento, meravigliarsi dei colori di una farfalla che passa a salutarti. 

Porta d'accesso
Gli alberi e l'eremo

L’eremo è immerso nel verde di Casola, uno dei casali di Casertavecchia e seppur rimaneggiato più volte nel tempo, conserva la semplicità delle sue origini. Ci si arriva attraverso una stradina di campagna stretta dove i castagni creano delle volte scenografiche e se non ci fossero le indicazioni probabilmente si andrebbe dritti verso il più noto borgo di Casertavecchia e si perderebbe questo gioiello nascosto.

Bosco misto
Arco d'ingresso

Secondo la tradizione è stato costruito da San Vitaliano durante la sua vita in solitudine in una località che la memoria ricorda come Miliarum, forse da un’antica pietra miliare. Il santo, stanco delle persecuzioni e calunnie a cui era soggetto, fuggì dalla città di Capua per ritirarsi a vita eremitica. Si narra che un lupo, da lui ammansito, l’aiutò a costruire l’eremo dove visse diversi anni compiendo miracoli. Tuttora gli abitanti del posto conservano l’arcaico culto di questo santo, protettore della pioggia contro la siccità: nel mese di maggio infatti, i quattro casali si recano in processione fino all’eremo.

Archi e cipressi
Prospettive

SAN VITALIANO, TRA REALTÀ E LEGGENDA

San Vitaliano nacque nel VIII secolo nell’antica Capua (l’odierna Santa Maria Capua Vetere) dove fu consacrato vescovo. Fu un uomo di grande umiltà e devozione ma ciononostante fu perseguitato da uomini infidi che cospirarono contro di lui, accusandolo di immoralità. Vitaliano decise allora di dirigersi verso Roma, dal Papa ma i suoi nemici lo inseguirono e nei pressi dell’antica Sinuessa lo catturarono, lo chiusero in un sacco e lo gettarono tra le onde del mare. Ma grazie alla protezione divina il santo raggiunse Ostia sano e salvo, qui venne liberato dal sacco e si fermò per alcuni mesi. Nel frattempo la città di Capua fu colpita da carestie e siccità ed i capuani compresero di essere stati puniti del Signore per quanto avevano fatto al santo: decisero quindi di cercarlo per implorare il suo perdono. San Vitaliano, impietositosi, perdonò il suo popolo e al suo ritorno a Capua la pioggia cadde in abbondanza.

Statua San Vitaliano

EREMO

La struttura, risalente all’VII secolo, ha subito nel corso del tempo diversi rifacimenti sia esterni che interni e quello che oggi vediamo è il frutto del restauro, iniziato nel 2001, ad opera di Don Valentino Picazio, parroco di San Marco Evangelista di Casola. 

Caratteristiche principali di tutto il complesso sono l’ordine, la pulizia e le linee essenziali della pietra viva e certamente il richiamo con la natura tutt’intorno. 

All’eremo si accede attraverso un semplice arco che ti porta dentro un piccolo giardino con alti cipressi e profumate piante di rosmarino. Qui si trova un caratteristico pozzo antico, con tutti gli ingranaggi e il secchio per raccogliere l’acqua dalle falde…magari ci sono ancora le tracce della pioggia che San Vitaliano impetrava durante i periodi di siccità!

Colonna e rosmarino profumato
Pozzo

La chiesa è semplice ma con un grande fascino: è la classica chiesa di campagna, luogo di incontro per le comunità rurali. È preceduta da un portico con tre archi in tufo mentre all’interno i muri sono ricoperti in calce viva e probabilmente nascondono degli affreschi. La struttura infatti ha avuto nel corso dei secoli numerosi rimaneggiamenti, tuttavia gli interventi di rivalutazione artistica e storica hanno conservato l’antico splendore. 

Facciata della chiesa

C’è un’unica navata centrale e a sinistra una piccola cappella con un affresco di Madonna con Bambino e la statua di San Vitaliano mentre al piano superiore ci sono le celle dei monaci ospitati in passato. Usciti fuori, da qui attraverso un piccolo arco si accede al campanile, sobrio ed elegante che va a ad esaltare la semplicità e la bellezza disarmante dell’intera struttura.

Campanile
Affresco Madonna con Bambino

RIFLESSIONI

“Il vero viaggio non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” (Marcel Proust)

La visita all’eremo rientra tra le passeggiate domenicali che i Borgonauti tanto amano fare, condividendo lo spirito dei “viaggi a km zero”. Chi osserva le foto potrebbe pensare ad una bellissima chiesa delle campagne senesi. Siamo invece in provincia di Caserta e i colli non sono quelli toscani ma i monti Tifatini, regno della dea Diana, regina di tutti i boschi e custode della natura.

È un luogo, questo, che risulta sconosciuto agli stessi casertani. Come tante altre località viene snobbato…si preferisce andare nei soliti luoghi comuni e si rischia non solo di perdersi la loro bellezza ma soprattutto che questi vengano persi.

Interno chiesa
Campanile

Non ci resta che andare a Sermoneta!

Quest’ultimo anno di certo non ha consentito viaggi o grandi spostamenti… Approfittando di uno dei pochi momenti in cui era consentito uscire dal proprio Comune per una passeggiata, ho potuto vivere una giornata indimenticabile, visitando uno dei borghi medievali più belli del Lazio, l’antichissima Sermoneta, situata a 257 metri sul livello del mare tra l’Agro pontino e i Monti Lepini.

In questa occasione ho dovuto rinunciare alla compagnia degli altri Borgonauti e mi sono affidata alla sicura guida di amici storici che sono stati spesso meravigliosi compagni di avventura e di scoperta.

La prima visita e la Loggia dei mercanti

In realtà avevo già avuto un primo approccio con la perpetua bellezza di Sermoneta diversi anni fa: la conobbi in occasione del matrimonio di una cara amica che aveva scelto, come luogo per dire il suo “sì”, la meravigliosa Loggia dei Mercanti del borgo, che con i suoi archi a tutto sesto è uno dei posti più suggestivi del paese.

La Loggia dei Mercanti
La Loggia dei Mercanti
Vista dall'arcata della Loggia
Vista dall'arcata della Loggia
Affacciandosi dalla Loggia
Affacciandosi dalla Loggia

Costruita nel 1446 per volere di Onorato III Caetani per essere utilizzata come sede del Comune, delle assemblee popolari e degli scambi commerciali, la Loggia è divenuta pian piano il fulcro delle attività commerciali con le botteghe nei magazzini e le stalle sotto le ariose arcate: dal Cinquecento assunse il ruolo di centro civico. Oggi la Loggia dei Mercanti rappresenta un punto di aggregazione per gli abitanti di Sermoneta che qui si incontrano per molteplici motivi.

 
Ciak, si gira!

E proprio entrando nella Loggia è impossibile, allora come adesso, non farsi trascinare in un buco spazio-temporale magnetico in cui non si può non sentire l’eco di voci lontane e cinematografiche che risuonano nell’aria… Proprio da queste arcate infatti il mitico Massimo Troisi si affacciava in una delle scene epiche del film “Non ci resta che piangere” e rispondeva al predicatore che lo incalzava:

«Predicatore: Ricordati che devi morire!

Mario: Come?

Predicatore: Ricordati… che devi morire!

Mario: Va bene…

Predicatore: Ricordati che devi morire!

Mario: Sì, sì… no… mo’ me lo segno».

Anche memore della particolare atmosfera respirata durante la prima tappa nel borgo che, però, non potei all’epoca visitare, vi sono ritornata recentemente per poter finalmente conoscere i meandri di questo “villaggio” che conserva immutata la sua storia nelle sue strade a gradini, nelle salite e discese, nelle piazze, case, chiesette e in ogni angolo del paese.

Un po’ di storia

In realtà a ridosso di dove oggi è collocata l’Abbazia di Valvisciolo, sorgeva l’antica Sulmo, città dei Volsci, in seguito divenuta colonia romana con il nome di Sora Moneta in onore della dea Giunone Moneta.  A causa dell’invasione dei Saraceni e dell’espansione delle paludi pontine che fecero anche preferire ai Romani una strada tra le montagne piuttosto che la via Appia come collegamento tra Roma e Napoli, gli abitanti dell’antica Sulmo si trasferirono nell’attuale Sermoneta, che viene citata con questo nome già nell’XI proprio come evoluzione del nome “Sulmonetta” ovvero “piccola Sulmo”.

La sua storia è connessa da un lunghissimo filo alle vicende della famiglia Caetani che, dal 1297, ne fecero il centro dei loro domini sull’intero Lazio meridionale, grazie alla sua posizione strategica sulla via Pedemontana, l’arteria che aveva appunto sostituito l’Appia nei collegamenti fra il Nord e Sud d’Italia. I sermonetani, per ottenere il controllo della strada, sconfissero prima Ninfa e poi Sezze. E infatti oggi il borgo attira spesso l’attenzione dei visitatori del giardino dell’antica Ninfa che, dopo dopo l’immersione floreale, scelgono di far tappa nel paesino.

Il Castello 

A questo periodo, il XIII secolo, risale il borgo medievale, che ha perfettamente conservato il suo impianto urbanistico, con due dei suoi simboli principali, il Castello Caetani, uno dei più famosi esempi laziali di architettura difensiva, che domina il paese e l’intera Pianura Pontina e il Duomo.

Il Rione Castello
Il Rione Castello
Davanti al Castello Caetani

Il Castello costruito dagli Annibaldi e poi passato ai Caetani è accessibile da più ponti levatoi tramite i quali è possibile l’ingresso al castello, per arrivare alla Piazza d’Armi e alla torre centrale “il maschio” che ha di fronte una torre di più modeste dimensioni, “il maschietto”. Il maniero si mostra ancora oggi in tutto il suo splendore, dalla magnificenza delle mura esterne alle artistiche sale interne, decorate con degli splendidi affreschi del pittore Girolamo Siciolante, poi detto il Sermoneta. 

Da poco tempo si possono scoprire anche le prigioni, dove si possono notare i disegni murari realizzati dai detenuti durante l’angusta permanenza.  Anche nelle stalle del Castello si sono girate alcune scene del film “Non resta che piangere”.  Un tempo il cortile della roccaforte ospitava militari mentre ora è sede di concerti ed eventi.

 Il Castello è un luogo a cui i sermonetani sono sempre stati molto legati tanto che, quando Alessandro Borgia fu nominato Papa e scomunicò i Caetani, confiscando i loro possedimenti, compreso il castello di Sermoneta che venne trasformato in una mera fortezza difensiva, il popolo, da sempre fedele ai Caetani, li aiutò, per ciò che era in proprio potere fare, a tornare padroni del borgo e del castello.

Il cortile interno del Castello
Il cortile interno del Castello
La Salita delle Scalette
La Salita delle Scalette
Il  Duomo

Il Duomo di Sermoneta ovvero la Cattedrale di Santa Maria Assunta fu edificata nel V secolo d.C. su un tempio pagano dedicato alla dea Cibele adibito poi al rito cristiano. Essa fu costruita a pianta basilicale con forme romaniche e nel XIII secolo assunse quell’aspetto gotico che ancora oggi riconosciamo, probabilmente grazie agli interventi degli architetti cistercensi di Fossanova.

All’interno della Cattedrale che oggi è a tre navate con quattro cappelle per ogni lato, si osserva lo stile architettonico romanico e cistercense, caratterizzato da mezze colonne adiacenti ai pilastri della navata centrale e del portico, archetti pensili disposti lungo la navata minore destra, molto simili nelle forme a quelli dell’Abbazia di Fossanova presso Priverno, archetti a sesto acuto e le volte a crociera.

All’esterno della Cattedrale, il primo elemento che si ammira è il Campanile, alto 24 metri, in stile romanico, in origine isolato, che oggi si sviluppa su quattro piani e presenta su ciascun lato finestre a bifore con colonnine romane, inizialmente costituito da cinque piani, uno dei quali fu abbattuto da un fulmine.

Il Campanile del Duomo
Il Campanile del Duomo
Interno della Cattedrale di Santa Maria Assunta
Il cuore del borgo – il centro storico

Intorno all’antico maniero si sviluppa il borgo che, come già accennato sopra, si presenta inalterato e perenne, con le sue case in pietra calcarea, il succedersi di pendenze e declivi, il dedalo dei suoi vicoli, gli angoli fioriti, le botteghe artigianali e gli scorci sulla piana sottostante.

Le strade di Sermoneta
Particolari
Passeggiando tra i vicoli
Le casette del borgo

Passeggiando senza meta per il piccolo centro storico si può godere della sensazione di passeggiare al di fuori del tempo, ammirando tra le abitazioni elementi architettonici e decorativi di grande pregio come bifore, stemmi, portali a bugnato, archi a tutto sesto e ad ogiva, loggiati, insieme a edifici d’importanza storica ed artistica quali la già ricordata Loggia dei Mercanti, la rinascimentale Chiesa dell’Annunziata, il Palazzo Comunale e la Sinagoga ebraica.

I punti panoramici del borgo

Se si percorre verso l’alto Via del Rione Vecchio, una pittoresca viuzza di Sermoneta che conduce alla famosa Salita delle Scalette, ci si trova all’interno di uno spazio fatto di gradoni incluso tra le case arroccate che termina, sulla sommità delle scale, con la vista del castello di Sermoneta. Se invece voltiamo le spalle al vecchio castello, davanti ai nostri occhi si giunge al Belvedere di Sermoneta, da cui si può ammirare un vastissimo panorama sulla pianura e sul litorale pontino mentre lungo le mura quattrocentesche, invece, è stato recentemente allestito un percorso pedonale, che si snoda tra ulivi e terrazzamenti.

Scorcio del Belvedere da via delle Scalette
Scorcio del Belvedere da via delle Scalette
Vista sull'agro pontino dai terrazzamenti lungo le mura
La Chiesetta di San Michele Arcangelo

Se dal Belvedere, invece di imboccare la via delle Scalette, si scende verso via della Valle, si arriva in una zona più nascosta del borgo che porta all’antica Chiesa di San Michele Arcangelo, una chiesetta del 1100 che, con la sua cripta di dipinti quattrocenteschi, è un vero gioiellino.

La chiesa, intitolata a San Michele, anche detta di Sant’Angelo, è stata costruita nel’XI sec. sui resti del tempio romano dedicato alla dea Maia ed è stata eretta in stile romanico ma modificata nel corso degli anni come testimoniano il portico, gli archi delle navate, il soffitto a crociera di impronta cistercense.

Affresco della Chiesa di San Michele Arcangelo
Affresco della Chiesa di San Michele Arcangelo
La Chiesa di San Michele Arcangelo
La Chiesa di San Michele Arcangelo
Non solo arte ma anche gastronomia

Vale la pena visitare il borgo di Sermoneta non solo per una passeggiata tra arte e storia ma anche per fare un viaggio gastronomico e assaggiare la tradizione culinaria tipica delle colline lepine.  Si tratta di piatti specifici che hanno la propria nota peculiare nella semplicità della pasta fresca alla carne, nella degustazione di salumi soprattutto di cinghiale, du formaggi e minestre.

Tra i piatti caratteristici non si possono non menzionare:

  • le lacchene, pasta all’uovo più larga delle fettuccine, o le  fettuccine alla “jutta” condite con un sugo di pomodoro cotto per molte ore con il pecorino;
  • zuppa con i fagioli;
  •  gli strozzapreti conditi con un sugo a base di mortadella e prosciutto cotto tritati o con cinghiale o con abbacchio o con funghi trifolati;
  • i famosi tagliolini di Fabio Stivali al Trombolotto, caratteristica salsa ai profumi di olio, limone trombolotto e 12-14 erbe aromatiche del sottobosco, rielaborata da antiche ricette monastiche cistercensi del Medioevo che consigliavano di spremere il limone con le olive lasciandovi in infusione le erbe;
  • la polenta con la salsiccia;
  • tra i dolci spiccano le serpette, biscotti a forma di serpente, fatti con ingredienti molto semplici quali zucchero, uova e farina, preparati per la prima volta  per celebrare la vittoria dei cristiani contro i Turchi nella battaglia di Lepanto alla quale partecipò il valente Onorato Caetani. La caratteristica forma di serpetta fa anche riferimento all’onda, presente insieme all’aquila nello stemma della famiglia Caetani;
  • tra i liquori da citare Piccolo l’Amaro dell’Agro Pontino, il primo amaro di questa zona e di Sermoneta, una miscela di erbe tra cui alloro, genziana, rabarbaro e agrumi, tra i quali spicca il Merancolo, arancia amara selvatica sermonetana dal succo molto aspro e leggermente amaro.
Fettuccine con funghi e trombolotto
Le serpette di Sermoneta
Il Sapore delle tradizioni – la Rievocazione storica della battaglia di Lepanto

Il 7 ottobre 1571, nelle acque di Lepanto, venne combattuta una delle battaglie più famose e importanti della storia, quella che vide la sconfitta delle flotte dell’Impero Ottomano ad opera di quelle cristiane della Lega Santa di papa Pio V. Tra le fila delle forze alleate combatteva il Duca Onorato IV Caetani, Comandante Generale della Fanteria Pontificia sulla nave Grifone, che nel momento più intenso della battaglia, pronunciò un voto con il quale si impegnava, in caso di vittoria, a erigere una chiesa a Sermoneta.

L’esito della battaglia è noto a tutti, ma forse molti non sanno che il Duca, al suo ritorno, tenne fede alla promessa edificando la chiesa, dove poi fu sepolto, che prese il nome di Madonna della Vittoria. Da allora Sermoneta, ogni anno, la seconda domenica di ottobre, ricorda la Battaglia di Lepanto con una grande rievocazione storica che coinvolge tutti i rioni del paese e i loro abitanti.

Sebbene la manifestazione raggiunga il proprio culmine con il suggestivo corteo storico, la ricostruzione del ricongiungimento tra il Duca Onorato IV Caetani e la sua sposa Agnesina Colonna al ritorno dalla battaglia, e il Palio Equestre tra i rioni, nei vari quartieri del paese la festa dura almeno una settimana con iniziative ed eventi che coinvolgono tutta la popolazione anche dei dintorni.

Il corteo è composto da 170 figuranti in costumi d’epoca, che si reca dapprima al Belvedere per rievocare l’incontro tra il Duca e la sua sposa, e prosegue, poi, verso il campo sportivo per il palio. La Rievocazione trascina in festa i rioni cittadini che coinvolgono i partecipanti in vari spettacoli, ma porta nel borgo anche le esibizioni anche di altre località che sono presenti con sbandieratori, archibugieri e fanfare. Spesso infatti si riuniscono a Sermoneta gli Sbandieratori delle contrade di Cori, gli Archibugieri Trombonieri di Cava de’ Tirreni e della Fanfara di Paliano.

Sermoneta e la Battaglia di Lepanto
Curiosità

Molti non sanno che Sermoneta e il suo territorio custodiscono le tracce maggiori della presenza dei Templari nel Lazio. Ne sarebbero espressione i numerosi simboli riscontrabili nei suoi più importanti edifici sacri, sempre caratterizzati da un’evidente impronta cistercense. Tale Ordine è notoriamente legato ai misteriosi monaci-cavalieri. Tra i segni più interessanti vanno annoverati almeno la “Triplice Cinta Druidica” e il celebre “Sator”. La prima è incisa un po’ ovunque nel borgo e soprattutto sulle chiese di San Michele Arcangelo, dell’Annunziata e sulla Cattedrale di Santa Maria Assunta; il “Sator” sarebbe presente nel chiostro dell’Abbazia di Valvisciolo che si trova fuori dalle mura e che sarà oggetto di una prossima visita al borgo, magari in compagnia di tutti i Borgonauti.

Simboli dalle origini remote e di derivazione probabilmente celtica, sul cui significato ancora si discute, sembra che i Templari se ne servissero per “contrassegnare” i luoghi a cui conferissero un’incredibile valenza sacra e tellurica, in base ad una selezione effettuata secondo occulte conoscenze sulle energie della Natura. La presenza templare è avvalorata anche da vecchi racconti tramandati dalle fonti locali, riguardanti soprattutto Valvisciolo: nei sotterranei dell’abbazia si troverebbe, infatti, il favoloso tesoro dei Templari. In ogni caso, a parte gli elementi favolosi, è un dato certo che i Cavalieri del Tempio s’insediarono per un certo periodo a Valvisciolo, forse a cavallo tra XIII e XIV secolo, com’è provato dalla croce templare scolpita sulla sinistra dell’oculo centrale del rosone.

Scorci panoramici
Scorci panoramici
Girando tra le case in pietra

Si potrebbe scrivere ancora tantissimo su Sermoneta, non solo per citare altri punti di interesse su cui non mi sono soffermata in questo tentativo di narrazione, ma anche perché trattasi di un borgo che non conserva intatta soltanto la sua storica struttura urbanistica, contrassegnata da quella pietra calcarea che ti circonda e rapisce non appena metti il piede sul primo ciottolo, bensì perché l’antica Sulmo è un paese che custodisce, ai piedi del suo maniero, un grande rispetto per i suoi simboli e le sue tradizioni, da quelle storico-medievali a quelle folcloristiche, da quelle culinarie e artigianali a quelle artistiche. Sermoneta si è reinventata senza però snaturarsi troppo, aprendo anche le porte del suo centro storico al cinema, agli eventi, al turismo, iniziando così a entrare in itinerari di avventori curiosi di ripercorrere le tracce del suo passato.

Ed è per questo che spero che il borgo possa regalare, a tanti viandanti come me, momenti eterni come quelli donatimi in una calda domenica estiva, a tanti abitanti la voglia di restare nel paese natio per mantenere viva una storia gloriosa e aggiungervi altri motivi di pregio e di curiosità ma, soprattutto, mi auguro che possa fungere da modello trainante per tanti borghi dimenticati che, come Sermoneta, hanno racchiusi nel proprio “cuore” una profonda ricchezza dalle lontane origini tutta da scoprire e valorizzare. Non ci resta che andare a Sermoneta, anzi ritornarvi al più presto!

Il Borgo in fiore!
Il Borgo in fiore!

Gli scavi di Oplontis: l’arte e l’anima si appartengono.

I Borgonauti continuano le loro spedizioni alla scoperta delle bellezze del nostro territorio, facendo tappa questa volta a Torre Annunziata, dove è possibile lasciarsi stupire da alcuni scavi che, sebbene meno ampi di Ercolano e Pompei, ne condividono la storia come si può evincere dall’ arte pittorica e nell’ architettura del sito: parliamo degli scavi di Oplontis, ovvero un’antica area periferica e semi-urbana con ville ed edifici pubblici, che fu legata amministrativamente alla maestosa Pompei e che ne subì la stessa sorte, in seguito all’eruzione del Vesuvio del 79. Il suo patrimonio giacque quindi sepolto per secoli, fino a quando il fervore per le scoperte di Ercolano, Pompei e Stabia del XVIII indussero il potere borbonico ad incentivare le ricerche archeologiche nella zona vesuviana. Da quel principio, dopo una serie di interruzioni durate svariato tempi, emersero tra i maggiori ritrovamenti due strutture maestose: nel 1964 la Villa attribuita a Poppea (o Villa A), un sontuoso complesso residenziale, e nel 1974 la Villa di Lucius Crassius Tertius (o Villa B), appellativo riferito a colui che fu forse l’ultimo proprietario e il cui nome comparve su un sigillo in bronzo, emerso durante gli studi del sito. Quest’ultima, a differenza della Villa A, era presumibilmente un horreum, cioè un edificio destinato alle attività commerciali, ma provvisto anche di una sezione abitativa. Interessante è sapere che nella Villa B sono stati rinvenuti sia i resti di una cinquantina di persone che, al momento dell’eruzione avevano trovato riparo in attesa in attesa di soccorsi, sia i gioielli e le monete, detti “ori di Oplontis”, che i proprietari avevano portato con sé nella speranza di tornare presto a casa. Gli scavi delle due ville non sono ancora conclusi, impediti anche dal contesto urbano moderno.

La Villa d’otium di Poppea

Dal 1997 l’area archeologica di Torre Annunziata, insieme a quella di Pompei e Ercolano, è stata inserita nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO. La villa di Lucius purtroppo è chiusa al pubblico, mentre è possibile visitare la Villa A, che è stata attribuita a Poppea Sabina, seconda moglie dell’imperatore Nerone, in base ad un’iscrizione dipinta su un’anfora menzionante Sucundus, un suo schiavo o liberto.

Accesso alla Villa di Poppea.

La struttura, la cui parte più antica risale al I secolo A.C., era magnificamente decorata da affreschi, alcuni dei quali ancora ben conservati, da fontane, ampi giardini, sale con ricchi arredi. Essa era inoltre provvista di una vasta piscina e un centro termale, rappresentando così un luogo perfetto per l’otium.

Porticato della villa.

Da Borgonauta amo immaginare l’affascinate Poppea trascorrere piacevoli giornate in compagnia di illustri ospiti o godersi momenti rilassanti nell’impianto termale della costruzione: la mente prova a fantasticare su quanto questa donna di indiscusso fascino avrà goduto di una profonda quiete nel calidarium, ovvero la sala da bagno riscaldata con aria calda proveniente dalla vicina cucina, ornato al centro della parete da una splendida raffigurazione di Ercole nel giardino delle Esperidi, o nel tepidarium, cioè la stanza scaldata con aria tiepida, mentre i vapori le accarezzavano il viso.

Calidarium

Nel percorso di visita della villa, il pensiero ricrea il suono leggero della tunica dell’imperatrice e lo scalpiccio dei passi diretti all’atrio tuscanico, l’ingresso principale della villa, per accogliere al loro arrivo gli ospiti attesi. Mi piace pensare che allora, come oggi, chi arrivasse in questa stanza fosse rapito dagli affreschi sontuosi di II stile, rappresentati finti colonnati e porte, sormontati da quadretti pittorici di diversi paesaggi, che permettevano un prospettico ampliamento dello spazio. L’atrio ha conservato il compluvium, ossia di un’apertura sul tetto, grazie al quale era possibile la raccolta dell’acqua piovana in una vasca posta al centro della stanza: l’impluvium.

Affresco dell'atrio.
l'impluvium dell'atrio.

Durante la visita, quando si giunge nella sala da pranzo (triclinio), quasi riaffiorano gli echi delle parole dei commensali, sdraiati sui triclini, mentre scintillano le coppe preziose, colme di vino pregiato, e i profumi dei frutti serviti dagli schiavi. Questa pensiero è animato anche dallo sfondo delle pareti, che sono decorate con affreschi di realistiche colonne in marmo colorato con capitelli figurati. Nella scena pittorica emerge inoltre la rappresentazione di un cancello, oltre il quale si scorge un giardino, dove una colonna sorregge la statua di una divinità femminile, e un cestino di fichi, destinati alla dea come offerta.

Triclinio

Le giornate trascorrevano evidentemente in modo sereno e ogni angolo della grande villa si animava di passi che calpestavano i pavimenti di cocciopesto e spesso facevano sosta nei giardini, di cui ne è un esempio il piccolo e raccolto viridarium. Esso è circondato da un portico, provvisto di colonne, davanti alle quali erano presenti in origine rampicanti e sempreverdi e al centro un’aiuola ricca di fiori. In questo spazio, tipico delle ville d’otium, era possibile abbandonarsi alla meditazione e dedicarsi al riposo.

Viridarium
Prospettiva interna del viridarium.

La villa di Poppea conserva anche il peristilio: il cortile, la cui parte centrale aperta era occupata da una fontana adombrata da un grande castagno. Esso è affiancato da quattro corridoi, circondati da colonne. Pareti e colonne sono decorate con striature bianche e nere, a imitazione del marmo, che in origine rappresentavano un modello economico di decorazione. Intorno al peristilio si possono notare delle stanze di piccole dimensioni, destinate ai servi o usate come depositi. Sulla piccola fontana, che è presente al centro di questo cortile, probabilmente era collocata la statuetta del fanciullo con l’oca, ritrovata in uno dei porticati.

Peristilio
La fontana del peristilio.

Continuando la scoperta del sito, si giunge verso la parte più recente della villa, ovvero la piscina esterna, aggiunta verso la metà del I secolo d.C., la cui lunghezza di 61 metri ricorda le piscine olimpioniche. Accanto ad essa erano situati piccoli e rigogliosi giardini e delle stanze, sobriamente decorate, poste in questa zona appartata della struttura per far sì che gli ospiti beneficiassero della maggiore riservatezza possibile (hospitalia). Diversi studi hanno consentito di scoprire la ricca vegetazione originaria, che accompagnava le decorazioni architettoniche e le statue di ispirazione greca: oleandri, platani, olivi, cipressi, rose ed edere rampicanti. È possibile che questo ambiente della villa fosse utilizzato come gymnasium di stile greco, dove i presenti potevano dedicarsi agli esercizi atletici. Come si può non immedesimarsi negli ospiti della villa, che sguazzavano in acqua, o che leggevano in una delle stanze ad essi destinate?

La piscina.
Hospitalia.

Tutto nella sontuosa villa rianima un passato glorioso di arte, ricchezza e mistero: lo straordinario mondo romano, con il suo simbolismo magnetico, con gli usi e costumi, che hanno originato la nostra civiltà, emana in questo sito un fascino particolare, che si intreccia alla controversa immagine di Poppea, descritta dalle fonti come una donna di ineguagliabile bellezza e ambizione senza scrupoli. La villa è capace di suscitare emozioni contrastanti, alternando il senso di amarezza per il deterioramento, provocato dall’eruzione del Vesuvio e dallo scorrere del tempo, e il profondo stupore per i meravigliosi dettagli artistici e architettonici conservati. Per questo alla fine del percorso si comprendere una grande verità: l’arte e l’anima si appartengono.

Riflessioni conclusive: l’arte e l’anima si appartengono.

In questo periodo particolarmente difficile da affrontare, l’arte ha sacrificato il suo splendore in un abbandono simile al dormiveglia, attendendo tempi più sicuri in cui tornare alla vita. Noi Borgonauti consideriamo l’arte, in tutte le sue forme, e la storia come gli elementi fondanti dell’essenza umana ed è innegabile che le anime, seppur a causa di forze maggiori, abbiano perso un po’ della propria luce, a causa di questa mancanza: lo spirito ha bisogno d’arte perché, se è vero che gli uomini agiscono secondo ragione, è solo nutrendosi del sublime che possono elevare sé stessi. Troppo spesso capita che nei nostri tempi moderni si consideri indispensabile solo ciò che è immediatamente percepibile ed è capace di soddisfare i sensi in modo immediato. Eppure, noi Borgonauti vorremmo condividere un’altra idea: esistono sensazioni altrettanto appaganti, derivanti dalla contemplazione profonda delle testimonianze del nostro passato e dallo stupirsi delle più antiche manifestazioni dell’ingegno umano. L’anima dunque ha bisogno di arte, come l’arte ha bisogno delle anime, poiché da sola, priva di sguardi curiosi e amorevoli, muore. Essa, nel concedersi senza riserve, ci mostra la sua nobiltà e si presta come un accogliente rifugio per la nostra interiorità, in cui trovare protezione e sollievo, e lasciarsi andare all’abisso delle nostre emozioni. L’augurio, che guida il gruppo borgonauta, è che si protegga degnamente questo magnifico riparo, che ci ricorda costantemente il fascino della vita, poiché l’arte e l’anima si appartengono in un modo che la ragione non può comprendere e, quando questo legame si allenta, la natura dell’uomo inaridisce irrimediabilmente.

Marica Fiorito

Il Carnevale: dalle origini alla cucina

La storia

La parola ‘Carnevale’ deriva dal latino carnem levare che vuol dire ‘eliminare la carne’, poiché anticamente il banchetto si teneva il martedì grasso prima del digiuno della Quaresima (periodo in cui ci si astiene dal consumo della carne). Questa festa ha origini molto antiche ed incerte, che sembrano risalire all’epoca greco-romana durante il quale si tenevano cerimonie pagane in onore del dio Saturno, per propiziare l’inizio dell’anno agricolo. Durante queste feste ci si mascherava e ci si abbandonava ai piaceri dei sensi, mangiando, bevendo e divertendosi. Nel Medioevo i festeggiamenti furono mantenuti simili a quelli greco-romani, con la differenza che essi terminavano con il processo di un fantoccio come simbolo di espiazione dei mali commessi durante l’anno. Questi festeggiamenti sregolati, successivamente, non furono ben visti dalla Chiesta, che cercò in qualche modo di ridimensionarli. Così, il Carnevale cominciò ad essere rappresentato da compagnie di attori in maschera che a partire dal Cinquecento si esibivano nelle corti dei nobili.  

Arlecchino e Pulcinella: due facce della stessa medaglia

Arlecchino e Pulcinella, sebbene indossassero due costumi e modi di esprimersi diversi sono molto simili, sia per lo status sociale di appartenenza che per il rapporto che intercorre tra i due: il primo rappresenta il buono, il secondo il sfrontato e chiacchierone.

La storia di Arlecchino

Arlecchino era un bambino bergamasco che viveva in povertà con la sua mamma. Per Carnevale la sua scuola organizzò una festa durante la quale tutti i bambini avrebbero dovuto vestirsi in maschera. Arlecchino, purtroppo, non poteva permettersi una maschera, così la mamma chiese agli altri bambini un pezzo di stoffa tagliata dal loro vestito. In questo modo venne fuori il coloratissimo vestito di Arlecchino.

La storia di Pulcinella

La maschera di Pulcinella è tipicamente napoletana e le sue origini si avvolgono nella nube del mistero. Secondo alcune fonti il nome Pulcinella deriverebbe da ‘piccolo pulcino’ con riferimento al suo naso a becco. Secondo altre fonti, invece, Pulcinella deriva da Puccio d’Aniello, un attore di Acerra che nel Seicento si unì come buffone ad una compagnia di girovaghi del suo paese. Secondo altri ancora, la maschera di Pulcinella si ispirava alla maschera atellana di Maccus.

Sfizi culinari

Vogliamo lasciarvi, dopo aver letto questo breve e simpatico articolo, la nostra borgoricetta, tutta carnevalesca: le chiacchiere.

INGREDIENTI

  • 500 g di farina di tipo 00
  • 100 ml latte
  • 70 g di zucchero
  • 2 uova
  • 20 g burro
  • 20 g di liquore strega
  • 1 scorza di limone
  • Sale
  • Semi di arachide per friggere
  • Zucchero a velo

PROCEDIMENTO

  • Unire in una terrina: la farina, il burro, le uova, il latte, il liquore, lo zucchero ed un pizzico di sale.
  • Impastare fino ad ottenere un impasto liscio ed omogeneo che andrà avvolto nella pellicola trasparente e messo a riposare in frigo per almeno 30 minuti.
  • Dividere l’impasto in tanti pezzi e stendere ogni pezzo formando dei rettangoli (sarebbe meglio se ogni rettangolo venisse steso col tirapasta).
  • Tagliare le chiacchiere con una rondella.
  • Friggere le chiacchiere nell’olio caldo, scolarle e lasciarle raffreddare.
  • Infine cospargerle di zucchero a velo e servirle.

Vi auguriamo un buon Carnevale!

Ilaria P.

Immagine copertina

Il Borgo che non c’è

«Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.»

Italo Calvino, Le città invisibili.

"È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure"
"È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure"
"L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose"

È interessante notare come la mente umana, una volta chiusa nel recinto delle norme civili sanitarie, lasci spazio a un impeto di ribellione creativa che esula dalle forme congeniali del comunemente costruito. In termini di costruzione l’immaginazione è semplicemente la cosa più dolce che la natura ci ha donato, è il fondamento per ripartire oltre una costruzione imposta… è un atto di evasione/ribellione.

Rettangoli, quadrati, coni, cerchi, triangoli, forme geometriche costruite per creare ordine, un’“architettura spontanea”, un’esigenza di sorreggersi su ogni base, su ogni raggio: è sorprendente considerare come si possa essere architetti per un giorno!

"Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano..."
"Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano..."
"Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone"

Basta mettere a frutto il principio della Fantasia, e osservare come il vento, anche nel deserto, possa scolpire dolci dune dove l’ombra gioca con il sole. Anche la natura possiede la Fantasia, ne sono certo. La Fantasia ha permesso di cogliere il senso dell’armonia: molto spesso interi borghi sono incastonati come pietre preziose su anelli di granito o di tufo, lì splendono spesso dopo un lungo temporale con un corridoio arcobaleno che li sovrasta. 

Nei borghi vedremo persone restie a interloquire con i viandanti, ma dopo aver scoperto la meraviglia negli occhi degli osservatori, i nativi di queste lande si lanciano nell’apologia di gesta di questi spazi, dove storie d’amore si confondono con il gusto dei piatti della tradizione, e quel sentimento di abbandono che traspare dai loro volti diventa una forma di ribellione, riscoprendo l’orgoglio di un tempo che fu, quando nei  centri così nascosti v’era un senso di comunità, dove si improvvisavano teatrini, concertini e carnevali. Tutto vive dove c’è fantasia, ma questa ha bisogno di essere condivisa e nutrita. Le risposte che i territori ci danno sono il succo dell’abitare. Spesso nelle società dell’informazione il cibo di cui ci nutriamo è il servizio, le cose vicine… La vicinanza è il recinto, ma la fantasia spesso ha bisogno di infiniti da comprimere nel nostro cuore. Grandi città pochi spazi, piccoli borghi grandi spazi.

"Ogni volta che si entra nella piazza ci si trova in mezzo ad un dialogo"
"Non c'è linguaggio senza inganno"
"Non c'è linguaggio senza inganno"

Ogni borgo è fatto di leggende e di misteri, di signore con il fazzoletto ricamato sul capo prima di entrare in chiesa, da dispute su come far crescere meglio i pomodori tra i vecchietti orticoltori, dalle faide tra le famiglie per un amore che non doveva nascere o per quelli nati in clandestinità, dai ragazzi che corrono nelle grandi metropoli per aprire i loro orizzonti e quest’ultimi inselvatichiti o uniformati. 

I borghi nacquero per proteggersi dall’esterno, dall’altro, dalla paura hanno tratto l’elemento più bello quale può essere un castello, una chiesa dove rinchiudersi per proteggere l’anima, una terra da addomesticare lì dove salendo verso il cielo l’aria diventa sempre più rara e quindi anche il sostegno della terra. 

"Viaggiando ci s'accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti"
Intaglio di Armando Lasso

Oggi c’è una riscoperta dei borghi, ma non una riscoperta del viverci, si corre il rischio di renderli luoghi vuoti, perché spopolati, angoli dove neanche i gatti possano sostare sui giacigli delle case, dove le storie sulle streghe e sui miti della foresta restino una storia antica non più narrata.

Se muore il borgo, muore un mondo, lasciando vivere un unico e comodo sogno. Se il primo è nato dalla paura, un desiderio così profondo, il secondo nasce dalla razionalità non per la vita ma per l’economia.

*Le didascalie sono citazioni tratte dal bellissimo libro “Le città invisibili” di Italo Calvino

Viaggio nel cuore del Vulture: Venosa, l’antica patria di Orazio

Una delle peggiori tragedie dell’umanità è quella di rimandare il momento di cominciare a vivere. Sogniamo tutti giardini incantati al di là dell’orizzonte, invece di goderci la vista delle aiuole in fiore sotto le nostre finestre.” (cit. Quinto Orazio Flacco).

Questi sono solo alcuni dei versi di Orazio, l’intellettuale latino del “carpe diem” che invita a non fidarsi del futuro ma invece ci spinge ad assaporare ogni momento della vita presente. Il sommo poeta ci incita ancora oggi a brindare con il suo Nunc est bibendum, “Ora è il momento di bere”, e nelle sue liriche piene di sentimento non dimenticò di citare le bellezze naturali della sua terra, porta di confine tra antica Apulia, Lucania e Sannio, facendo spesso riferimento alla dolcezza dei boschi della sua patria.

 E oggi è proprio dell’antica colonia romana di Venosa che vogliamo parlare, per ripercorrerne insieme la storia e soprattutto riviverne la bellezza.

Infatti ogni strada, ogni vicolo, ogni angolo, ogni monumento del borgo senza tempo di Venosa sono espressione della cultura che nei secoli ha permeato la città, dando origine a espressioni artistiche e architettoniche di incredibile valore.

SULLE TRACCE DI ORAZIO – ARIA DI POESIA

Gli abitanti di Venosa hanno sempre sentito molte forte il legame con l’antico poeta Orazio tanto da dedicargli una delle più importanti piazze del paese al cui centro hanno collocato una sua statua, sotto cui troviamo la seguente epigrafe: “Nacqui l’8 Dicembre del 65 a.C. presso Venosa del Vulture al confine con la Lucania”.

Anche se Orazio trascorse a Roma, in qualità di intellettuale del Circolo di Mecenate, la maggior parte della sua vita, abbiamo a Venosa numerose tracce delle sue origini a partire da quella che la tradizione indica essere la sua casa nativa. Le sue opere sono piene di riferimenti ai luoghi dell’infanzia, la mitica “Fons Bandusiae”, “il procelloso Ofanto”, “l’infido Adriatico” oltre alle già citate “selve del Vulture”, luogo del cuore in cui dove il poeta rimembra le corse da bambino.

Orazio poeta Venosa
Versi del Poeta Orazio
UN PASSO INDIETRO NEI SECOLI
Etimologia ed epoca romana

La storica città di Venusia, il cui nome secondo alcuni sarebbe stato dato dall’eroe Troiano Diomede in onore di Venus, la dea della bellezza e dell’amore, per placare l’ira della Dea offesa nella guerra di Troia, mentre secondo altri trarrebbe origine da “vinum” in riferimento all’abbondanza e alla bontà dei suoi vini, risulta esistente già dal Paleolitico Inferiore, come dimostrato anche dal ritrovamento di reperti preistorici in località Loreto. Un’altra ipotesi è che il nome sia legato alle vene d’acqua da cui il borgo è attraversato.

Grazie al processo di romanizzazione, iniziato nel 291 a.C. con il prolungamento della Via Appia, il centro acquistò importanza fino a divenire un Municipium. A partire dal 70 d.C., si verificò anche la formazione di una colonia ebraica, testimonianza straordinaria di incroci di popoli come si può notare sulla collina della Maddalena, appena fuori dalle mura fortificate: qui sono visitabili ancora nelle sue cavità sia le sepolture ebree sia quelle degli abitanti cristiani.

Dal Medioevo ai nostri giorni

Nell’Alto medioevo, Venosa fu occupata dai Longobardi e dai Bizantini e, successivamente, subì ripetute incursioni Saracene. Qui nacque Manfredi Lancia Hohenstaufen, figlio naturale di Federico II e Bianca Lancia. Il momento di svolta si ebbe durante la dominazione normanna, grazie anche alla presenza benedettina, periodo durante cui si sviluppa il complesso della Santissima Trinità, il monumento storico più importante della città oraziana.

Con gli Angioini Venosa passa agli Orsini e sarà fondamentale per la cittadina la presenza del duca Pirro del Balzo, il quale che fece edificare il castello, costruito dal 1460 al 1470 insieme alla cattedrale di Sant’Andrea, la quale sarà terminata nel 1502 e consacrata nel 1531.

Ai Del Balzo seguirono i Gesualdo, feudatari e principi di Venosa e tra XVIII e XIX secolo Venosa passò dai Ludovisi ai Caracciolo finché nel 1820 ebbe una buona rappresentanza della carboneria, mentre con l’Unità d’Italia, nel 1861, fu conquistata dai briganti del rionerese Carmine Crocco.

RESPIRANDO ARTE

Quasi tutte le strade della città portano alla piazza centrale, Piazza Umberto I, dov’è possibile visitare il castello di Pirro del Balzo, circondato da un profondo fossato, oggi sede della Biblioteca nazionale e del Museo archeologico nazionale.

Castello Venosa
Il Castello di Pirro del Balzo

Nel punto in cui è collocato il castello nel 1042 dodici signori normanni si spartirono il territorio lucano e pugliese. Qui vi era prima una antica Cattedrale romanica, dedicata a san Felice, il santo che visse il martirio a Venosa ai tempi di Diocleziano, la quale fu abbattuta per far posto al maniero costruito quando, nel 1443, Venosa venne portata in dote da Maria Donata Orsini a Pirro del Balzo, figlio del duca di Andria.

Il Castello di Pirro del Balzo

In origine vi era una fortificazione a pianta quadrata, difesa da una cinta muraria dello spessore di 3 metri, con torri cilindriche angolari, priva degli stessi bastioni che furono completati nella metà del secolo successivo. Anche se il castello nacque come baluardo difensivo, successivamente, con i Gesualdo divenne dimora del feudatario. In seguito ai danni subiti per scosse sismiche nel corso dei Seicento, la roccaforte venne ricostruita dai Caracciolo con l’aggiunta di nuove parti come l’elegante loggiato al piano nobile, nell’intento di riaffermare il potere signorile sulla città che rimpiangeva i vanti del glorioso passato.

Oggi quando ci si accinge a visitare il Museo posto all’interno, all’inizio del ponte di accesso, si possono vedere due teste di leone provenienti dalle rovine romane: passeggiando per le stradine di Venosa si incontra spesso questo elemento ornamentale ricorrente in un borgo che è ricco di statue, incisioni e blocchi di pietra antichi situati in contesti nuovi, fuori dal tempo, grazie alla politica attuata in passato di costruire e restaurare attingendo dai materiali delle rovine antiche. Possiamo notare la presenza del leone in pietra anche nella famosa fontana di Messer Oto, edificata tra il 1313 e il 1314, a seguito del privilegio concesso dal re Roberto I d’Angiò con cui si consentiva alla città di avere le fontane nel centro abitato.

Fontana Venosa Messer OTO
Fontana di Messer Oto
IL SIGNIFICATO SIMBOLICO DEL LEONE

Il leone guardiano di un luogo sacro. Partendo dalla convinzione che i leoni nascessero con gli occhi aperti (Plutarco), era diffusa nell’antichità la credenza che questi fossero aperti sempre; ecco perché le loro statue venivano poste a guardia di un luogo sacro. Tale tradizione continuò anche in epoca cristiana, come testimoniano le coppie di leoni collocate in epoca medievale ai lati dell’ingresso delle chiese romane.

Il leone simbolo di resurrezione. In base alla lettura del “Physiologus“, un bestiario alessandrino del II/IV secolo d.C. che raccoglieva descrizioni di animali molto più antiche e spesso inattendibili, la leonessa partoriva morto il suo piccolo, quindi lo vegliava per tre giorni finché arrivava il padre che gli soffiava sul volto, donandogli la vita (Aristotele e Plinio il Vecchio). Questa antica tradizione spiega per quale motivo il leone fosse spesso rappresentato nelle religioni salvifiche (culto di Iside, culto di Cibele e cristianesimo).

 

La possibilità di incrociare ad ogni passo elementi appartenenti a un altro tempo rende particolarmente suggestiva la passeggiata a Venosa perché si ha la costante e crescente sensazione di attraversare nello stesso momento molti tempi diversi e, nel frattempo, di essere in un borgo senza tempo.

Uscendo dal castello, alla sua destra, si può ammirare la facciata barocca della Chiesa del Purgatorio detta anche Chiesa di San Filippo Neri, edificio di culto che piacque così tanto agli abitanti di Venosa che costruirono anche una statua per il cardinale Giovan Battista De Luca che lo volle edificare, ponendola davanti alla chiesa. Possiamo anche ammirare una delle fontane storiche del borgo, la fontana Angioina o dei Pilieri, situata nel luogo dal quale, fino al 1842, si accedeva alla città attraverso la porta cittadina detta appunto “fontana”.

Angolo del Castello
Angolo del Castello
Chiesa del Purgatorio
Chiesa del Purgatorio
La Cattedrale

Continuando a passeggiare dopo aver costeggiato la chiesa, si può imboccare via Vittorio Emanuele e dopo aver percorso la strada, soffermandosi sui vari pannelli dedicati al poeta Orazio, si giunge a Largo Vescovado dove non si può non osservare l’imponente Cattedrale di Sant’Andrea Apostolo, chiesa costituita da tre navate modulate da archi a sesto acuto, edificata a partire dal 1470. Da notare il campanile annesso alto 42 metri a tre piani cubici e due a prisma ottagonali, una cuspide piramidale con grande sfera metallica in cima, sormontata da una croce con banderuola. Sempre per la politica di riuso dei materiali a cui ho già fatto riferimento il materiale per la costruzione fu preso dall’Anfiteatro Romano e questo spiega il perché siano inseriti dentro le pareti dell’edificio iscrizioni latine, e pietre funerarie.

Cattedrale san Andrea Apostolo
Il Campanile della Cattedrale di Sant'Andrea Apostolo

Ma il fiore all’occhiello del borgo è in località San Rocco, uno spazio che sembra essere rimasto aggrappato a un altro mondo, proiettando il visitatore in una specie di dimensione multitemporale: a pochi metri l’uno dall’altra possiamo infatti osservare l’antico parco archeologico, la chiesa dell’Incompiuta e la splendida Abbazia della Trinità, luoghi sacri fortemente legati all’origine della dinastia normanna.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DI VENOSA

Dalla chiesa di San Rocco è possibile accedere al parco archeologico che racchiude i resti monumentali della colonia latina di Venusia dal Periodo repubblicano all’Età medievale. Proprio il fatto che ci sia stata un’assenza di sovrapposizioni edilizie sull’area urbanizzata, tra il Periodo romano repubblicano e l’Età medievale inoltrata fa del parco archeologico un unicum in Italia per quanto concerne le città esistenti le cui origini risalgono a prima di Cristo. Anche questo aspetto contribuisce a rendere Venosa un borgo senza tempo.

Il Parco archeologico
Il Parco archeologico

All’interno del parco ci sono le terme realizzate nel I sec. d.C. e ristrutturate fino al III sec. d.C., i quartieri abitativi, tra cui una domus con mosaici e un isolato delimitato da due assi viari basolati. Sulla parte opposta della strada che taglia in due l’area archeologica sorgeva l’Anfiteatro, di forma ellittica, la cui costruzione può farsi risalire all’età giulio-claudia per le parti in muratura in opera reticolata, all’età traiana-adrianea per l’opera muraria mista. Dopo il periodo romano l’anfiteatro fu smontato pezzo per pezzo e i materiali sottratti furono usati per qualificare l’ambiente urbano della città e quindi si sono conservate le tracce solo dell’antica forma che prevedeva tre piani.

L’ABBAZIA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ

Si erge come una sorta di fondale maestoso del percorso del parco archeologico l’Abbazia della Santissima Trinità, integralmente restaurata, eccezionale per il fatto di conservare in sé tutte le sue diverse fasi costruttive, con il conseguente suggestivo incrocio di stili: dalla domus romana imperiale al complesso episcopale paleocristiano testimoniato pavimento e dal mosaico all’ingresso della chiesa, all’impianto abbaziale benedettino risalente all’epoca normanna fino alle tracce lasciate dai Cavalieri di Malta che vi soggiornarono fino al 1800.

Incompiuta
L'Incompiuta

La parte posteriore dell’Abbazia è occupata dalla chiesa dell’Incompiuta che resta l’unico caso visibile di un fenomeno che normalmente si doveva verificare quando si costruiva una chiesa nuova sul luogo di una più vecchia: si lasciava in piedi la prima fino al momento in cui la nuova non fosse in grado di assumere le funzioni di quella più antica. La chiesa nuova fu iniziata dai Benedettini con l’idea di ampliare la chiesa precedente e costruire un’unica vasta basilica. I lavori s’interruppero per probabili problemi economici e perché i Benedettini furono costretti nel 1297 a lasciare Venosa per volere di Bonifacio quando ormai erano stati alzati i muri perimetrali e i pilastri. Il colpo d’occhio dell’Incompiuta oggi è mozzafiato, con le mura che disegnano il perfetto profilo di una grande croce e delimitano un’area che ha per pavimento il prato e al di sopra esclusivamente il cielo.

Vista sul Parco archeologico e la chiesa di San Rocco dall'Incompiuta
Affresco all'interno dell'Abbazia della Santissima Trinità
LE CURIOSITÀ LEGATE ALL’ABBAZIA
La colonna dell’amicizia e dell’amore

“Siete andati a girare la pietra?” Fino a poco tempo a Venosa invece di chiedere a una coppia se si fosse sposata si era solito chiedere ai fidanzati se fossero andati a “girare la pietra” nell’Abbazia della Santissima Trinità, dove è collocata una colonna detta colonna dell’amicizia, attorno alla quale sono avvolte tante braccia: la leggenda prediceva che se due persone avessero abbracciato la colonna prendendosi reciprocamente la mani sarebbero state legate da eterna amicizia. Dall’amicizia poi l’auspicio si è focalizzato sui matrimoni in quanto la credenza voleva se fossero stati i coniugi ad abbracciarsi attorno alla colonna ciò avrebbe suggellato in modo sacrale l’unione. Ancora oggi ci sono donne inoltre che, non riuscendo ad avere figli, vanno a strofinarsi sulla colonna con un triplo giro per evocare un antico rito di amore e fertilità.

Il ripudio di Alberada

All’interno dell’Abbazia nella navata sinistra c’è un’elegante tomba marmorea, quella di Alberada, moglie ripudiata da Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo. Su di essa c’è un’incisione: “Se stai cercando mio figlio puoi trovarlo a Venosa”. Il figlio citato altri non era che Boemondo, famoso condottiero di cui parlò anche Tasso nella Gerusalemme liberata. Il destino ha voluto che nella navata destra ci fossero invece proprio le tombe degli Altavilla e secondo alcune fonti non certe e da verificare vi sarebbero sepolti anche i corpi del Guiscardo e dei suoi tre fratelli.

Interno dell'Abbazia della Santissima Trinità
Interno dell'Abbazia della Santissima Trinità
Particolare all'interno dell'Abbazia
Dettaglio affresco interno all'Abbazia
LA NUOVA VITA DEL BORGO

Tanti sono stati finora i richiami ai segni tangibili della storia e del glorioso passato del borgo. Ma come e dove si svolge oggi la vita della cittadina? Venosa è un borgo piccolo e compatto che può essere attraversato a piedi piacevolmente, abbandonando le arterie e le piazze principali e perdendosi nel folto e intricato gomitolo di vicoli che si snodano dalle vie maggiori. Purtroppo proprio questi vicoli storici sono stati negli anni oggetto di spopolamento. Eppure era proprio qui che si svolgeva in passato la vita della comunità: spazi animati dal mercato del pesce, donne dirette verso le piccole chiese, grotte che conservavano vino e dimore dei braccianti agricoli.

Anche per riqualificare questa realtà è nata a Venosa l’Associazione familiari antistigma “Alda Merini. La onlus nacque nel 2009 per iniziativa di alcuni genitori di pazienti affetti da disturbi psichici; l’obiettivo era cancellare lo stigma della malattia mentale e favorire progetti culturali e sociali di inclusione. Il motto ispiratore dell’associazione due versi: “dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fiori” tratti dal brano Via del campo di Fabrizio De André. Sulla scia di queste note e dei versi oraziani si è dato vita nel borgo lucano a un progetto di miglioramento degli spazi urbani mediante l’arte.

Progetti di valorizzazione

Ad esempio nel 2016 per contro-invertire la tendenza all’isolamento del centro storico alcuni artisti hanno deciso di lavorare per creare un contesto attrattivo partendo da materiale da riciclo al fine di realizzare opere da posizionare sui muri di case vuote. Tutti scelsero di ritrarre lo stesso soggetto: un angelo, figura di confine fra terra e cielo e così nel 2018 Venosa ha inaugurato vico degli Angeli.

Nei vicoletti si osservano volti conosciuti, come quello della pittrice messicana Frida Kahlo o quello di Anna Frank. Non solo immagini, ma anche parole colorano il centro disabitato: è possibile imbattersi in versi, citazioni, strofe o dipinti su porte, panchine, facciate delle case.

corcio sul Vico degli angeli
Scorcio sul Vico degli angeli
Porta con le parole di Frida Kahlo
Interno di una bottega venosina
Panchine "parlanti"
Panchine "parlanti"

Inoltre tra i progetti permanenti del borgo che ho particolarmente amato la “Biblioteca del vicolo”, una casetta in legno situata in varie stradine che sollecita il bookcrossing e lo spirito di condivisione, invitando a prendere un libro posto da qualche passante sui ripiani lasciandone un altro al suo posto.

Tutte le iniziative artistiche e sociali ammirate a Venosa hanno lasciato la speranza che il borgo possa vivere una rinascita in linea con la sua millenaria storia. 

Soluzione onirica

Proprio di recente ho scoperto con gioia che qualche mese fa in largo Manfredi, nel cuore del centro storico della città di Orazio, le mura si sono colorate grazie all’intervento artistico della giovane venosina Rossana D’Andretta, laureanda in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. La giovane artista ha voluto lanciare un messaggio ai giovani residenti o di passaggio nella sua città di origine. Soluzione onirica è il nome del murales fatto dalla pittrice in collaborazione con l’Associazione familiare antistigma “Alda Merini”, che ha voluto ospitare sulla facciata della nuova sede questa manifestazione di speranza. Si pensa di creare all’interno di questo spazio un atelier di pittura per bambini affetti dallo spettro autistico, che non vediamo l’ora sia realizzato.

Biblioteca del Largo
Biblioteca del Vicolo

Venosa è un borgo in cui è piacevole rifugiarsi anche solo per passeggiare tra le viuzze, passare sotto gli archi, leggere i molteplici messaggi custoditi dalla città, chiacchierare con i proprietari delle botteghe come il simpaticissimo ed eccentrico Moreno proprietario di uno di quei luoghi in cui puoi trovare di tutto dagli abiti e i gioielli da cerimonia agli oggetti di antiquariato, scena o arredo, fermarsi in una delle spettacolari trattorie del borgo a degustare i fantastici prodotti della tradizione enologica e culinaria lucana.

PROFUMI E SAPORI DEL TERRITORIO

Se infatti la città oraziana può incantare viaggiatori di passaggio con la ricchezza del suo patrimonio artistico, non si può non riconoscere che altrettanto ricca sia la produzione della sua terra. I piatti tipici di Venosa sono legati a ricette che appartengono alla cultura popolare dei lucani, all’insegna di radici antiche e ingredienti del contado. In un’economia povera come è stata sempre quella lucana, il “primo piatto” ha sempre rivestito un ruolo da protagonista, di solito realizzato con pasta fatta in casa unita a legumi o verdure.

 Alcuni piatti che è impossibile non citare
  • Cavatelli con le cime di rape, pasta fatta in casa con cime di rape e con soffritto di aglio olio e peperoncino (c’è anche la versione con l’aggiunta di peperone crusco).
  • Lagane e ceci, fatti con farina di grano duro, ceci, aglio, pomodori, olio di oliva, sale e una foglia di alloro, una piatto anche detto “piatto del brigante”. Secondo i racconti popolari infatti sembra che i briganti, che infestavano nella seconda metà del XIX secolo i boschi del Vulture, fossero soprannominati “scolalagne” per le grandi abbuffate di pasta.
  • Strascinati mollicati, nati dalle mani delle massaie che con passione si dedicavano di buon mattino alla preparazione di questa pasta “povera”, fatta senza uova, ma esclusivamente con acqua e farina, probabilmente devono il proprio formato di pasta alle orecchiette baresi. Qui questa pasta casereccia ha subìto una rielaborazione diventando leggermente più spessa e dalla forma più larga rispetto alle orecchiette di un tempo. Se gli strascinati erano accompagnati per lo più ad ortaggi e verdure oggi si accompagnano a cavolo, pomodoro e mollica fritta, donde il nome di “strascinati mollicati”.
  • U Cutturidd, carne di pecora (i pastori utilizzavano spesso carne di animali vecchi e improduttivi) aromatizzata con olio, lardo, pomodori, cipolla, patate, peperoncino, prezzemolo e caciocavallo podolico stagionato.
  • Baccalà con peperoni cruschi, il piatto emblema della Basilicata: baccalà lessato con aggiunta di peperoni crusci soffritti nell’olio EVO
Aglianico del Vulture

Se la cucina offre grandi specialità possiamo non ricordare che Venosa ha uno dei maggiori vitigni italiani grazie alla produzione di Aglianico del Vulture?

Il rapporto con il vino

L’Aglianico venosino è tra i maggiori vini rossi DOCG d’Italia grazie al perfetto connubio tra la ricca ed equilibrata composizione del terreno di origine vulcanica tipica del Vulture e il clima delle dolci colline di Venosa. Ha un colore rosso rubino con riflessi violacei e un sapore vellutato e tannico. Nel periodo romano l’importanza di questo vino è testimoniata da una moneta bronzea, coniata nella città di Venusia nel IV secolo a.C., raffigurante Dionisio che regge con una mano un grappolo di uva e il monogramma VE.

Ritorniamo allora ad alcuni dei tanti versi che il poeta Orazio dedicò al vino della sua città nativa: «Il vino è un gran cavallo, per un poeta lepido; ma se tu berrai acqua, non partorirai nulla di buono». Immergendomi in questo spirito simposiale,  l’augurio che rivolgo a me stessa, ai miei amici borgonauti e a tutti noi è di tornare presto a viaggiare, calpestare il suolo di una cittadina come quella di Venosa e brindare con un grande calice di vino alla storia millenaria che si respira in questo borgo senza tempo, all’altezza della quale potremo essere solo se riusciremo a far sì che luoghi come Venosa non siano musei o bomboniere da ammirare ma luoghi sempre vivi e attivi che possano continuare ad essere teatro della storia presente e futura.

Casali di Faicchio: la Betlemme del Sannio

“Gli uomini si dividono in uomini d’amore e uomini di libertà, a seconda se preferiscono vivere abbracciati l’uno con l’altro oppure preferiscono vivere da soli per non essere scocciati. […] Come si fa a riconoscere se un uomo è o non è un uomo di libertà? È semplicissimo: l’uomo di libertà preferisce l’albero di Natale; l’uomo d’amore invece preferisce il Presepe.” (Tratto da Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo). 

L’albero di Natale ha sicuramente il suo fascino: ci sono quelli più eleganti e quelli più pacchiani, quelli piccini e quelli giganti…ma al di là di questi particolari, ciò che rende unico questo simbolo natalizio sono le luci che fanno illuminare di gioia i bambini, sia quelli piccoli sia quelli divenuti ormai adulti come me. Amo ad esempio passeggiare per le strade del paese e curiosare se dalle finestre si intravedano gli alberi con le lucine tutte colorate.

Ma il presepe è un’altra cosa…le luci diventano più soffuse e l’atmosfera più intima nonostante la vivacità dei pastori che per magia sembrano prendere vita. Mi è sempre piaciuto osservarli e pensare che improvvisamente potessi chiacchierare con la lavandaia o la signora che cammina con le uova nel paniere oppure entrare nella piccola locanda e mangiare in compagnia. Tuttavia, il mio personaggio preferito è il pastore che dorme, con il calore delle morbide pecore, nella vallata di una montagna e non vuole essere disturbato… forse sono anche io una donna di libertà!

Perdonatemi questi sentimentalismi ma il presepe è arte e in quanto tale mi suscita molte emozioni, soprattutto la nostalgia dell’infanzia. Ricordo che per le strade riecheggiavano i suoni antichi degli zampognari che arrivavano dagli Appennini del dimenticato Molise ed era bello accogliere o essere accolti dal vicinato per ascoltare insieme la novena e contemplare il presepe. Oggi solo jazz natalizio in filodiffusione per le avenue delle piccole e grandi città.

Per chi ama il presepe e vuole essere catapultato in questo mondo mitico, non c’è bisogno di chiedere ad una macchina del tempo di percorrere 2000 anni e tanti chilometri per raggiungere la Terra Santa, basta andare a Casali di Faicchio, la Betlemme del Sannio.

Antica stalla
Bottega del fornaio

PRESEPE VIVENTE

Tra le “vittime” del coronavirus del 2020 c’è anche il Presepe vivente di Casali, frazione del comune di Faicchio, che quest’anno avrebbe festeggiato il suo 25°anniversario. Il borgo storico nel mese  di dicembre fa da scenario all’evento della natività e attira numerosi visitatori che giungono in questo luogo  per vivere la magia di un lontano passato ed accogliere il messaggio di speranza che ogni anno si rinnova in occasione del Natale.

Entrati nel borgo si compie un vero viaggio indietro nel tempo che permette di rivivere  la suggestiva atmosfera di Betlemme:  gli antichi mestieri rianimano i vicoli del borgo e persino il danaro è quello di un tempo. All’ingresso infatti, si può ritirare ai Cambiavalute il “denario”, la moneta antica coniata apposta per la manifestazione.

I denari
Erborista

Lungo il percorso ci sono i pastori, con suggestivi abiti d’epoca, che ti ricevono con le movenze tipiche del loro antico mestiere:  contadini che battono il grano a mano con un  preciso rituale collettivo, massaie intente nei lavori domestici,  lavandaie ridenti e generose, il ciabattino con l’incalzante ticchettio dei suoi arnesi, il fabbro riscaldato dal fuoco delle sue fornaci, il falegname nella bottega pittoresca, il fornaio e il suo pane caldo, il fruttivendolo con la sua bancarella vivace e tanti altri artigiani…

Lavandaie
Rito battitura del grano
Artigiano del legno

C’è poi l’erborista con le sue essenze profumate e le deliziose locande dove si possono degustare i prodotti tipici locali. Ci sono aree ristoro dove comodamente si può consumare un pasto caldo oppure si può stuzzicare durante la passeggiata con frittelle cotte e mangiate, mandarini odorosi, castagne, del buon formaggio e dell’ottimo vino. Si possono inoltre visitare le cantine del posto e l’antico frantoio del paese costruito con travi in legno e macigni di pietra…una vera opera d’arte!

Caldarroste
Peccati di gola

Ma parliamo adesso dei personaggi emblematici del presepe: 

Erode nel suo palazzo in compagnia di donne bellissime con veli danzanti e dall’irresistibile fascino orientale. I Re Magi dagli abiti preziosi, con mantelli colorati e ricchi doni siedono in un’area dove viene ricreata una scenografia dall’atmosfera un po’ esotica con cammelli e palme giganti. Ed è qui che pazientemente si lasciano fotografare perché ognuno  abbia la propria foto ricordo del Presepe Vivente di Casali di Faicchio. 

I Re Magi
Palazzo di Erode

Arriviamo infine davanti alla Grotta della Natività, una scena semplice ma con un forte carico emozionale. A fare da cornice alle figure di Maria, San Giuseppe e il piccolo Gesù, un bambino tenerissimo, ci sono il bue e l’asinello. Il respiro dei due animali riscalda la grotta e con la loro indole mansueta regalano tanta serenità. In sottofondo le note degli zampognari, la luce intensa della  Stella Cometa e il cielo delle fredde notti d’inverno creano un clima fiabesco ed è tutto meraviglioso!

Grotta della Natività
Zampognaro

L’augurio per questo Natale è che sia di vera rinascita: che si possa presto rivivere l’emozione di abbracciare gli amici e magari di incontrarci il prossimo anno tra le stradine di questo splendido borgo. 

Casertavecchia: itinerario di arte, storia e riflessione

I Borgonauti oggi raccontano di un borgo medievale, che ospita meno di duecento abitanti, situato a poca distanza dalla città di Caserta. Trovandosi alle pendici dei monti Tifatini, il percorso per raggiungerlo è leggermente tortuoso, ma la bellezza antica del luogo e dei suoi panorami ripaga sempre ogni visitatore. Parliamo di quella che oggi è conosciuta come Casertavecchia ma che nel Medioevo, prima che la denominazione passasse al nuovo centro abitato della pianura, era chiamata semplicemente Caserta. Non si hanno notizie certe sulle origini del borgo, ma è possibile ritrovarne delle tracce nello scritto Historia Langobardorum Beneventanorum del monaco benedettino Erchemperto, il quale indica già nell’ 861 d.C. un nucleo urbano, denominato Casahirta, dove attualmente si trova Casertavecchia. Tale espressione latina è da tradursi in “villaggio ispido o erto”, con probabile riferimento alla sua collocazione in altura o di difficile accesso.
Il Casahirta ha una storia ricca di mutamenti e alcune di essi hanno lasciato il segno di un importante sviluppo, come il secolo IX in cui le incursioni saracene e le devastazioni di Capua indussero gli abitanti e il clero delle zone circostanti a trasferirsi a Casertavecchia per godere di un rifugio sicuro. A seguito di ciò, infatti, la popolazione aumentò in modo così significativo da determinare il trasferimento della sede vescovile all’interno del borgo. Altra tappa storica importante fu l’occupazione normanna, capeggiata da Riccardo I di Aversa, che segnò una forte crescita del sito: è a questo periodo che risale, ad esempio, la costruzione dell’attuale Cattedrale di San Michele Arcangelo. Il florido progresso continuò poi con la dominazione Sveva: il borgo aumentò il proprio prestigio, grazie alla figura e alla politica del consigliere di Federico II e conte di Caserta, Riccardo de Lauro. A queste fasi di splendore subentrò poi un lungo e lento declino, cominciato col dominio Aragonese, durante il quale la vita incominciò a svilupparsi progressivamente in pianura. A Casertavecchia permase allora solo il vescovato e il seminario, che poi nell’anno 1842, per volere di Papa Gregorio XVI, furono anch’essi trasferiti nell’attuale Caserta. Il borgo si spopolò definitamente, quando i Borbone resero la città sede della bellissima Reggia, consacrandola a nuovo cuore pulsante dell’attività politica e sociale. Sarà poi dal 1960, anno dell’inserimento del luogo nella lista dei monumenti nazionali italiani, che Casertavecchia ritornerà al centro dell’interesse, seppur in maggioranza turistico, di quella stessa vita che per lungo tempo l’aveva trascurata.

Il percorso di mistero e fascino

Chiunque decida di farsi stupire da Casahirta, viene subito accontentato, perché si imbatte immediatamente in una chiesetta, posta al centro strada: la Cappella di San Rocco. Parliamo di una struttura religiosa, risalente secondo gli storici al XVII secolo, realizzata in omaggio all’omonimo santo. La costruzione ha fattezze delicate e sobrie: possiede un portico, un piccolo campanile e un unico affresco decorativo esterno, raffigurante una bellissima Madonna. La cappella è aperta al pubblico il 16 di agosto, giorno in cui si celebra la figura di San Rocco, e si ha la possibilità di scorgere un antico crocifisso ligneo, la statua del santo e quegli affreschi, realizzati tra il XVII e XVIII secolo, che hanno resistito al logoramento del tempo. La cappella con la sua semplicità insinua nell’animo di chi osserva il desiderio di ammirarla da vicino per capirne i segreti, cancellati dell’incuria e dalla solitudine. Comincia così generalmente una passeggiata a Casertavecchia: con lo stupore e la smania di scoperta.

La Cappella di San Rocco
Affreschi interni della Cappella di San Rocco

Proprio allora con il cuore carico di impazienza, si può proseguire verso un’altra meraviglia architettonica, che, imponente, si lascia ammirare dal visitatore con regale distacco: la torre normanna. Secondo alcuni studiosi, la sua costruzione fu ordinata da Riccardo di Lauro, grazie al quale il borgo conserva ancora oggi un torrione cilindrico, che con i suoi 32 metri di altezza ed un diametro di circa 10 metri è nel suo genere tra i più grandi d’Europa. Essa era munita di due accessi con ponti levatoi e di un fossato, che la rendevano impenetrabile, e aveva al proprio interno tre sale circolari sovrastanti. La torre normanna, oltre al suo primato europeo, racchiude un segreto, raccontato dai pochi abitanti del luogo, che ha il sapore di un intenso mistero: si narra che il torrione sia tuttora abitato dal fantasma della consuocera di Federico II di Svevia: Siffridina, che con l’arrivo di Carlo D’Angiò, per la sua fedeltà alla casata sveva fu rinchiusa nel Castello di Trani in Puglia. La donna trascorse i suoi ultimi anni imprigionata, sola e soffrendo la lontananza da Casertavecchia, a cui decise di tornare sotto forma di spirito dopo la sua morte, risiedendo proprio nel torrione. Quando regna il silenzio, secondo la leggenda, è ancora possibile sentirne i passi e le parole.

Il torrione del castello

Mentre l’udito si affina, sperando di carpire questi suoni nascosti, gli occhi si proiettano impazienti verso il vicino castello di Casertavecchia. Parliamo di costruzione risalente all’861, di forma poligonale, intorno al quale vi era un fossato, che fu poi fortificato da Normanni e Svevi con l’aggiunta di sei torri a pianta quadrata, assumendo così l’aspetto di un vero e proprio castello. L’obiettivo era creare una fortezza di difesa dalle aggressioni nemiche, dovute alle lotte tra le varie famiglie longobarde, che si contendevano questa area nevralgica. Di questa testimonianza storica e architettonica, da cui esercitarono la loro propria supremazia i conti Longobardi, Normanni, Aragonesi e Svevi, restano purtroppo poche rovine e una parte di cinta muraria, poiché alcuni terremoti e il logorio del tempo ne hanno danneggiato la struttura. Attualmente il sito è chiuso al pubblico e la curiosità di osservare questi resti è soddisfatta solo in rare circostanze. Quando ci si ferma davanti ai portoni in ferro chiusi, si prova un senso di amarezza nel pensare che a volte il coraggio della materia, resistita al tempo grazie alle proprie forze, non trovi sostegno sufficiente negli uomini: è possibile che non stiamo facendo abbastanza per l’arte?

Resti visibili del castello di Casertavecchia

Con la speranza di ricredersi, il visitatore continua il percorso verso il cuore del borgo e colpisce con straordinaria potenza il panorama vasto e ricco di sfumature. Casertavecchia non delude per i paesaggi e, se si è lungimiranti nel tragitto, nasconde in ogni angolo uno spettacolo, capace di ispirare profonda serenità e l’amore appassionato di chi la sceglie come meta romantica. Con gli occhi pieni di meraviglia e il cuore carico, ci si addentra nelle stradine, si osservano le case con i portoni in legno e i piccoli cortili, decorati spesso con vasi di fiori, e si calpesta la pietra limata dal passaggio di chi, ricchi o poveri, signori o servi che fossero, poco importa, hanno lasciato l’impronta di un passato ricco di vita, che ad oggi è un lontano ricordo.

Scorcio paesaggistico
Stradina del borgo
Stradina del borgo

Passo dopo passo, si raggiunge piazza Vescovado in cui vi si affaccia il palazzo vescovile, decorato con antichi archi e finestre risalenti al secolo XIII.
Casertavecchia conserva il bellissimo Duomo di San Michele Arcangelo, risalente al XII secolo. La facciata è stata realizzata con tufo lavico ed è decorata con elementi antropomorfi, geometrici e floreali, tipici dell’epoca medioevale, che rappresentavano la fede in Cristo. Severa ed elegante all’esterno, la cattedrale è particolarmente suggestiva all’interno, dove si possono ammirare il pulpito, le tre navate e le meravigliose colonne doriche e corinzie, che sono tutte differenti tra loro in quanto elementi di spoglio di edifici romani. Nella sagrestia della cattedrale è presente un crocifisso ligneo del Trecento e sono rimasti integri alcuni affreschi medievali a carattere religioso. Le pareti restanti, invece, sono prive di decorazioni in quanto in epoca barocca esse furono sostituite da diversi stucchi, a loro volta rimossi nel XX secolo. Accanto alla cattedrale è presente un grande campanile terminato nel 1234, al tempo di Federico II e infatti mostra già delle influenze gotiche. Come quella di Gaeta e di Amalfi, culmina in una torre ottagonale ed è decorato da arcate e da torri agli angoli. Il duomo possiede anche cupola, nascosta da un tiburio ottagonale è a sua volta ornata da pietre gialle e bigie, che compongono dei motivi floreali e geometrici stilizzati. Di fronte al Duomo è possibile anche ammirare quello che una volta era il seminario, finché nel 1842 Papa Gregorio XVI ne sancì il definitivo trasferimento a Caserta, e venne trasformato in un convento. Il palazzo possiede un portone centrale in marmo ed è abbellito dallo stemma del Vescovo Diodato Gentile.

Il campanile del Duomo di San Michele Arcangelo
La facciata del Duomo di San Michele Arcangelo
Navata centrale del Duomo

Riflessioni di un Borgonauta

Tra le bellezze artistiche e gli scorci caratteristici, dovrebbe sorgere in modo del tutto naturale la voglia di godere a pieno di tutto ciò che il nostro passato ci ha consegnato come lascito. È anche vero che molto spesso ci lasciamo accattivare dalla foga del moderno, disabituandoci a rallegrarci del silenzio, carico di significato, delle realtà sospese nel tempo, come lo sono i borghi. Ciò fa sì che, anche quando siamo fisicamente presenti in un luogo come questo, che ha resistito alle intemperie, allo spopolamento e all’abbandono, invece di assaporarne la storia, che ci racconta attraverso un vaso di fiori, un saluto di un abitante, una leggenda o una pietra levigata, ricerchiamo spasmodicamente e forse inconsapevolmente lo stesso caos delle nostre città di appartenenza. Sarà probabilmente il frutto dei mutamenti della contemporaneità, ma è bene che non dimentichiamo di osservare con curiosità l’antico per riaccendere la sete di sapere, spesso assopita nelle anime, è bene che si dedichi il giusto tempo alla scoperta profonda dell’arte, è bene che si scalfisca la barriera del visibile per imparare a definire noi stessi anche attraverso il passato, è bene, infine, che ogni borgo sia messo in condizione di svelarsi nella sua essenza più autentica e che non sia svilito della sua importanza.  

Marica Fiorito

Il borgo immortale

Nella sconfinata provincia di Udine, ricchissima di comuni, frazioni, valli,torrenti e boschi ,scopriamo così come si farebbe con un tesoro nascosto,Venzone,un piccolo borgo trecentesco, situato tra il congiungimento di due importanti valli, quella del Tagliamento e del Canal di Ferro, poco lontano dalle Alpi Giulie e dalla bella Carnia.

STORIA

Sin dall’alto medioevo, chi voleva recarsi oltralpe, doveva necessariamente fare i conti con Venzone, capace di concretizzare i vantaggi che le derivavano dalla sua privilegiata posizione geografica; il borgo, infatti, poteva controllare i traffici di merci e di uomini lungo l’importante e antichissima via che metteva in comunicazione l’Adriatico con il mondo transalpino (sulla stessa direttrice, in tempi romani, venne tracciata con qualche variazione di percorso, la strada imperiale Julia Augusta, che univa l’antica Aquileia al Nord Europa). L’imposizione di dazi per il transito, rese ricca Venzone, che determinata a difendere i propri interessi, si mise in una secolare e logorante rivalità con la cittá di Gemona posta a pochi chilometri a sud. Naturalmente il transito da Venzone  avveniva nei due sensi e da qui vi passavano non solo i mercanti, in particolar modo Toscani, Tedeschi ed Ebrei, ma anche le armate dei popoli germanici, che durante le loro migrazioni da Oriente, percorrevano l’antica via e lasciavano spesso dolorosi ricordi del loro passaggio. 

Municipio di Venzone
Duomo di Venzone

Intorno al 1200 nella storia della città si verifica una svolta che ne segnerà per almeno due secoli il destino, infatti il patriarca di Aquileia offri il feudo alla famiglia dei Mels, al cui dominio corrispose un periodo di grande floridezza, con un forte sviluppo del nucleo urbano e una fervente e vivace intraprendenza commerciale. Risalí a questo periodo di grande vitalità imprenditoriale la fondazione della chiesa di Sant’Andrea apostolo, la doppia cortina muraria eretta con i ciottoli del Tagliamento e la pietra grigia dei monti circostanti il Duomo

romanico-gotico considerato il monumento più rappresentativo del Borgo, consacrato nel 1338 dal patriarca di Aquileia Bertrando e i vari palazzi gotici. Nel corso dei secoli Venzone più volte si è trovata a dover affrontare periodi di grandi cambiamenti storico culturali, che tuttavia non sono mai riusciti a scalfirne l’identitá Romanico-gotica, riuscendo a passare indenne alle rivoluzioni architettoniche del Rinascimento e del Barocco, conservandosi inalterata, come se fosse custodita in un’ampolla di cristallo.

I problemi per il piccolo borgo non finirono qui: durante la seconda guerra mondiale fu vittima di uno scellerato bombardamento inglese che distrusse gran parte delle sue case e della cinta muraria. Il bersaglio degli aerei nemici, in realtà, era la vicina linea ferroviaria con il chiaro intento di bloccare il trasporto dei treni merce delle forze nemiche. Nel 1976 un violento terremoto la rase quasi completamente al suolo, ma la grande forza d’animo dei suoi abitanti ha consentito di ricostruire il borgo pietra su pietra, scongiurando il pericolo che le ruspe potessero portare via secoli di storia.

CURIOSITÁ

Nel 1965 Venzone diventa Monumento Nazionale, diventando un punto simbolico di riferimento per l’ intera Nazione, assumendo uno status particolare per il suo significato storico, politico e culturale.

Nel 2017 viene eletto il borgo più bello di Italia durante la trasmissione il borgo dei borghi di Rai3.

Nei sotterranei del Duomo si sviluppa una particolarissima muffa che favorisce la disidratazione dei tessuti evitandone la totale decomposizione, infatti famose a Venzone sono le sue mummie.

Le mummie di Venzone
La pianta del borgo

Tra cedri e castagni alla corte dei Montecuccoli

Quella di Pavullo nel Frignano è un’esperienza del tutto singolare, non più visita pomeridiana e domenicale in terra natia, ma lunga permanenza in luoghi lontani da casa. Quello di Pavullo nel Frignano è un viaggio sui generis, poiché le passeggiate sull’ Appennino modenese e i pomeriggi immersi nella storia sono privi della insostituibile compagnia dei miei amici di viaggio.

Ad ogni modo, vi chiedo di immaginarci tutti insieme a raccontarvi questo splendido posto: del resto, la maniera migliore per scoprire un luogo è farne esperienza con i propri inseparabili compagni.

Completamente immerso tra le montagne dell’Appennino tosco-emiliano, a quasi 700 metri sul livello del mare, Pavullo nel Frignano è forse il borgo montano più caratteristico della provincia di Modena; popolato da poco più di 17000 abitanti, è oggi la sede amministrativa dell’ “Unione dei comuni del Frignano” che comprende altri 9 centri: Fanano, Fiumalbo, Lama Mocogno, Montecreto, Pievepelago, Polinago, Riolunato, Serramazzoni, Sestola. La zona del Frignano, dominata dal monte Cimone, è una regione storico-geografica che si estende approssimativamente nei territori appenninici compresi tra il fiume Secchia e il Panaro.

L 'Appennino modenese

Anche questa volta, sapendo che certi toponimi parlano e svelano tanto della storia di un luogo, è stato inevitabile ricercare le radici linguistiche che hanno dato origine al nome “Pavullo nel Frignano”. Questo caratteristico borgo montano si trova esattamente al centro dell’area geografica del Frignano, in una posizione così strategica da costituirsi tappa obbligatoria sulle antiche tratte commerciali Modena- Pistoia e Modena- Lucca ; ma da dove deriva la parola “Frignano”? Gli storici non hanno dubbi: “Frignano” deriverebbe dal nome dell’antica popolazione che abitava la vasta area appenninica, i cosiddetti “Friniates”, i Liguri Friniati. Tuttavia, l’imminente conquista romana modificò significativamente l’aspetto del luogo, la cultura e l’organizzazione amministrativa: in epoca romana, il Frignano divenne una “prefaectura” di Mutina, l’attuale Modena. Centro geografico ed amministrativo della zona, il borgo ha attirato a sé il nome Frignano, ma Pavullo da cosa deriva? Molto probabilmente, “Pavòll” (in dialetto) discende dalla parola “palus”, ovvero “palude” a ricordare l’antica natura paludosa del territorio.

Il castello di Montecuccolo
Il conte Raimondo Montecuccoli

Come è facile intuire dal breve excursus etimologico, Pavullo nel Frignano possiede una storia antica, crocevia di popoli tra loro molto diversi: nonostante la lunga permanenza romana, i segni più tangibili dello scorrere dei secoli testimoniano soprattutto il periodo medievale. È proprio al XII secolo, infatti, che si fa risalire la costruzione del Castello di Montecuccolo, probabilmente fino al XV secolo centro del potere politico dell’intera area. Il castello sorge nella piccola frazione di Montecuccolo e , insieme al suo borgo, è da considerarsi una delle perle storiche meglio conservate della zona. Costruito nel 1019, il castello apparteneva alla nobile famiglia dei Montecuccoli, feudatari e dominatori del posto: tra questi spicca la personalità del conte Raimondo Montecuccoli, nato proprio nel castello di famiglia, valoroso uomo di guerra al quale il comune di Pavullo ha intitolato la sua scuola media.

Chiesa di San Lorenzo Martire

Il castello domina una piccola piazza su cui si affaccia la Chiesa di San Lorenzo Martire, edificata nel 1454: l’edificio è ad aula unica con due cappelle laterali simmetriche e una facciata comprensiva di campanile a vela. L’intero complesso è costruito con la pietra del posto.

Sia il castello che la chiesa sembrano essere fermi in un passato glorioso, quello di un medioevo cristiano ed eroico. Alla suggestione storica non manca l’accostarsi di quell’aura di pace e conciliazione che solo la natura a grandi altitudini sa dare: l’area del Frignano e con essa il suo centro, Pavullo, godono di una vegetazione ancora in larga parte incontaminata, di passi e sentieri immersi tra alberi di castagno.

A primo impatto sembra di trovarsi in un tipico borgo di montagna, benché si tratti di un centro modestamente abitato. Ebbene, Pavullo è ricca di storia e qui la storia è passata da Via Giardini, il centro della città, dei negozi e del passeggio: è su questa strada che si affaccia la Chiesa di San Bartolomeo Apostolo. Secondo alcune fonti storiche, l’edificio nasce da una piccola cappella del preesistente ospedale di San Lazzaro, a sua volta costruito per ospitare dapprima i pellegrini per poi diventare un lebbrosario. In seno a questo edificio, dunque, sorge l’attuale chiesa parrocchiale di Pavullo: tuttavia, l’edificio comincia a svolgere a pieno le sue funzioni solo a partire dal 1690. La chiesa aveva probabilmente l’aspetto tipico delle costruzioni tardo-barocche, ma oggi non ne abbiamo più tracce: purtroppo, la notte del 22 aprile 1945 i tedeschi distrussero l’edificio durante la loro ritirata. Grazie alla devozione e alla laboriosità del popolo pavullese, la chiesa fu ricostruita  secondo uno stile che si ispira all’antico romanico, ma i lavori terminarono soltanto nel 1960. L ’interno ad unica navata è arricchito dalle opere di artisti locali e da testimonianze vetuste, tra le quali un antico crocifisso risalente all’epoca della chiesa antecedente.

Il Palazzo ducale

Proseguendo su via Giardini, si  raggiunge il palazzo ducale. Risalente al XIX secolo, l’edificio fu voluto dal duca di Modena e Reggio Francesco IV d’Este poiché Pavullo rappresentava l’area montana più facilmente raggiungibile da Modena. Utilizzato come residenza estiva austro-estense fino all’Unità d’Italia, oggi il palazzo ducale è sede di alcuni uffici del comune e della biblioteca e ospita mostre ed eventi nelle sue sale. Risalendo un sentiero sul retro dell’edificio, è poi possibile visitare il parco ducale, polmone verde cittadino e suggestiva passeggiata a ridosso del centro. Il giardino ospita la tipica vegetazione appenninica:   querce, boschi di aghifoglie, di latifoglie, aceri, frassini e cerri.

Fontana del parco ducale
Sentiero del parco ducale

Tuttavia, l’attenzione del visitatore è subito attirata da un maestoso albero, il “Pinone”, così affettuosamente definito dai pavullesi. Si tratta di un cedro del Libano alto 38 metri che da oltre due secoli è uno dei simboli della città, ma anche testimonianza di patriottismo. Difatti, gli abitanti del posto raccontano che nel 1943 i tedeschi tentarono di abbattere il maestoso cedro cittadino per farne legna da ardere: la ferrea opposizione dell’intera comunità e del parroco della chiesa cittadina destò i tedeschi dal loro intento, salvando la vita ad un amico verde bicentenario, per i pavullesi quasi un membro della propria famiglia;

una famiglia proprio come quella dei Borgonauti ai quali dedico l’inaspettata scoperta di questo luogo, sperando di poterlo presto visitare, questa volta insieme, in un soleggiato pomeriggio domenicale.

                                                                                                                                                                                                                       Delia Brusciano

il "Pinone" simbolo di Pavullo

Gaeta: la città dai mille piaceri

La storia

Gaeta è una splendida città adagiata sul mare e dalle origini antichissime, tanto che la sua storia si fonde col mito. L’etimologia del nome, secondo Strabone, deriva dal termine greco “καϊέτα” (caieta), cioè ogni cosa ‘cava’, con riferimento al golfo. Secondo Virgilio, invece, Caieta sarebbe stata la nutrice di Enea, sepolta da lui in questo sito durante il suo viaggio verso le coste laziali.

Certo è che le prime notizie di questa città risalgono all’epoca dei Romani, ai quali fu favorito l’accesso dalla costruzione della via Flacca; essi l’apprezzarono così tanto da costruirvi  ville fastose, monumenti e mausolei, tra cui quello dedicato a Lucio Munazio Planco, generale di Giulio Cesare.

Castello di Gaeta
Tempio di San Francesco

In epoca medievale la città, grazie alla sua posizione arroccata su una penisola alta e rocciosa che ne permetteva una facile difendibilità (soprattutto dagli attacchi dei Barbari e dei Saraceni), fu circondata da mura e divenne un vero e proprio castrum.

Intorno al X secolo, liberata dai Saraceni, si costituì in un ducato autonomo, con una propria forza militare, propri statuti ed una propria moneta (il follaro), che permise alla città di sviluppare intensi traffici marittimi nel Mediterraneo ed essere considerata la quinta Repubblica Marinara.

Un altro periodo critico per la città fu il 110 d.C. quando la città fu contesa tra Federico II di Svevia e dal papato, poi divenne dominio di Angioini ed Aragonesi. Qui si nascose Papa Pio IX dopo la proclamazione della Repubblica Romana nel 1848 e fu al centro di uno degli scontri più importanti per la proclamazione dell’Unità di Italia che si concluse il 13 febbraio 1861 con la resa di Francesco II di Borbone. Anche durante la Seconda Guerra Mondiale la posizione strategica di Gaeta fece sì che essa avesse un ruolo importante negli avvenimenti storici.

A spasso per i vicoli della città

Il nostro borgotour è iniziato da via dell’Indipendenza, da cui si snodano una serie di vicoletti, che sono probabilmente la parte più caratteristica della città. Entrando nel viottolo principale siamo stati catapultati in una dimensione completamente diversa da quella del resto della città: case sviluppate in altezza, balconcini pieni di piante, negozietti e altri particolari preziosi che si mimetizzano con la quotidianità di tutti i giorni.

Via dell'Indipendenza

Il vico 2 di via dell’Indipendenza in pochi metri raccoglie anni di storia e tradizioni: entrandovi è possibile notare subito l’anello per legare gli animali da soma; il mulo o la mula, infatti, erano fondamentali per l’economia rurale del paese, tanto da essere soggetti a tassazione patrimoniale. Sulla parete destra, invece, è possibile osservare un vecchio torchio, una pigiatrice ed una botte con i quali veniva fatto e conservato il vino.

Vico 2

Il vico 3 è dedicato al ‘sarto’, o meglio, ‘gliu cusutore’. All’ingresso del vicoletto, infatti, abbiamo trovato una macchina per cucire, alcuni attrezzi da sarto ed una targa che spiegava quanto fosse stata importante la loro attività artigiana durante tutta la storia di Gaeta: “tra i clienti del Borgo-cita la targa- c’erano anche i militari dei Presidio di Gaeta e negli ultimi anni quelli statunitensi che richiedevano adattamenti alle proprie divise”.

La parete della poesia e le panchine letterarie

Da via dell’Indipendenza siamo arrivati, poi, a Piazza Goliarda Sapienza, dove siamo rimasti incuriositi e sorpresi alla vista della ‘Parete della poesia’ realizzata dagli studenti dell’Istituto Enrico Fermi Gaeta ed AbbelliAmo Gaeta, nell’ambito del progetto nazionale “Cantieri di Narrazione Identitaria”. La parete è caratterizzata da maioliche con su riportate poesie su Gaeta scritte da autori locali ed internazionali che hanno visitato la bella città pontina, tra cui, Cicerone, D’Annunzio, Boccaccio, Cervantes e Mazzini. Ad abbellire ulteriormente Piazza Goliarda Sapienza ci sono le panchine letterarie ed un murales, che fa parte dello stesso percorso che abbiamo trovato per i vicoli di via Indipendenza e raffiguranti scene di vita quotidia

Visita al campanile del Duomo

La nostra seconda tappa è stata la visita al campanile del Duomo. Secondo quanto riportato su un atto notarile su pergamena, la storia del campanile comincia nel gennaio del 1148, anno in cui il monaco Pandolfo Palagrosio decide di donare alla Cattedrale un terreno per la realizzazione del campanile stesso. Da quel momento comincia la costruzione di questa struttura, alta 57 metri, conclusasi nel 1279.

La torre campanaria del duomo di Gaeta unisce caratteri romanici con elementi tardo romani, in simbiosi con architetture islamiche. Il campanile è caratterizzato da una pianta quadrangolare; la struttura si compone di un basamento con arco gotico, tre celle, ognuna arricchita da quattro bifore (una per lato), e da un torrino ottagonale, circondato da quattro torri circolari.

Il campanile del Duomo
Bifore del campanile
La scala del campanile del Duomo

Vi è una simbologia nascosta nelle forme del campanile. Difatti, la pianta quadrata del basamento fa riferimento ai quattro elementi della filosofia platonica (aria, acqua, terra, fuoco) che simboleggiano la natura umana; invece, la sommità del campanile, di forma ottagonale, se venisse proiettata all’infinito convergerebbe verso il cerchio, che simboleggia la perfezione, il divino. Il campanile, dunque, costituisce un asse che unisce terra e cielo, che avvicina l’uomo e le sue miserie terrene alla perfezione e al paradiso.

Il primo livello costruttivo è realizzato con blocchi calcarei provenienti da edifici antichi romani prelevati dall’intera rada di Gaeta. La scalea monumentale è arricchita da un arco gotico e presenta delle colonne incastrate negli angoli dei pilastri che lo sottendono: questa caratteristica richiama l’architettura degli edifici sacri islamici. 

Il campanile è caratterizzato da una dettagliata tessitura laterizia, che vede numerose decorazioni in diversi materiali, come pietre di diverse colorazioni, laterizi e, soprattutto nella parte sommitale della struttura, bacini ceramici smaltati di diversi colori, assieme a losanghe in cotto smaltate.

All’altezza della seconda delle tre celle che suddividono la struttura, sono visibili gli ingranaggi di uno degli orologi anticamente presenti sul campanile stesso, posti sia verso il mare (nord) che verso il borgo (est).

 

Una delle campane del campanile

Lungo il percorso guidato si riscontrano diverse campane, le quali, in passato, venivano collocate in prossimità degli unici punti di forza della struttura, ovvero le bifore. Difatti, prima del 1960-1, la struttura era sprovvista dei solai attualmente posti in corrispondenza dei marcapiani esterni e, per giungere sulla sommità, veniva adoperata una lunga scala di legno che correva tutt’intorno alla struttura, collocata in prossimità di tutti i punti che dovevano essere facilmente accessibili, ovvero vicino alle campane da suonare e agli orologi da ricaricare.

Il percorso termina nel torrino ottagonale che, come ricorda l’epigrafe ritrovata durante i lavori di restauro del vicino palazzo Cardinale De Vio, venne posto in opera e completato nel 1279 per volere del Vescovo di Gaeta Bartolomeo Maltacea. Il torrino è riccamente decorato con bacini ceramici: tuttavia, quelli posti in situ sono delle riproduzioni, mentre gli originali sono custoditi presso il Museo Diocesano di Gaeta.

Il Museo Diocesano

Visita al museo diocesano

Il museo diocesano risale al 1903 e nasce in seguito all’idea di raccogliere reperti dell’età classica e del periodo medievale rinvenuti sia a Gaeta che nel territorio vicino.
Negli anni successivi alla sua fondazione fu poi iniziata un’altra raccolta, che comprendeva anche dipinti, nella navata superstite del duomo duecentesco. I ritrovamenti depositati rappresentavano un consistente nucleo per l’inizio di una vera e propria pinacoteca e di un piccolo museo archeologico. Le opere pittoriche provenivano principalmente da edifici religiosi danneggiati durante l’ultima guerra. Negli anni Cinquanta del secolo scorso il progetto andò a conclusione con il Museo Diocesano, inaugurato sul pronao della Cattedrale il 4 novembre 1956.

I dipinti su tela e su tavola raccolti nella pinacoteca risalgono dal secolo XIII al primo decennio della seconda metà dell’Ottocento. Le opere, quasi tutte di soggetti religiosi, provengono dal Museo Diocesano del 1956, dalla Cattedrale e da altre chiese chiuse al culto. Nella pinacoteca sono esposte molte opere di cui sono noti gli artisti e, pertanto, rappresenta un giacimento di particolare valore, che permette un’attenta lettura dei corrispondenti periodi delle correnti artistiche in Campania. Delle opere in mostra il numero maggiore è rappresentato da quelle di Giovanni da Gaeta, artista che ha operato nella seconda metà del sec. XV. Altre opere appartengono, invece, ad artisti gaetani, quali Scipione Pulzone e Sebastiano Conca.

Il museo conserva anche lo Stendardo di Lepanto del pittore Girolamo Siciolante, raffigurante sui due lati il Crocifisso tra i santi Pietro e Paolo. Esso fu sventolato sulla nave ammiraglia della flotta pontificia, comandata da Don Giovanni d’Austria. La battaglia nelle acque di Lepanto portò alla sconfitta delle navi ottomane il 7 ottobre 1571. Il 4 novembre dello stesso anno fu lasciato dal figlio naturale di Carlo V, Don Giovanni d’Austria, nel Duomo di Gaeta.

Curiosità:

Gaeta conserva la più antica testimonianza scritta della pizza nel mondo: basti pensare che il primo documento scritto nel quale è riportata la parola pizza è contenuto nel Codex Diplomaticus Caietanus dell’anno 997. Il Codex ratificava un baratto: il pagamento in natura dell’affitto di un mulino, proprio con “spatula de porco, lumbum, pulli” e pizza. Certo, una pizza bianca (il pomodoro sarebbe arrivato in Europa dopo la scoperta delle Americhe) ma pur sempre pizza. 

La locazione del mulino aveva effetto giuridico a condizione che “ogni anno nel giorno di Natale del Signore, voi e i vostri eredi dovrete corrispondere sia a noi che ai nostri successori, a titolo di pigione per il soprascritto episcopio e senza alcuna recriminazione, dodici pizze, una spalla di maiale e un rognone, e similmente dodici pizze e un paio di polli nel giorno della Santa Pasqua di Resurrezione”.

Cosa mangiare a Gaeta?

Trai i piatti tipici di Gaeta figura la Tiella, antica ricetta che un tempo, per pescatori e contadini, era un piatto unico: due sfoglie di pasta tirata a mano, ripiene di verdure o pesci a scelta, polpi, alici, cipolle, scarola o altri ingredienti tipici della dieta mediterranea. La Spagnoletta, caratteristico pomodoro dalla forma a spicchi e dal gusto intenso che profuma di mare. Le olive in salamoia, famose in tutto il mondo ed ancora le alici salate e le cozze del Golfo.

Ciò che vi ho presentato in questo articolo è solo un piccolo spicchio di Gaeta, una città  ricca di posti da scoprire e di storie da raccontare. Speriamo di tornarci presto per potervi parlare ancora di lei e di altre meravigliose scoperte.

Ilaria Pellino.

Santa Maria Occorrevole e la magia della natura

Sul Monte Muto, ai cui piedi è posta la città di Piedimonte Matese, esiste un luogo di grande suggestione spirituale dove la natura e la pace incantano l’uomo. È un posto dove praticare il silenzio, evocato già dal nome della montagna…le parole diventano mute e il cuore canta! Il complesso conventuale di Santa Maria Occorrevole e l’Eremo della Solitudine regalano attimi magici: la natura e il patrimonio artistico e religioso esercitano sul visitatore un fascino particolare così che la mente si svuota e i sensi si appagano.

Porta del Paradiso
Vista su Castello del Matese

Il percorso virtuale partirà dal monumentale Campanile di San Pasquale che in un largo piazzale domina su tutta la pianura Alifana, per diventare man mano più intimo: dalla riservatezza del Convento fino ai segreti della natura selvaggia dell’Eremo.

Non mi dilungherò sulla storia e le minuzie architettoniche perché sono luoghi dello spirito, condividerò, invece, ciò che abbiamo visto e ci ha emozionato…le foto non possono catturare la freschezza dell’aria e gli odori del bosco, tuttavia guidano lo sguardo alla bellezza.

Attimi di pace

CAMPANILE DI SAN PASQUALE

Il campanile, visibile da tutti i punti della valle, sembra innalzarsi quasi a protettore ed osservatore dell’area sottostante e il tocco delle sue campane segnava per i contadini lo scorrere delle ore nel duro lavoro delle campagne. Si trova spostato in avanti al convento, isolato e completamente separato dall’intero complesso di Santa Maria Occorrevole. Si tratta di una posizione un po’ insolita per una torre campanaria ma il motivo di questa notevole distanza è stato quello di evitare che i fulmini potessero danneggiare il convento. La prima costruzione del campanile, risalente al XVII secolo, fu infatti distrutta da un violento temporale.

Stare ai piedi dell’imponente campanile e di fronte all’immenso panorama ti fa sentire piccoli piccoli ma con lo sguardo si possono raggiungere orizzonti lontani e allora, ammirare così tanta bellezza ti fa sentire fortunato.

Campanile di San Pasquale
L'imponente campanile con vista sulla valle

CHIESA E CONVENTO DI SANTA MARIA OCCORREVOLE

LEGGENDA

Sulle origini della chiesa e del convento esiste una leggenda, secondo la quale, durante la Quaresima del 1436, un pastore, alla ricerca di una pecorella smarrita, trovò l’immagine della Madonna dipinta su un vecchio muro coperto di spine. La leggenda narra che “il pio pastore non volle essere da meno del piccolo animale di servire e pregare la Beata Vergine, così, ogni giorno, su quelle alture un’esile voce umana, confusa al belato di un gregge, si levava devota a cantare alla Beata Vergine…” (Padre Crisostomo Bovenzi). Il ritrovamento miracoloso si diffuse rapidamente tra il popolo, così, molti fedeli cominciarono a salire sul Monte Muto per venerare la Madonna. Si decise quindi, di costruire su quella montagna una chiesa sia per proteggere l’immagine sacra sia per raccogliere i fedeli che diventavano sempre più numerosi.

Santa Maria Occorrecole
Piazzale del Convento
Facciata Convento

CENNI ARTISTICI

Tutto il complesso è contraddistinto dalla semplicità e caratteristica singolare è il biancore delle costruzioni che spicca nella rigogliosa vegetazione. Nel piazzale antistante si trova una piccola fontana con al centro la statua in bronzo di San Pasquale Baylon, anche questa semplice e in armonia con tutto l’ambiente.

Chiostro del convento
Vista sui Monti del Matese

La chiesa all’interno conserva la stessa purezza e candore che si assapora fuori dalle sue mura, tuttavia sono conservati sull’abside degli affreschi del ‘400 eseguiti da un ignoto pittore campano che creano tanto stupore negli occhi di chi l’ammira. Al centro dell’opera è rappresentato il Cristo Pantocrator, sostenuto dagli Angeli, mentre nella parte inferiore sono collocate otto figure, di una grazia straordinaria. Si tratta di S. Filippo, S. Elena, la Madonna del Latte, S. Caterina d’Alessandria con la ruota del martirio, S. Maria Maddalena con il vaso d’unguento, la Madonna del Giglio, S. Giacomo Minore con il bastone e la Madonna del Granato. Al centro dei santi risalta la Vergine Orante, ossia Santa Maria Occorrevole con le braccia levate al cielo.

Vergine Orante con Santi
Abside affrescato con il Cristo Pantocrator
Abside affrescato con il Cristo Pantocrator
Interno chiesa
Santa Caterina d'Alessandria

PERCORCO VERSO L’EREMO DI SANTA MARIA DEGLI ANGELI

Dal piazzale della chiesa si può percorrere un vialetto che conduce in uno luogo dello spirito tanto suggestivo, una vera oasi di pace. Si accede attraverso un cancello sormontato da un’epigrafe di lode alla solitudine. Si narra che nel passato fosse severamente vietato varcare il Muro della Solitudine senza il permesso del Padre Superiore e coloro che contravvenivano a tale disposizione venivano puniti. Oggi per fortuna si può entrare in questa area mistica e soprattutto non ci sono pene per chi, come i Borgonauti, non rispetta le regole del silenzio quando si è in bella compagnia.

Erbe aromatiche
Entri chi tace perché il solo silenzio è qui loquace
Cancello e muro della Solitudine

Per raggiungere l’eremo bisogna percorrere un sentiero nel bosco fiancheggiato dalle edicole maiolicate della via Crucis. Inoltre, camminando tra querce, faggi e lecci secolari e tra le erbe selvatiche, ci si imbatte in un’esplosione di profumi e il respiro si fa leggero. Di tanto in tanto poi, si sente qualche foglia scricchiolare, segno che il bosco è il regno degli animali e l’uomo deve rispettare le sue leggi soprannaturali.

Viale incantato
Borgonauti che violano le regole del silenzio
Edicola della via Crucis
Bosco con edicole maiolicate

I giardini segreti nel cuore dell’Italia

Spesso, quando si riesce a trovare un momento di calma nel turbinio della nostra vita frenetica e ci si ferma a pensare, riaffiorano nella mente pezzi di vita o frammenti di altre vite, quelli delle storie lette e interiorizzate, soprattutto quelle metabolizzate quando si era bambini. In queste settimane mi sono soffermata su un passaggio del libro “Il Giardino segreto” di Frances Hodgson Burnett: 

«Una delle cose strane della vita di questo mondo è che solo qualche volta uno si sente veramente contento di vivere. Succede, per esempio, se ti alzi presto una mattina e assisti a quel meraviglioso, indescrivibile spettacolo che sono l’alba e il sorgere del sole. Se in un momento così si riesce a dimenticare tutto e a guardare solo il cielo che da pallido va prendendo colore, il misterioso spettacolo che ti prende alla gola e ti fa commuovere davanti a tanta bellezza che pur si ripete ogni giorno da migliaia di migliaia di migliaia di anni e ti senti felice di poterci assistere. Succede, per esempio, se ti trovi solo in un bosco al tramonto e riesci ad ascoltare le cose meravigliose che ti ripetono, senza che le tue orecchie possano intenderle, i raggi del sole che se ne va e che ti raggiungono come una pioggia d’oro attraverso i rami e le foglie degli alberi».

 

 

Ho ripensato così al Giardino segreto di Mary e Colin e in questo strano e drammatico anno, il 2020, che ha messo in discussione tante abitudini, sottratto molte possibilità alla voglia di scoperta e di viaggio, sostituendo il desiderio di visitare e la sete di conoscenza con la paura del contagio, passeggiare all’aperto in mezzo al verde, avvolti dallo spettacolo che la natura continua a offrirci, tra prati fioriti, fila di alberi, piante e cespugli, sfumature di centinaia di colori offerti dal paesaggio e l’estasi olfattiva di tanti profumi, risulta essere una delle migliori alternative per entrare in comunione con il mondo esterno e sentirsi vivi.

 

Se poi la visita a giardini, boschi e parchi naturali si accompagnasse anche alla scoperta di mirabili opere d’arte nascoste, frutto del genio di artisti che negli anni hanno contribuito a creare dei piccoli “regni” fiabeschi, in cui arte e natura formano un connubio indissolubile, non sarebbe perfetto?

La risposta è stata affermativa e in un momento in cui purtroppo le visite ai tanti meravigliosi siti artistici e culturali di cui è ricco il Patrimonio italiano sono contingentate e, ahimè, in alcuni casi sono addirittura provvisoriamente negate, abbiamo scoperto che esiste sul suolo, sempre prodigo di tesori e sorprese del nostro Paese, una serie di giardini segreti favolosi, romantici o esoterici, irreali o mostruosi, in cui la ricchezza della flora si sposa perfettamente con la creatività dell’arte, facendo nascere dei paradisi in cui le tracce dell’uomo, del suo pensiero, del suo talento si intrecciano magicamente con la vegetazione.

 

Non credo sia un caso che la parola “paradiso” derivi dal persiano pairidaeza, da cui anche l’ebraico pardeš, attraverso il greco παράδεισος, con il significato originario di “giardino recinto” o “parco”.  Questi labirinti di verde e creazioni artistiche cambiano di forma, dimensione e sembianze in base al contesto storico e paesaggistico in cui sono sorti ed è per questo che attraversarli è un po’ come sfogliare le pagine di libri di storia e di arte. Mentre tutti conosciamo Parc Güell, diventato negli anni uno dei simboli di Barcellona, inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità Unesco, parco progettato dall’architetto catalano Antoni Gaudì a inizio del ‘900, che si trova sulla collina El Carmel nel quartiere Gràcia e che è divenuto una delle mete turistiche più belle della Spagna e d’Europa, invece in pochi conosciamo la varietà e la ricchezza dei giardini nostrani.  Proprio per questo oggi vogliamo parlarvi di alcuni dei parchi italiani che abbiamo visitato e che ci hanno colpito, in rappresentanza di tutti quelli che ancora dobbiamo conoscere e scoprire.

IL SACRO BOSCO DI BOMARZO 

Ai piedi del Monte Cimino, la più alta cima dell’Antiappennino laziale, a Bomarzo in provincia di Viterbo, si trova la Villa delle Meraviglie detta anche Sacro Bosco o Parco dei mostri. Appena si varca l’ingresso si fa un salto indietro nel tempo di quasi cinquecento anni all’epoca in cui il principe Pier Francesco Orsini noto come Vicino Orsini e l’architetto Pirro Ligorio progettarono nel 1552 la loro opera, un unicum nel panorama italiano e mondiale per il quale sembra che anche Goethe e Dalì avessero un debole. Se da un lato nel parco possiamo osservare raffinati giardini all’italiana, dall’altro nel bosco si trovano decine di sculture di basalto raffiguranti mostri, creature oniriche, soggetti mitologici e animali esotici, ma anche obelischi, fontane e un’incredibile casetta pendente. Vicino, signore di Bomarzo, fece scolpire le rocce sul posto, animandole e donando ad esse forme, a volte minacciose e a volte incantate. Alla morte del principe, anche il parco morì e per secoli rimase abbandonato e dimenticato fino al recente restauro che l’ha riportato in vita per la gioia di tutti noi visitatori. Il bosco, pur inserendosi nella cultura architettonica-naturalistica del secondo Cinquecento, sfugge ai canoni delle altre opere in quanto le sculture rocciose sono svincolate da vicendevoli rapporti prospettici o proporzionali. La simmetria classica cede il passo al gusto manierista per il bizzarro e, con i suoi elementi giganteschi, crea un rapporto sconcertante con la natura.

Proteo (Glauco)
La tartaruga
"Ogni pensiero vola"

Interpretazioni

Molti hanno provato a interpretare il disegno alla base di questo luogo un po’ sospeso tra arte, magia e letteratura cavalleresca, ma il giardino di Bomarzo è probabilmente destinato a rimanere un luogo intriso di fascino, che sollecita l’immaginario di ciascun visitatore chiamato a formulare la propria idea.

Tra le varie ipotesi di recente si è affermata la rilettura del prof. Antonio Rocca, storico dell’arte, che individua nell’Idea del theatro di Giulio Camillo la fonte iconografica del parco.

L’accezione egemone del termine “Teatro” durante il XVI e XVII secolo era infatti quella di dispositivo panoramico. Un manuale, un giardino, o qualunque altro strumento in grado di esporre visivamente un argomento era definito un teatro. Sarebbe quindi esatto sostenere che a Bomarzo sia reso possibile attraversare la visione del mondo che dalla Grecia del V secolo a.C. è giunta sino alle soglie della Rivoluzione scientifica.

L’Orsini avrebbe trasformato in pietra la sintesi della cultura greca, ebraica e cristiana realizzata da Camillo per offrirci lo spettacolo, in continuo divenire, del farsi mondo di Dio.
Il Bosco sarebbe quindi il luogo della catarsi, la seconda possibilità che l’arte offre ad una vita piena di errori, luogo oracolare nel quale l’uomo può riscoprire la sua natura triplice sino al compimento della deificazione.

IL GIARDINO DI NINFA

 Ai piedi dei monti Lepini,  sui ruderi della città medievale di Ninfa, nell’agro pontino, esiste un meraviglioso giardino di otto ettari eletto dal New York Times il più bello e romantico del mondo, dichiarato Monumento naturale dalla Regione Lazio dal 2000 e Oasi affiliata del WWF.

Il clima unico che qui si ritrova, grazie anche alla rupe di Norma che protegge il territorio dai venti del nord e crea un microclima favorevole, favorisce la crescita all’interno del giardino, tra il fiume Ninfa e vari ruscelli d’irrigazione, di circa 1300 specie di piante provenienti da ogni parte del mondo. Accanto alla flora mediterranea e ai roseti, infatti, si ammirano noci americani, aceri giapponesi, yucca o l’albero della nebbia, così chiamato per le sue infiorescenze a piumino rosa simili a zucchero filato.

 

La Flora di Ninfa
La vegetazione del giardino di Ninfa

Le tracce della storia

Nel 1921 Gelasio Caetani, esponente di una famiglia da sempre regnante nella zona, iniziò la bonifica e il restauro di alcuni ruderi di Ninfa, in particolar modo della torre e del municipio, per farne una residenza estiva; inoltre, sotto la guida della madre Ada Wilbraham, che aveva già realizzato un bell’orto botanico a Fogliano, iniziò a piantare diverse specie botaniche che portava dai suoi viaggi all’estero. In seguito Marguerite Chapin e Lelia Caetani durante gli Anni Trenta, diedero al giardino una struttura all’inglese. Ninfa ospitò diverse personalità di spicco del ‘900 come il poeta Gabriele D’Annunzio o lo scrittore Boris Pasternak, autore de Il dottor Živago. Lelia Caetani, senza eredi, fu l’ultima rappresentante della famiglia Caetani, che dopo oltre settecento anni estingueva il suo casato: la donna però, prima della sua morte, avvenuta nel 1977, diede vita ad una fondazione, chiamata Roffredo Caetani di Sermoneta, alla quale intestò oltre al castello di Sermoneta anche il giardino ed è ancora tale fondazione che oggi si occupa del parco. Intorno al giardino a partire dal 1976 è stata istituita un’oasi del WWF a sostegno della flora e della fauna del luogo, che la bonifica della palude aveva portato alla scomparsa.

Attraversando il giardino… tra vegetazione e ruderi

Percorrendo il giardino di Ninfa in diversi momenti ho avuto la sensazione di trovarmi all’interno di uno dei quadri di Claude Monet e dei suoi amici impressionisti, direttamente catapultata in quell’universo di colori e ninfee, di fiori e ponticelli, d riflessi d’acqua e vegetazione che vi si specchia… Ma in aggiunta alla rigogliosa natura che subito colpisce l’occhio e rapisce, all’interno del giardino si possono ammirare anche i resti architettonici di Ninfa a partire da alcune delle chiese dell’antico borgo. Santa Maria Maggiore era la chiesa principale e fu con molta probabilità costruita a partire dal X secolo e ampliata nella prima metà del XII secolo. Oggi vediamo i ruderi del perimetro esterno, dell’abside e del campanile. Si trattava di una chiesa a tre navate: la navata centrale era coperta da un tetto a spiovente, mentre le due laterali avevano delle volte in muratura. L’abside è semicircolare e sono ancora riconoscibili due affreschi, uno raffigurante San Pietro, risalenti al 1160-1170.

La chiesa di San Giovanni è databile intorno all’XI secolo ed oggi ne rimangono soltanto alcuni resti che rendono difficile ricostruire la sua struttura originaria: forse era a navata unica, con diverse cappelle laterali e un’abside semicircolare, ancora oggi in parte visibile e su cui restano tracce di affreschi rappresentanti degli angeli. Nei pressi della chiesa di San Giovanni è possibile osservare un noce americano, diversi meli ornamentali, un acero giapponese a foglia rosa, un faggio rosso, un acero a foglie bianche e un pino a foglie di color argento. Alle spalle della chiesa di Santa Maria Maggiore una bignonia gialla, un gruppo di yucca e diversi roseti, mentre presso la facciata principale si trova il famoso albero della nebbia.

Abside con affreschi della chiesa di Santa Maria Maggiore
Ruderi sul fiume Ninfa

L’acqua è l’elemento centrale e vitale che caratterizza Ninfa: il lago ed il fiume, che da esso fuoriesce, danno vita ai fossati, che circondavano la città medievale, agli stagni e ai ruscelli presenti all’interno del giardino, ulteriormente arricchito dalla presenza di piccole sorgenti. Il fiume Ninfa era attraversato nel borgo da due ponti, di cui uno di epoca romana, il più antico, e un altro chiamato del Macello: si tratta di un ponte a due campate, costruito a ridosso delle mura difensive e sul suo nome esistono due ipotesi. La prima vuole che durante una battaglia, i nemici cercassero di entrare in città passando proprio attraverso il fiume, ma all’altezza del ponte i ninfini li colpissero con numerose lance rendendo l’acqua di colore rossa a causa del sangue versato; la seconda ipotesi, molto più probabile, è che nei pressi del ponte sorgesse un edificio dedicato alla macellazione della carne, andato completamente perduto.

Il ponte a due luci cattura con la sua magia ogni visitatore, ogni scrittore, ogni artista. All’esterno della cinta muraria si eleva un maestoso pioppo, inserito nell’archivio degli “Alberi Monumentali d’Italia”. La Via del Ponte attraversa il fiume Ninfa sul Ponte Romano, avvolto dai romantici intrecci di un glicine dai grappoli di fiori violacei, affiancato da una photinia serrulata, gelsomini e prima di arrivare al ponte di legno un gruppo di bambù provenienti dalla Cina, i cui steli eretti e flessuosi racchiudono la Sorgente dei Bambù. Un doppio filare di lavande introduce al Piazzale dei Ciliegi. Sulle mura di cinta sono visibili i ruderi della chiesa di San Biagio e una densa bordura di piante arbustive e erbacee perenni che degrada verso il prato erboso.

Sorgente del bambù
Il Ponte del macello
Ponte di Legno

Alla fine del percorso c’è il Piazzale del Municipio, risalente al XII sec., ristrutturato nei primi del Novecento per convertirlo a villa di campagna, dove i Caetani ospitavano amici, intellettuali e artisti: di esso possiamo ammirare la rocca, con la torre alta 32 metri, e le graziose bifore.

Come disse Marie Luise Gothei, «Il giardino è movimento, vita, l’architettura è fissità e cristallizzazione; ecco perché, forse, l’una ha così bisogno dell’altro. In questo rapporto-scontro il giardino è stato a volte l’ancella, a volte la signora».

 

Il fiume Ninfa
Bifora del Municipio
Piazzale Municipio

IL GIARDINO DEI TAROCCHI

«Il Giardino dei Tarocchi non è il mio giardino, ma appartiene a tutti coloro che mi hanno aiutata a completarlo. Io sono l’architetto di questo giardino. … Questo giardino è stato fatto con difficoltà, con amore, con folle entusiasmo, con ossessione e più di ogni altra cosa, con la fede. Niente e nessuno avrebbe potuto fermarmi. Come in tutte le fiabe, lungo il cammino alla ricerca del tesoro mi sono imbattuta in draghi, streghe, maghi e nell’Angelo della temperanza».

Con queste parole l’architetto e artista francese Niki de Saint Phalle presenta quella che lei stessa definisce “la più grande avventura della sua vita”.

La piazza centrale... La Papessa e la ruota della fortuna

Il progetto

Durante un viaggio in Spagna Niki de Saint Phalle scoprì l’opera di Antoni Gaudí e ne fu fortemente colpita; in particolare, il Parc Güell a Barcellona ebbe una grossa importanza nella sua decisione di costruire un suo giardino di sculture, fornendole anche l’ispirazione di fare di materiali diversi ed oggetti trovati gli elementi principali della sua arte. Dopo il ricovero all’ospedale per un ascesso ai polmoni, causato dal pluriennale lavoro col poliestere, Niki soggiornò a St. Moritz per un periodo di convalescenza. Là incontrò Marella Caracciolo Agnelli che nel 1950 ca. conobbe a New York. Niki espresse all’amica il suo sogno di creare un giardino di sculture le quali si sarebbero dovute basare sulla simbologia delle carte dei tarocchi. In seguito i fratelli di Marella, Carlo e Nicola Caracciolo le misero a disposizione un terreno della loro proprietà a Garavicchio in Toscana ove realizzare il suo sogno.

 Il progetto del Giardino dei Tarocchi, situato a Pescia Fiorentina, frazione di Capalbio, occupò per ben vent’anni a partire dal 1979 il pensiero e la forza creativa di Niki che trascorse la maggior parte del suo tempo tra le colline e la Maremma. Il terreno fu pulito e disboscato e furono gettate le fondamenta:  Niki fu impegnata prevalentemente nella costruzione del suo Giardino, ottenendo l’aiuto di numerosi suoi amici e seguaci; l’architetto francese, affiancata da operai specializzati e da un’èquipe di artisti contemporanei tra cui spiccano i nomi di Rico Weber, Sepp Imhof, Doc Winsen e il marito Jean Tinguely che ha creato alcuni assemblaggi meccanici semoventi, si dedicò alla realizzazione di 22 imponenti figure, rappresentanti gli Arcani maggiori, ricoperte di specchi, vetri e ceramiche colorate. I tarocchi sono formati da 78 carte ma gli Arcani maggiori sono 22 come le 22 sculture del Giardino: il Sole, la Luna, il Papa, la Giustizia, l’Imperatore, la Torre di Babele, la Morte, il Diavolo, la Stella ecc. tutte ricoperte con coloratissime decorazioni a mosaico, alcune ciclopiche e molte di loro percorribili, collegate tra loro grazie a viuzze sopra le quali sono scritti nomi, numeri, pensieri, citazioni care all’artista.

Il Sole ovvero la forza vitale
L'Impiccato
La Luna ovvero l'immaginario creativo

Nei meandri del giardino

Appena superato l’ingresso del giardino, il sentiero principale conduce alla grande piazza centrale, dominata dal volto azzurro della Papessa. Emblema dell’inconscio irrazionale, la Papessa (espressione della carta n. II) è considerata “la grande sacerdotessa del potere femminile dell’intuizione… una delle chiavi che portano alla saggezza. Rappresenta il potenziale dell’irrazionale inconscio. Coloro che vogliono spiegare gli avvenimenti soltanto con la logica e i ragionamenti rimangono inevitabilmente in superficie e non riescono a penetrare la realtà con l’immaginario e la visione istintiva”. Da un punto di vista iconografico la scultura si ispira all’orco del parco tardorinascimentale di Bomarzo, seppur ingigantita e sormontata dalla testa del Mago, simbolo di energia, luce, malizia e creatività. Dalla bocca della Papessa sgorga l’acqua che confluisce nella fontana centrale, dove è collocata la grande scultura semovente realizzata da Tinguely che rappresenta la Ruota della Fortuna, la ruota della vita. Da qui prendono avvio itinerari differenti.

Tutto il giardino è una continua sorpresa. Immersi nella vegetazione si trovano queste colossali rappresentazioni, realizzate in cemento armato e metallo e interamente ricoperte di specchi, vetri e ceramiche colorate che evocano le tipiche forme dilatate da Matisse a Picasso. Le sculture che caratterizzano lo stile di Niki de Saint Phalle sono le Nanas: sculture con sembianze femminili a grandezza naturale e dalla forma un po’ grottesca, da lei ideate e create. Il termine spagnolo “Nanas” significa “ragazzine di piccola statura”. Le troviamo visibili nella fontana con giochi d’acqua all’interno del castello dell’imperatore e in molte sue figure femminili raffigurate.

Le statue sono l’ultima tappa del percorso artistico iniziato dalla Saint Phalle nella seconda metà degli Anni Sessanta, quando l’artista allontanò dal Nouveau per approdare a queste grandi opere tridimensionali femminili dalle rotondità accentuate, alcune delle quali sono percorribili e abitabili.

Nella fortezza dell'Imperatore
La Torre di Babele
La Torre di Babele

All’ingresso troviamo il Mago (Carta n. I) il grande giocoliere: “Per me il mago è la carta di Dio che ha creato la meravigliosa farsa di questo mondo nel quale viviamo. È la carta dell’intelligenza attiva, della luce, dell’energia pura, della creazione e del gioco”. Spicca la fortezza dell’Imperatore, una cittadella fortificata il cui loggiato è costituito da 22 colonne, in numero uguale a quello delle carte. Questo è l’arcano che meglio raccoglie l’eredità di Gaudì: ricoperto da vetri di murano e murrine, specchi francesi, boemi e cecoslovacchi, l’Imperatore è simbolo del maschile, dell’ambizione e del potere. Gli si contrappone la carta dell’Imperatrice-Sfinge, identificata come l’opera più rappresentativa dell’intero complesso, non solo perché l’artista ne fece sua abitazione personale ma perché questa scultura enorme e opulenta, con il corpo esageratamente formoso rivestito di una molteplicità di ceramiche, viene identificata come la regina del cielo, sacra magia e civilizzazione. All’interno della di questa gigantesca scultura sono addirittura colllocate una stanza da letto, un soggiorno, una cucina e il bagno con una singolare doccia a forma di serpente. Tutte le pareti sono interamente rivestite da frammenti di specchi, creando un suggestivo effetto da labirinto e casa degli specchi…

Tra le altre opere va ricordata la Temperanza, grande scultura-igloo creata per celebrare la memoria dello scomparso Jean Tinguely e dell’amico Menon, le cui fotografie sono all’interno dell’ambiente ricoperto da ceramiche e specchi di varia forma, innescando uno spaesante effetto caleidoscopico di curve riflesse e deformate. Uno spazio magico e infinito, dunque. Proseguendo il percorso, ci s’imbatte nel Matto, giovane simbolo del caos, dello spirito e dell’entusiasmo, con cui s’identifica l’artista stessa.

Non voglio andare avanti nella descrizione delle altre singole, meravigliose e incredibili opere d’arte contemporanea presenti nel Giardino perché credo che sia giusto che ogni visitatore possa scoprire dal vivo tutti i meandri di questo magico e surreale regno in cui l’artista ha voluto ridisegnare il percorso interiore e artistico della sua stessa vita… un viaggio tra natura, arte ed esistenza che solo fino a un certo punto può essere illustrato ma che per essere colto va vissuto, catapultandosi in questo crogiolo di colori, allusioni e forme che il Giardino custodisce in attesa del prossimo viandante.

Gli itinerari di San Potito Sannitico

Questa è la volta di San Potito Sannitico, nel parco nazionale del Matese.

Era una calda domenica di fine estate, alla scoperta di un nuovo borgo, ma soprattutto di nuove persone, che in fondo sono proprio loro a fare la differenza, rendendo le nostre passeggiate leggere e piacevoli.

Il borgo di San Potito Sannitico sorge alle pendici del Matese, di qui è inutile spiegare l’elevata valenza naturalistica del luogo, che cattura l’attenzione già lungo la strada percorsa per raggiungerlo.

Il bellissimo borgo ultra millenario di San Potito Sannitico offre ai turisti tre itinerari, che percorrendo le strade del paese sono perfettamente collegati l’uno all’altro: Acqua – Storia – Natura.

Sono i tre elementi che caratterizzano San Potito, elementi che si lasciano vivere ed assaporare passeggiando per il paese.

Acqua

L’acqua, è uno degli elementi essenziali che caratterizza le singole stradine e le piazze del paese, con le sue fontane, abbeveratoi e i caratteristici lavatoi, che definiscono un itinerario completo del borgo, accompagnando il turista in un percorso definito.

L'abbeveratoio
Il lavatoio
Il lavatoio
La fontana
La fontana

La storia

La storia, tangibile nella passeggiata tra le stradine, tra i palazzi del 700 e dell’800, il cui primo insediamento si fa risalire al periodo sannitico. Uno degli elementi di spiccata valenza storica è il Palazzo Filangieri de Candida Gonzaga, costruito nel XVII secolo, da una famiglia di latifondisti, i Sannillo. Nell’ottocento è poi passato ai conti Gaetani, che lo ampliarono sul modello della Reggia di Caserta, ispirandosi ad alcuni elementi essenziali come ad esempio lo scalone della reggia. Il palazzo è poi passato in eredità ai Filangieri, attuali proprietari. Oggi il palazzo con le sue decorazioni artistiche, mobili d’epoca e preziosi di ogni genere è anche sede di numerose iniziative culturali.

La natura

Infine, la natura, presente in ogni scorcio, che regala dei panorami mozzafiato.

I tre itinerari si fondono perfettamente in una cornice artistica. Le fontane, le case e le mura del paese sono un vero e proprio museo a cielo aperto, alla portata di tutti, fruibile dal semplice passante al turista, tutti possono ammirarla e goderne.

L’idea nasce nel 2004, dal progetto FateLab, il cui unico obbiettivo è la valorizzazione del territorio. Il progetto vede la partecipazione di artisti vari, nazionali e internazionali, che regalano arte ai visitatori. Dietro a ogni singolo murales vi sono innumerevoli messaggi che affrontano i temi più svariati.

Tante sono anche le opere d’arte installate nelle aree del paese, opere realizzate con l’utilizzo di materiali di riciclo.

Il dolore di emigrare
I murales
Ritratto di famiglia
El silencio del ruido

Le cupole

Altra tappa imperdibile è la scuola materna di San Potito Sannitico. Un progetto di edilizia scolastica caratterizzato da elevate caratteristiche antisismiche e dall’utilizzo di tecnologie innovative.

La scuola materna, con biblioteca e auditorium, è stata realizzata con una struttura a cupola in mattoni e pietra di tufo, ricoperte di cocciopesto con lo scopo di realizzare una struttura antisismica, dopo l’evento sismico che ha interessato il paese nel 2013.

Le cupole

La passeggiata finisce con la splendida vista serale della chiesa di Santa Caterina, incorniciata, nella sua maestosità, da una suggestiva atmosfera.

La chiesa di Santa Caterina

Finisce così la nostra passeggiata a San Potito, soprattutto con la consapevolezza che sono principalmente le persone, in questo caso i nostri tre ‘angeli’, a fare la differenza e ad arricchire le nostre passeggiate. Persone che pensavi non esistessero più, che ti aprono la porta nonostante fossimo in troppi, che ti lanciano un invito a cena, al quale non vedi l’ora di andare.

I borgonauti

Questa tappa, come tantissime altre lasciano in primis in ognuno di noi l’allegria e l’accoglienza che le persone del posto ci trasmettono. Spesso, come in questo caso, ci ritroviamo sommersi di affetto, stupiti dalla diponibilità delle persone e dall’amore che trasmettono per i loro borghi.

Raccolta di San Gennaro

Asprinio poetico

Un po’ di storia. Durante il periodo della quarantena, l’anima, nella piena solitudine sanitaria e nella circoscritta visione delle solite mura, ha viaggiato come non mai alla ricerca di interessi inusuali, sfruttando i pochi spiragli dalle finestre. Un mondo si è disvelato sui bordi della città, un passato coriaceo, come gli antichi racconti dei nonni, perché l’Agro aversano era terra di contadini, demiurghi di pedologie paludose e vulcaniche, punti d’incontro d’opposte forze telluriche. L’agricoltore ha da sempre dovuto mediare il fuoco degli effluvi magmatici e l’irruento fiume Clanio distribuiva limosi doni, ma anche devastazioni e acquitrini diffusori di malaria. Dopo le bonifiche del tempo (Regi lagni), queste terre hanno custodito un raro gioiello enologico, un unicum, un vitigno da cui si produce un “piccolo grande vino”, come ci ricorda un vero custode della memoria enologica, Mario Soldati. Al di là delle varie ipotesi sulle origini di questo ancestrale vitigno, una conferma potrebbe derivare proprio dalla tecnica di coltivazione, quella dell’Alberata aversana (per propaggine e a piede franco, possibile grazie alla natura del suolo prevalentemente vulcanico/sabbioso che ha reso quasi impossibile la vita alla filossera, afide che ha devastato il modo viticolo europeo per anni, sconfitta solo grazie alla tecnica del portinnesto su viti americane), sistema di allevamento  che rimanda ad un’origine etrusca. Gli Etruschi erano soliti coltivare con tutori vivi la vite, cosa che del resto accadeva con il promiscuo nel Chianti in Toscana e in Emilia per i Lambruschi (territori della civiltà etrusca) prima dell’impostazione contemporanea della produzione enologica di impronta francese.

La muraglia
La muraglia
Festoni
Festoni

L’Asprinio ha una simbologia romantica; infatti, si marita (vite maritata) con alberi di olmo e pioppo raggiungendo altezze di venti metri. In questo modo la terra si congiunge con il cielo, e i contadini coltivandola percorrono una ascesa mistica dove la fatica e il pericolo sono elementi della briosità del prodotto, perché per coltivare questa rara uva sono necessarie passione e follia. Un’altra notizia in merito è quella che vede una comunanza genetica con il più rinomato Greco di Tufo irpino. Infatti, l’Asprinio fu portato in Irpinia dalla famiglia Tufo aversana, che in epoca angioina divenne feudataria della solforosa Tufo (AV). Inoltre, gli studi genetici sui biotipi dei due areali, condotti dalla Facoltà di Agraria di Portici della Federico II, avvalorano tale ipotesi.  Un altro particolare per quanto riguarda la tecnica di allevamento delle alberate, presenti prevalentemente nella zona territoriale, denominata Agro aversano, è quello rinvenuto in una raffigurazione pittorica nel bellissimo Real sito di Carditello: esso fu fiore all’occhiello per la zootecnia e la sperimentazione agricola durante il regno dei Borboni. Sulle pareti, sono raffigurate scene dove le viti vengono coltivate con l’ausilio degli alberi, ma la particolarità è che l’uva raffigurata è di colore nero… Ogni simbolo rimanda alla ricerca, questa terra si fonda sull’unicità, che non è frutto sempre della razionalità. La terra ha permesso una graduale sostituzione, quasi scomparsa, di tale particolarità, per rispondere in maggior modo alle esigenze del mercato e alla quantità. Ciò è avvenuto a discapito della qualità di questo raro gioiello, che durante il boom economico divenne uvaggio da taglio per famosi spumanti che inondarono le tavole italiane; d’altro canto i contadini, da eroi romantici, divennero conferitori e la magia andò ben presto affievolendosi.

Ascesi
Ascesi
Uva d'Asprinio di Alberata
Uva d'Asprinio di Alberata
Vite maritata in primavera
Vite maritata in primavera

Esperienze. Durante l’allentamento delle misure anti-covid, la curiosità, implementata dalla cattività sanitaria, ha nutrito il desiderio di toccare con mano questa antica storia. L’esigenza è stata quella di conoscere il mondo di chi per secoli ha coltivato questa terra e custodisce le antiche pratiche e leggende. Ad Aversa, ai margini della urbanizzata città, dove il verde respira con le sue sfumature, resistono ancora strade di campagna in terra battuta, dove è possibile conoscere dinastie di agricoltori custodi, e chi se non i borgonauti potevano spingersi in una conoscenza dell’oblio? In queste passeggiate abbiamo avuto l’onore di dialogare con il signor Angelino, che con grande passione ci ha informato di come le alberate non possano essere conosciute senza emozioni, perché la loro esistenza è frutto di scelte irrazionali. Con lui abbiamo appreso molte cose, e soprattutto “colto” quanto gli agricoltori abbiano una simbiosi profonda con la terra, e come i poeti e gli agricoltori possano scegliere tra due metriche, quelle classiche, sorrette dalla razionalità, o il verso libero spinto dall’inspiegabile dolore/passione che da sempre rende insaziabile l’uomo alla ricerca di un’anima insondabile: in questo caso l’agricoltore è poeta. Durante questi dialoghi primaverili/autunnali, quasi platonici, perché l’alberata è un’idea applicata alla realtà, la terra respirava libera dalla pressione idrocarburica e antropica. Abbiamo sentito originariamente il profumo dei fiori, del cardo e di pesco rosa, ammirato il dischiudersi dei fiori di melo d’annurca candidi, il nascondersi dei delicati ciliegi. La campagna era una tavolozza di colori e odori di cui non avevamo mai fruito nella sua integrità.

Il cardo
Il cardo
Campo di cardi
Campo di cardi

Ritornando all’Asprinio il sig. Angelino ci ha dato appuntamento per la vendemmia che quest’anno si è tenuta nel giorno di San Gennaro, perché è solo nella vendemmia e nella potatura che si può comprendere che gli eroici agricoltori non vivono solo nelle rinomante zone vitivinicole, tra terrazzamenti e quote temerarie, ma anche in un lembo di terra che galleggia sulle acque salmastre, alluvionali e marine, e resiste contro l’ignoranza dell’inquinamento. Gli agricoltori dell’Agro aversano con le loro maestose alberate sono gli unici che hanno avuto l’ardire di coltivare il cielo, con filari alti venti metri una rara stirpe d’uomini ragno capaci di tessere tralci e raccogliere i frutti.

Il sentiero dei nidi di ragno
Il sentiero dei nidi di ragno
Fratelli Angelino
Fratelli Angelino
Un fratello Angelino
Un fratello Angelino

Uve che fluttuano tra sole e ombra e che indiscutibilmente conservano elementi chimici e magici come il profumo di agrumi e l’acidità magmatica esaltata nelle grotte di tufo, dove viene conservato il vino, grotte scavate da abili scalpellini. È giusto ricordare come i contadini fossero anche abili vinificatori stregoni delle grotte, che sapevano rendere il vino particolare semplicemente con il gioco delle lune e fossero conoscitori arcaici e profondi delle costellazioni zuccherine che rendono il vino un’anima duplice, ferma o spumantizzata.

Tra un’ascesa e discesa dalle alberate dei vendemmiatori, siamo riusciti a raccogliere esperienze e ricordi, perché l’agricoltore imprime alla terra ciò che custodisce dentro. Il sig. Angelino discende da una grande famiglia di agricoltori, che da anni coltiva con devozione i rispettivi moggi di terra. Egli ci ha raccontato della sua prima vendemmia a 13 anni e fu… una vera e propria impresa… un rito di iniziazione.

Il peso della terra
Il peso della terra

I nostri ingegnosi agricoltori, infatti, posseggono uno scalillo (scala) di castagno costruito a misura altissima e stretta, particolarmente pesante da alzare e trasportare, sulla quale si inerpicano grazie a dei pioli molto resistenti tali da sorreggere le fascine (contenitori di vimini di forma triangolare con la parte terminale appuntita che facilmente si configgeva nel terreno), nelle quali veniva raccolta l’uva prima di farla discendere verso terra con una corda. Il meccanismo è semplice ma ingegnoso. Di fatto, nel momento della discesa del prodotto verso il suolo sono soliti usare delle foglie di vite tra le mani per evitare che la corda possa tagliarle con l’attrito.

Scalillo
Scalillo
Posizionamento scalillo
Posizionamento scalillo
Sulla vetta
Sulla vetta

Queste scale hanno anche un costo elevato, perché la loro costruzione – date le altezze da raggiungere e il peso da sopportare – devono essere strumenti di alta precisione e qualità, di cui solo pochi artigiani ne conservano l’arte. Un altro elemento interessante è la pratica (ancora rispettata dalla famiglia Angelino) che avviene durante il periodo della potatura, quando la pianta, una volta recisa, piange la linfa e gli agricoltori sono soliti bere del vino accovacciandosi ai piedi dei fusti delle piante, che con la loro vorticosa crescita sembrano ballare un tango plastico e passionale. I contadini chiedono perdono, cercando di dimenticare il dolore arrecato alle piante, portatrici invece di un prodotto di felicità come il vino.

La danza plastica
La danza plastica

L’Asprinio, come i borghi dimenticati, è un vitigno che rischia di essere abbandonato, non solo perché è molto costoso da allevare, ma anche perché non sempre compreso dalla platea degli amanti dei vini così spesso conforme a criteri standard di degustazione stereotipati. Non è un vitigno razionale, ma immediato. Con la sua fresca nota acidula rifiuta l’equilibrio e sa esaltare i sapori e placarne la persistenza. È un particolare modo di esprimere il mondo, un verso libero e dissetante. Curiosa è la mitologia etrusca che parla del dio Flufluns (Dioniso e Bacco, per i greci e i romani) figlio della dea Semia (Semele grc.) che essendo andato a caccia si fermò sotto la frescura di un pioppo e vedendolo solo e indifeso dal sole, decise di lasciare un tralcio di vite come ringraziamento. Nel tempo la pianta di pioppo si accorse che quel dono era ciò che di meglio potesse desiderare poiché da una parte i frutti della vite, che si inerpicò sulle altre piante, assorbivano nei periodi caldi i raggi del sole divenendo di colore dorato, dall’altra la solitudine divenne un lontano ricordo.

La scalata
La scalata
A un passo dal cielo
A un passo dal cielo
Groviglio enoico