Barigazzo: il tempo ritrovato

Esiste un posto dove il tempo scorre col suo ritmo naturale? Abituati alla frenesia delle grandi città, probabilmente alla domanda faremmo fatica a rispondere. Ebbene,qualche volta capita di smentirsi e di riscoprire quel senso del tempo che l’uomo moderno ha perso ad una fermata della metropolitana. No, non troveremo di nuovo il tempo nel traffico vorticoso delle città. Questa volta il tempo lo troviamo proprio dove non avremmo mai immaginato. Negli ultimi anni abbiamo avuto la possibilità di apprezzare il miracolo della vita ma anche la sua caducità e l’impellente bisogno tutto umano di vivere il nostro tempo, nel nostro tempo e in comunità. La pandemia ci ha riportato alle origini delle necessità, alla nostra natura e alla Natura. È in questa circostanza che si scoprono luoghi autentici come quello di cui vi sto per parlare. Barigazzo, frazione di Lama Mocogno, sull’Appennino Modenese, è la materializzazione di una realtà autentica, fatta di tempo, comunità, tradizione e sentimenti. La scoperta di Barigazzo non è stata e non è nel mio caso una semplice e singola passeggiata sull’Appennino, ma una vera esperienza di vita; come dicevo, un ritorno al senso del tempo, al tempo interiore di ciascuno di noi. Gli appassionati di storia e di camminate attraverso i boschi apprezzerebbero sicuramente questo piccolo borgo incastonato ai piedi del Monte Cantiere. La storia di Barigazzo si fonde e si confonde con leggende e tradizioni, musica e folklore. Già Plinio il Vecchio nella sua monumentale opera Naturalis Historia cita la località di Barigatium, facendo riferimento ad un fenomeno naturale legato alla comparsa di alcuni fuochi provenienti dal sottosuolo. Chiaramente, oggi sappiamo che quanto raccontato da Plinio il Vecchio trova la sua spiegazione scientifica in una naturale sorgente di metano. Come ogni eredità del passato pagano, anche il fenomeno dei fuochi di Barigazzo si trasforma ben presto in un racconto che mescola leggenda e religione. Secondo la tradizione, durante una notte tempestosa, una fanciulla del posto sentì bussare alla porta due uomini, rispettivamente il nobile Obizzo da Montegarullo e il suo scudiero: la fanciulla li accolse e i due ripresero il loro cammino. Tuttavia, lo scudiero tornò indietro e con impeto afferrò la fanciulla e la portò via sul suo cavallo. La ragazza pregò intensamente San Giorgio che la salvò, disarmando lo scudiero: il mattino seguente,alcuni viandanti videro la fanciulla aureolata in una fiamma che veniva proprio dalla terra. Questa leggenda contiene molti degli elementi che caratterizzano la storia e la cultura del posto: Obizzo da Montegarullo che ha tessuto la trama della storia medievale del borgo e San Giorgio, santo patrono del borgo a cui la comunità, da sempre, ha affidato le proprie preghiere, intitolandogli la chiesa. La chiesa di San Giorgio (che anticamente era collocata nella parte vecchia di Barigazzo) oggi sorge poco più sopra di Campo dell’Orto, l’antica borgata della famiglia Lancellotti.

Fabrizio Tazzioli, contadino e liutaio di Barigazzo
Costruzione di un violino
Antico mulino ad acqua con ruoto

Oggi, a Campo dell’Orto vivono alcuni dei discendenti dei Lancellotti, i Tazzioli. Di essi, alcuni ancora conservano con orgoglio e sapienza le tradizioni, in special modo quelle musicali. Chiunque arrivi a Barigazzo dovrebbe fare la conoscenza di Fabrizio Tazzioli, meticoloso contadino e liutaio. Fabrizio mi spiega i segreti della sua terra, brulla, sassosa eppure sempre pronta a regalare i suoi frutti se coltivati con amore, pazienza e rispetto. Mi parla del suo grano antico, della forza che la natura sprigiona in estate e dell’ altrettanta pazienza silenziosa che manifesta nei gelidi inverni. Ma Fabrizio è anche un liutaio appassionato, così come lo era il suo bisnonno Ottavio del quale conserva un suggestivo ritratto oltre che il mestiere artigiano. Barigazzo è dunque anche meta per gli appassionati di musica. Entrare e visitare il laboratorio di Fabrizio è un’esperienza unica che permette di tornare a quel concetto di tempo prezioso: il tempo si manifesta nella paziente attesa della natura e delle stagioni, ma anche nella rigorosa arte della liuteria che mescola estro musicale e tecnica di produzione. L’eredità dei Tazzioli non è solo liuteria, ma anche e soprattutto musica, una musica fatta di condivisione familiare ma anche di comunità. La famiglia Tazzioli, infatti, conserva gran parte della tradizione musicale di Barigazzo, dal momento che verso la fine dell’Ottocento Ottavio Lancellotti fondò l’omonima orchestra. Nell’orchestra tanti familiari e tanti strumenti a corda: violini, contrabbasso e chitarre. Gli stessi che oggi vengono costruiti con sapienza da Fabrizio. Se in origine allietava feste e matrimoni, oggi l’orchestra Tazzioli si occupa della conservazione della tradizione musicale della famiglia e, più in generale, dell’Appennino Modenese.

Gli albori dell’Orchestra Tazzioli
L’Orchestra Tazzioli oggi: Domenico, Daniele, Stefano, Fabrizio, Giuliano

Legato alla musica dei Tazzioli è il Gruppo folkloristico di Barigazzo, fondato negli anni ’70 e ancora oggi particolarmente attivo sul territorio: tra valzer, mazurche e abiti d’epoca, il gruppo conserva la propria tradizione e fa tesoro delle proprie radici culturali.

Componenti del gruppo folkloristico di Barigazzo in abiti d’epoca

E’ anche per questo che la musica, a Barigazzo, si fa comunità e diventa momento di generosa condivisione. Chi visita Barigazzo avrà l’impressione di chiudere un cerchio, di sentire la completezza, di sapersi parte di un tutto più grande di noi: il tempo resta se stesso, la natura scandisce il ritmo della vita, le stagioni riflettono ancora e in eterno il rinnovarsi, il riscoprire; le sapienti mani dell’uomo modellano la Natura e con essa pacificamente convivono. A Barigazzo l’autenticità si fa musica dell’animo. A questo posto e ai suoi abitanti devo tanto, non solo l’esperienza di una costante e lunga permanenza, ma anche e soprattutto il caloroso senso d’accoglienza trasmesso. Ai barigazzini e ad alcuni in particolare dedico questo racconto, per tutto l’amore che essi mi dimostrano ogni giorno e per la sensazione d’essere non forestiero ma parte della loro famiglia.

Campi di grano e campanile di Barigazzo

Delia Brusciano

Indietro nel tempo a Castel Morrone, le Termopili d’Italia

Dopo un momento di pausa, legato alla congiuntura di diversi momenti storici (lockdown, pandemia, ecc.) e personali (nuovi impegni, progetti e percorsi lavorativi), riprendiamo con ancora più fervore le nostre passeggiate borgonaute insieme, alla ricerca di borghi da scoprire, tradizioni da conoscere, sentieri da attraversare, artigiani, artisti, musicisti, abitanti da conoscere e soprattutto storie di luoghi, di persone, di culture da raccontarvi! Questa era ed è la nostra battaglia: cercare di squarciare un po’ il velo che copre alcune perle del nostro Paese, ingiustamente ignorate o dimenticate.

Ed è casuale ma fortemente simbolico riafferrare il filo della trama dei racconti delle nostre scoperte da un borgo che ha visto svolgere sul proprio suolo tante battaglie: oggi infatti vi parleremo di Castel Morrone, le Termopili d’Italia, un piccolo paese in provincia di Caserta che ha una interessantissima storia alle sue spalle!

La nostra passeggiata a Castel Morrone

Prima di giungere a Castel Morrone, in una bella Domenica di questo caldo autunno, le uniche informazioni in nostro possesso erano che Castel Morrone fosse una località del Casertano che vantava un bellissimo Castello, costruzione a cui richiama anche il nome del paese, e che non fosse possibile considerare il borgo come un’unica entità, dal momento che esso è un “comune diffuso”, ovvero un agglomerato diviso in varie frazioni, tanti piccoli centri, ciascuno con una sua identità e una propria storia. La nostra fortuna è stata avere come guida un noto abitante di questo evocativo luogo, il signor Pino, grande promotore della cultura del luogo, che, con la sua disponibilità ed enorme passione, ci ha guidato nei meandri del posto e raccontato le (dis)avventure e le storie che si sono intrecciate nel corso dei secoli all’interno della Storia con la S maiuscola che è stata molte volte protagonista a Castel Morrone!  Non è un caso infatti che venga denominata “Le Termopili d’Italia”.

La nostra guida ci ha condotto lungo il cammino e aperto, materialmente, chiavi in mano gentilmente prestate dal Comune, e metaforicamente, le porte chiuse dei luoghi simbolo del borgo.

«Castello di Morrone si vede da ogni Cantone»

Il nostro piccolo borgo si estende su un dolce territorio collinare circondato da una cornice di docili rilievi che si affacciano sulla piana del Volturno. Dopo aver incontrato il signor Pino in Via Scese Lunghe, all’ingresso di Castel Morrone, davanti alla storica pasticceria Sparaco, di cui vi parleremo tra poco, subito ci siamo mossi in direzione Monte Castello, che è stato, sin dall’inizio del percorso, la nostra meta, la collina su cui salire, l’approdo verso cui tendere, la cima da scalare e conquistare: lì ci avrebbe atteso la Storia.

Panorama salendo verso Monte Castello
Panorama salendo verso Monte Castello

La sua posizione strategica l’ha resa, nel corso degli anni, un incredibile osservatorio. Infatti, se si scruta bene, essa lascia ammirare panorami immensi a cominciare dal Massiccio del Matese fino ai Monti Trebulani e alle più profondi valli che si incuneano verso il Sannio, mentre in basso il Volturno fluisce verso Capua in una morbida conca in cui albergano paesi e città testimoni della più grande battaglia conclusiva del Risorgimento italiano. Verso sud, quando il cielo è limpido, lo sguardo arriva fino al golfo di Napoli, regalando una carrellata di scorci di bellezza impagabile.

Scorci panoramici
Borgonauti in esplorazione
Le tracce della storia

Alla sua posizione è legata tutta la storia di Castel Morrone che, in realtà, ebbe inizio nel 313 a.C. con la distruzione da parte dei Sanniti di Plistica, i cui abitanti superstiti fuggirono nella vallata sentendo l’urgente necessità di costruire una fortificazione o meglio un “Castellum” in cui rifugiarsi per proteggersi da eventuali nuove incursioni.

Il castello

Da qui il nome del monte che non è però da collegarsi con i ruderi di un castello medioevale che pure sono ancora visibili. Già salendo con l’auto lungo le vie di Castel Morrone, in cima al monte è possibile scorgere le suggestive mura del castello, che protendono verso il cielo e si può osservare la presenza di una ex cappelletta votiva, all’interno della quale sono ancora rinvenibili santini e preghiere lasciate dai devoti.

Del castello rimane poco. Nell’area in cui sorgeva sono visibili il torrione principale di pianta similmente rettangolare, i resti della cinta muraria e alcune casette, solo piccole testimonianze di antichi splendori. Si narra che il castello fosse stato voluto da Roberto di Lauro, conte di Caserta, sulla scia della fortezza voluta precedentemente dai Normanni. A loro volta, i Normanni rimaneggiarono un edificio già presente di cui ingrandirono l’impianto terrestre. La fortificazione rimase seriamente danneggiata da un violento terremoto, in seguito a cui probabilmente fu abbandonata.

Ma i resoconti anche degli abitanti del posto fanno registrare un altro momento nefasto per il Castello durante la Seconda Guerra Mondiale: sembra che i tedeschi avessero l’abitudine di aggirarsi per Monte Castello per trainare, grazie a dei buoi di fattorie del posto, un cannone che veniva nascosto di notte fra le mura del Castello e di giorno veniva usato contro gli Americani. Un giorno i contadini videro nuvole nere provenire dal Monte: si pensa che un tedesco non addetto all’utilizzo del cannone, per sbaglio ne fece partire un colpo che distrusse buona parte del Castello. In quello stesso giorno gli americani, venuti a conoscenza dello scoppio del cannone, mandarono dei soldati per verificare cosa fosse successo e, durante il tragitto, uno dei soldati mise il piede su una mina nascosta dagli stessi tedeschi e quindi lo sfortunato soldato morì in loco, seppellito dalle mura del castello che la mina aveva fatto esplodere.

Nel medesimo giorno una cannonata ed una mina distrussero ulteriormente il Castello, di cui quel che vediamo sono i resti di tutte queste vicissitudini.

Monte Castello - Ruderi del Castello medioevale
Borgonauti al Castello
Borgonauti al Castello
Resti del Castello feudale
Resti del Castello feudale

Il Santuario di S. Maria della Misericordia

Mentre il castello cadeva nel totale oblio, il luogo divenne anche sacro per la presenza di altari dedicati principalmente ad una Dea protettrice dei raccolti e, ancora oggi, a protezione delle messi, viene invocata colei che è semplicemente chiamata Madonna del Castello alla quale fu dedicato un tempietto intorno all’XI secolo, “Santa Maria De Murrone “ così come viene definita la chiesetta, citata già nel 1113 in una bolla del vescovo di Capua, Senne.

Poco più tardi, per difendersi dalle scorribande gli abitanti si ritirarono all’interno della fortezza costruendovi piccole abitazioni, di cui sopravvivono pochi ruderi, dando vita a Morrone. Questo spiega il forte legame del paese con Monte Castello, che in pratica sancisce la nascita stessa del borgo.

Secondo la leggenda, proprio fra i ruderi del castello feudale, fu trovata un’effigie della Vergine delle Misericordie; poiché la popolazione viveva in un’epoca di fame e sofferenza all’inizio dell’Ottocento, ciò fu visto come un segnale divino, tanto che gli abitanti del borgo vollero edificare un santuario lì, di fianco al Castello, per devozione, e da questa scelta ha avuto origine quindi il Santuario di S. Maria della Misericordia che tuttora sovrasta Monte Castello.

Il santuario è in tufo, con una facciata a capanna, affiancata da un semplice campanile quadrato. L’interno, ad unica navata, è ricoperto da stucchi del secolo XVIII.

 

Ingresso del Santuario
Santuario di Castel Morrone
Apertura dello scorcio
Apertura dello scorcio
Scorcio dal Santuario
Scorcio dagli archi superiori
Scorcio dagli archi superiori
Particolare della struttura in tufo

I vari passaggi della Storia

Sempre per sottolineare quanto la storia del borgo si intrecci con la storia della Penisola italica, dobbiamo ricordare come Castel Morrone abbia visto anche il passaggio di  Annibale e dei cartaginesi durante i celebri “Ozi di Capua”.

Un altro momento fondamentale della vita di Monte Castello ci fa avvolgere vertiginosamente il nastro della storia in avanti fino all’anno 1860, in pieno Risorgimento, e precisamente fino al momento in cui il Re di Napoli Francesco II, a causa dell’approssimarsi dell’armata garibaldina, lasciava Napoli per Gaeta, ordinando prima ai suoi soldati di arretrare oltre il Volturno per un’estrema difesa del Reame.  Il 28 settembre 1860, il 1º Battaglione Bersaglieri dell’Armata garibaldina, di stanza a Caserta, comandato dal capitano Pilade Bronzetti, ricevette l’ordine di raggiungere il Castello di Morrone


Murales Garibaldi

Come 300 furono gli spartani di Leonida alle Termopili, quasi 300 furono i garibaldini di Bronzetti al Castello di Morrone. Il 1º ottobre 1860 da parte borbonica fu dato l’ordine di attacco per l’ultima grande battaglia per la riconquista del Regno: al bivio di Dugenta, la Brigata Ruiz forte di ben 5000 uomini ebbe l’ordine di marciare per Morrone, piombare su Caserta e spezzare il fronte nemico sicché il Maggiore Domenico Nicoletti, comandante del 6º Regg.to di Linea “Farnese” dovette occuparsi dei garibaldini mentre il resto dell’esercito andava verso Caserta.

Nonostante l’evidente sproporzione delle forze in campo, Bronzetti intuì che a Castel Morrone potesse decidersi la sorte di tutta la battaglia del Volturno e non volle cedere di un millimetro. Alle11.00 iniziò la battaglia vera e propria che si protrasse per quasi 5 ore. Alla fine quasi 2.000 uomini combattevano all’arma bianca in un fazzoletto di spazio che, a colpo d’occhio, non sapremmo dire come facesse a contenerli.

Lo scontro si concluse verso le 4,00 del pomeriggio con la morte del comandante dei garibaldini Maggiore Pilade Bronzetti. Sono giunte a noi moltissime testimonianze che mettono in risalto non solo l’eroismo dei garibaldini, ma anche il coraggio e il valore dei soldati borbonici.

Nel punto esatto in cui cadde, una lapide lo ricorda:

Lapide per Bronzetti-Lato frontale del monumento
Lapide-Retro del Monumento
Vista da Monte Castello
Vista da Monte Castello

II combattimento assunse momenti altamente epici e drammatici ed alla fine si concluse con una ventina di morti di cui 16 garibaldini, un grandissimo numero di feriti ed oltre 220 prigionieri.  L’8 dicembre del 1887 fu inaugurato il monumento, una pietra triangolare ideata e scolpita dall’artista Enrico Mossutti, le cui epigrafi furono dettate da Matteo Renato Imbriani che, nel frattempo, era divenuto un notissimo patriota e deputato del Regno. Bronzetti viene anche ricordato all’ingresso della Casa Comunale.

Guardandoci attorno e sentendo i racconti del signor Pino abbiamo poi notato le tracce che anche la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza hanno lasciato sul terreno di Monte Castello: oltre ai segni di bombardamenti di cui abbiamo già parlato, la collina fu anche luogo di deportazione punitiva di diversi abitanti di Castel Morrone in seguito all’uccisione di due soldati nazisti.

 

I Borgonauti con la loro guida, il signor Pino!
I Borgonauti con la loro guida, il signor Pino!

Muovere i nostri passi in quel lembo di spazio antistante il Castello, in quello che era stato il campo di momento così epici o tragici, usare le chiavi per poter entrare nelle stanze della fortezza, affacciarsi e guardare il panorama dalla sommità della collina, leggere l’epigrafe sulla lapide dedicata agli eroi morti sul campo, per un momento, ci ha fatto entrare in una potente macchina del tempo che solo a fatica ci ha poi riportati al tempo presente.

Dalle trame intessute dalla Street Art alle delizie del palato

Al di là delle vicende storiche, delle Comole di cui ci ha parlato il signor Pino, alcuni tra i fenomeni carsici più interessanti del territorio, due crateri siti sul fianco di una collina chiamata Monte Fioralito, al centro della catena dei Monti Tifatini, che speriamo di vedere alla prossima tappa a Castel Morrone, al di là delle varie chiese presenti nel borgo e degli scorci meravigliosi che il posto può offrire, la sua natura agricola, testimoniata anche dalla presenza della Casa della Civiltà Rurale, viene resa manifesta a chi, per la prima volta, si ritrova a passeggiare per i vicoli e le piazze dei “centri” del borgo, anche grazie ai bellissimi murales che colorano i muri e le facciate di alcune case del paese.


Vico Villani in prospettiva - Murales di Marcella Di Patria e Luigia Massaro
La casa dei gatti - murales
Le arti ossigeno della libertà
Le arti ossigeno della libertà
Dettaglio Murales

Già nei pressi del nostro punto di partenza abbiamo potuto subito ammirare la street art firmata da Giovanni Tariello, il cui stile racconta molto bene il mondo contadino di Castel Morrone: la stessa pasticceria Sparaco, che da 30 anni riceve premi e riconoscimenti per i suoi notevoli prodotti dolciari – famosi i panettoni artigianali che abbiamo avuto la fortuna di assaggiare e i dolci ai fichi d’India per cui  il borgo è noto – ha deciso di realizzare packaging originali per la sua attività, sostituendo le solite confezioni monotone, incapaci di esprimere l’identità di un’azienda e di un territorio, con scatole che contenessero un quadro dell’artista. Le immagini di Tariello sono archetipiche e le stesse sagome, spesso solo disegnate a matita, sembrano richiamare elementi primigeni della storia dell’umanità.

Proseguendo poi per il tour tra i vicoli delle varie frazioni, si può giungere al Vico Villani e altre stradine dove i murales di due artiste, Marcella Di Patria e Luigia Massaro, ritraggono scene della vita rurale del borgo immortalando con una calda tavolozza di colori i raccoglitori con cesta sulle spalle, asini e galline, bambini stesi sui dolci pendii delle colline e naturalmente i protagonisti della flora del paese, i tipici fichi d’india che dominano il paesaggio! Altri graffiti li abbiamo potuti scorgere in mezzo ad antichi ulivi, durante una sosta sulle panchine di un giardino comunale, potendo così, ancora una volta apprezzare, il filo sottile che intreccia la natura, in questo caso degli ulivi da cui nasce un altro prodotto rinomato della zona ovvero l’olio, e la rappresentazione di essa tramite la street art.

.

Murales con raccoglitore di fichi
Dettagli di vita rurale
Street art tra Ulivi e Fichi d'India
Dettaglio murales
La paura è l’antitesi della libertà

Su uno dei murales incontrati durante il nostro suggestivo itinerario è riportata la frase “La paura è l’antitesi della libertà” e proprio questa è stata la lezione trasmessa, in ogni modo possibile, dalla passeggiata a Castel Morrone, un borgo che ha dovuto convivere con la paura, ha voluto valorosamente combattere per la propria libertà e che mostra, con personalità e dignità, le ferite e i solchi scavati durante la sua Storia

La paura è l'antitesi della libertà

Flora Albarano

Pentedattilo il borgo fantasma

Il borgo fantasma di Pentedattilo

Incastonato tra le montagne dell’Aspromonte, in quella porzione di Calabria conosciuta come area grecanica, una zona incantevole e aspra situata all’estremità meridionale dello stivale della nostra Penisola, là dove il mar Tirreno incontra il Mar Jonio, si eleva il piccolo borgo di Pentedattilo, oggi frazione del comune di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria.

Sono giunta per la prima volta a Pentedattilo l’estate dello scorso anno, ad agosto 2021, sotto la guida di un amico originario di quella terra a volte dimenticata, custode di fili di tante storie. E quando mi sono trovata ai piedi del borgo mi sono tornate in mente le parole di un libro che indaga i silenzi parlanti dei luoghi abbandonati:

“Guardo le case[…] hanno le felci, le ortiche, i muschi da tutte le parti; hanno crepe che sono tutto sommato confortevoli. Forse un giorno cadranno, ma per il momento resistono […] L’abbandono ha livellato i destini, e ogni casa, ora ogni casa è un teatro, con le quinte in disfacimento, il palco che crepita sotto i passi, un teatro dove possono esibirsi anche quelli che una scena non l’hanno mai avuta. Ogni sera, ad un’ora imprecisata, possono ritrovarsi qui, con grande strepitio di vesti, come fossero attori bruciati, mimi, comparse, tutti un tempo respinti, tutti perciò falliti. Sotto la luce in disfazione, sotto la luce scoppiata, in un momento si ricreerà uno spazio in cui lieviteranno le nuove attese, e anche chi è rimasto sempre indietro finalmente arriverà, tutto trafelato” . (C. Pellegrino, Cade la terra, Giunti).

Durante tutta la visita una domanda non mi ha più lasciato: «Come può un paese vuoto avere così tanto da dirmi?».

 

Ai piedi di Pentedattilo
Ai piedi di Pentedattilo
Visto dal borgo di Pentedattilo
Visto dal borgo di Pentedattilo
LE COORDINATE SPAZIALI

Questo misterioso borgo, dal millenario fascino, sorge alle pendici del Monte Calvario, una parete rocciosa che, come racconta l’origine greca del suo nome, πέντε δάκτυλο- penta daktylos cioè cinque dita, ricorda un’enorme mano aperta, quella di un gigante – forse di un ciclope – disteso a guardare il mare.

Pentedattilo domina la Vallata Sant’Elia, dove lo sguardo non può non essere catturato dalle rocche arenarie di Santa Lena e di Prasterà, circondate da distese di ginestra, ulivi, e tanti fichi d’India. In diversi punti della Vallata ci sono anche tracce di antichi mulini a ruota greca, in passato alimentati dalle acque della fiumara Sant’Elia, preziosissimo bene per l’economia della vallata.

Ma ciò che ipnotizza non appena si giunge ai piedi del borgo è la maestosa rupe di arenaria che lo sovrasta.

Il borgo tra le dita del Ciclope
Il borgo tra le dita del Ciclope
LE COORDINATE STORICO-TEMPORALI

La storia del borgo probabilmente risale, anche se non se ne hanno testimonianze certe, alla Magna Grecia ed è collegata durante il periodo greco-romano, per molti secoli, alla sua cruciale funzione di snodo strategico di collegamento tra il mare, il polo di Reggio Calabria e l’Aspromonte. Le sue radici affondano nel terreno di una zona, quella reggina, che cercava di difendersi dalle incursioni dei Saraceni.

Ai tempi della dominazione dei Bizantini il borgo iniziò a vivere un lento declino, a causa dei numerosi saccheggi a opera dei Saraceni. Divenuto possedimento dei Normanni nel XII secolo, per concessione del Re normanno Ruggero d’Altavilla, fu trasformato in baronia e affidato al controllo degli Abenavoli Del Franco e, successivamente, alla famiglia reggina dei Francoperta. Quest’ultima lo cedette agli Alberti, che lo tennero, nonostante la tragedia della Strage degli Alberti, fino al 1760, anno in cui il Pentedattilo passò in mano ai Clemente e, quindi, ai Ramirez.

Nel 1783 il borgo fu colpito da un terribile terremoto, evento che portò al suo completo spopolamento. La popolazione iniziò a spostarsi verso Melito Porto Salvo fino al Risorgimento, spaventata dalle continue minacce di alluvioni e terremoti.  Proprio per questo, il vecchio borgo ne divenne frazione nel 1811.

Considerato luogo impervio e difficile da abitare, il borgo viene ufficialmente abbandonato all’inizio degli anni Settanta, quando gli ultimi abitanti sono costretti a trasferirsi a valle per ragioni di sicurezza. Borgo fantasma… ma anche paese di fantasmi e leggende.

 

 

Fichi d'india
Fichi d'india
Scorci sulla Vallata
Scorci sulla Vallata
TRA STORIA, LEGGENDE E MISTERO: LA STRAGE DEGLI ALBERTI

Il mistero del borgo di Pentedattilo è collegato anche a una vicenda, al confine tra storia e leggenda, che fa parte del patrimonio e della memoria collettiva di questo luogo.

Per scoprirne le fila bisogna ritornare indietro di qualche secolo, precisamente a quando l’Italia meridionale era sotto il dominio spagnolo e Napoli ne era la capitale sotto la guida del Vicerè. Pentedattilo era feudo dei Baroni Abenavoli che dovettero subire un ridimensionamento del loro territorio,  che si restrinse a   Montebello Jonico e dintorni, mentre il nostro divenne feudo dei marchesi Alberti.

Strage per amore?

Tra le due famiglie non ci fu mai un buon rapporto. La cosiddetta scintilla che fece scoppiare un vero e proprio incendio fu accesa dal più classico dei motivi di ogni “tragedia” che si rispetti: l’amore conteso per una donna. Il barone Bernardino degli Abenavoli si era infatuato di Antonietta, sorella del giovane marchese Lorenzo Alberti. I due si sarebbero anche potuti sposare con un matrimonio nobiliare concordato tra casate ma invece accadde che Lorenzo Alberti sposò Caterina Cortez, figlia del viceré di Napoli e che, in occasione del matrimonio, il fratello della sposa, figlio del vicerè, Don Petrillo Cortez, si innamorò della, affascinante marchesina Antonietta Alberti e subito si programmò il matrimonio.

Si narra che la vigilia di Pasqua del 1686, il barone degli Abenavoli, venuto a conoscenza della cosa, tramite la complicità di un servo di casa Alberti, che gli avrebbe aperto le porte, si sia introdotto in piena notte nel castello degli Alberti con un seguito di circa 40 uomini, compiendo letteralmente una strage. Era il 16 Aprile. La follia omicida del barone non risparmiò nessuno degli Alberti, né Lorenzo né il fratello Simone, un bambino di appena nove anni. Solo la bella Antonietta venne risparmiata e condotta al castello di Montebello, insieme a Don Alberto Cortez, preso come ostaggio. Il 19 aprile Bernardino costrinse Antonietta a sposarlo. La notizia della strage solleticò il viceré di Napoli che ordinò una spedizione militare verso il castello degli Abenavoli. Don Petrillo venne liberato mentre alcuni autori della strage furono giustiziati e le loro teste mozzate furono appese ai merli del castello di Pentedattilo. Bernardo riuscì a fuggire insieme ad Antonietta, che entrò poi in un convento di clausura, e raggiunse Malta, dove dopo essersi arruolato nell’esercito, morì nell’estate del 1692.

Questa vicenda ha segnato profondamente l’immaginario e la storia del borgo: secondo alcuni, quando il vento si insinua tra le dita di roccia del gigante, si possono ancora udire i gemiti degli uccisi che ancora oggi chiedono vendetta.

Strage per un tesoro nascosto?

Un’altra leggenda giunta sino a noi grazie ai racconti popolari delle nonne narra di un tesoro nascosto, accumulato dai vari popoli che occuparono Pentedattilo, forse conservato e nascosto al centro della rupe. Proprio dopo la strage degli Alberti, avvenuta secondo questa altra versione della leggenda a causa di questo tesoro inestimabile, quest’ultimo venne inghiottito dalla montagna e nessuno riusciva a impossessarsene. Un giorno “un cavaliere fantasma” si manifestò a un contadino svelandogli una profezia che gli avrebbe permesso di recuperare il tesoro nascosto nelle dita della montagna: se fosse riuscito a percorrere, poggiando su un solo piede, cinque giri intorno alle cinque dita sarebbe riuscito a spezzare l’incantesimo e la montagna avrebbe restituito il tesoro.

La profezia si diffuse e in tanti cercarono invano di sfidare la montagna per riavere il tesoro. In molti pagarono con la vita la difficile sfida perché perdendo l’equilibrio, precipitavano tra le rocce. Un giorno arrivò un cavaliere dalla Sicilia per sfidare la montagna e spezzare l’incantesimo. A differenza di chi l’aveva preceduto, l’uomo riuscì nel suo intento e man mano che completava i primi 4 giri intorno alle dita della mano, la montagna iniziava ad aprirsi. Nel momento decisivo dell’ultimo giro, intorno al mignolo, il costone di roccia aprendosi, crollò addosso al cavaliere, uccidendolo. Secondo questa seconda versione della legenda quindi le urla che si odono nelle notti di forte vento, apparterrebbero alle anime sacrificate nel tentativo di liberare il tesoro dalle mani del diavolo di Pentedattilo.

L’aspetto del borgo arroccato e disabitato in effetti facilmente accende la fantasia soprattutto se si considera il fatto che il paese è rimasto pressoché inalterato, conservando un’aura di affascinante mistero.

Tramonto dal borgo
Tramonto dal borgo
 IL BORGO FANTASMA

Il borgo è considerato fantasma in quanto è per gran parte disabitato (si dice sia abitato da una sola persona) a causa dei fenomeni migratori e delle continue minacce naturali che lo hanno interessato nel corso della sua lunga e leggendaria storia.

Da allora Pentedattilo è noto come il paese fantasma più suggestivo della costa calabrese, ma negli ultimi tempi, grazie al lavoro di associazioni e volontari del luogo, sta rifiorendo.

Il borgo è adesso un luogo aperto a chi lo voglia scoprire: molte delle antiche case in pietra formano un albergo diffuso, e tra le vie del paese, restaurate nel rispetto della tradizione, sono sorti il Museo delle tradizioni popolari e il Piccolo Museo del Bergamotto, il profumato agrume tipico di questi luoghi. Degno di nota è anche il castello, i cui resti dominano dall’alto.

PASSEGGIANDO PER LE VIE DEL BORGO

Le casette in pietra che spuntano fiancheggiate dai fichi sono diventate alloggi oppure ospitano piccole botteghe artigiane legate alla lavorazione del legno, della ceramica e del vetro, riscoprendo antiche tradizioni e riportando alla luce l’antica cultura della zona grecanica della Calabria, di cui Pentedattilo è un magnifico e prezioso esempio.

 

 

Connubio tra pietra, vegetazione e fauna
Connubio tra pietra, vegetazione e fauna
Botteghe artigianali di Pentedattilo
Botteghe artigianali di Pentedattilo
Tracce di colorenel borgo
Tracce di colore nel borgo

Sono tanti gli scorci sulla vallata, i gradini, le piante che sorgono spontanee tra i blocchi di pietra e man mano che si sale per le stradine del borgo si ode la voce del vento che attraversa la montagna.

Fermandoci a Pentedattilo e attraversandolo, possiamo osservare chiaramente con i nostri occhi le impronte che la millenaria cultura greca ha lasciato: basta ammirare la chiesa del paese, risalente al XVI secolo, la cui architettura è di sapore squisitamente bizantino, per accorgersi di essere nel cuore dell’area grecanica calabrese, anche detta Bovesia. La Chiesa dei santi Pietro e Paolo, appunto di gusto bizantino, a nave unica, con attuale prospetto neoclassico e con il campanile a base quadrata, è stata sede protopapale e, come testimonia la lapide che ancora si conserva, nell’anno 1655 il prete Domenico Toscano di Bova si vantava di essere il primo arciprete latino della chiesa protopapale di Pentedattilo.

Riedificata dopo il terremoto del 1783, ha subito numerosi interventi di restauro, tra i quali, ultimo, quello del 2001, ma anche ahimè il trafugamento della tela, collocata nella pala dell’altare maggiore, raffigurante i santi Pietro e Paolo. La Chiesa conserva le tombe della famiglia Alberti, la famiglia al centro della sanguinaria storia/leggenda che da secoli marchia di rosso il borgo misterioso di Pentedattilo.

 

Chiesa dei Santi Pietro e Paolo - Pentedattilo
Chiesa dei Santi Pietro e Paolo - Pentedattilo
Per le vie del borgo
Per le vie del borgo
Verso la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo
Verso la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo
CURIOSITÀ

Il borgo, nei secoli, ha ammaliato tantissimi visitatori, illustri e non. Tanti ne hanno lodato bellezza e fascino, come hanno fatto sia il celebre artista olandese Maurits Cornelius Escher, che realizzò di Pentedattilo numerose incisioni, sia lo scrittore inglese Edward Lear, il cui viaggio a piedi in Calabria ha ispirato la creazione di uno splendido cammino – il “sentiero dell’inglese”.

Ancora oggi Pentedattilo è al centro di una terra tutta da scoprire, lungo un asse ancora troppo poco battuto, che va dalle spiagge incontaminate e selvagge del Mar Jonio fino, salendo, al Parco naturale dell’Aspromonte.

Quando si arriva, in fondo abbastanza agevolmente, ai piedi di questo borgo che sbuca dalla mano rocciosa del ciclope, si apre una specie di varco temporale che ti catapulta di colpo fuori dal presente, qualunque esso, e ti proietta in una Storia immortale, scolpita in ogni angolo, assorbita dalla pietra, rintracciabile nei profumi e nella vita della vegetazione, nei colori, nei suoni del vento e nelle tradizioni di un tempo antico la cui voce riecheggia, ritorna e ti ricorda che è lì davanti ai tuoi occhi, fiero della sua esistenza.

Un’esistenza che va omaggiata con la presenza, la rivitalizzazione, la narrazione di un paese ricco di storia in cui tornerò, spero, anche con i miei compagni borgonauti, per aiutare i volontari del luogo a far conoscere questa pietra miliare del patrimonio storico calabro e italiano, che mi auguro diventi una tappa fissa per chiunque ambisca semplicemente a respirare l’essenza della Storia di questa meravigliosa e ancora troppo sconosciuta terra.

Pentedattilo al calar della sera
Pentedattilo al calar della sera

Flora Albarano

Flumen album: un nome latino per il borgo dei Celti

La scure prendi su, Lombardo, da Fiumalbo e Frassinoro!  Il vento ha già spiumato il cardo, fruga la tua barba d’oro.

Menzionato persino nei componimenti del Pascoli (La partenza del boscaiolo), Fiumalbo, in provincia di Modena, è stato negli ultimi anni uno dei borghi più belli d’Italia. Per chiunque abbia voglia di immergersi nella natura e nei boschi, oltre che nella storia, il borgo di Fiumalbo è meta consigliatissima. Questa meravigliosa location sorge alle pendici del Monte Cimone, il Grande Vecchio che domina l’ Appennino tosco-emiliano. Proprio da Fiumalbo, più precisamente dalla località Doccia, si snodano i sentieri naturali che portano fino alla cima del Cimone, a 2165 metri sul livello del mare! Su questi sentieri, poco lontane dal centro abitato, sorgono le capanne celtiche, costruzioni antichissime che raccontano la storia e le tradizioni delle civiltà montane. Questi edifici sono caratterizzati da facciate a gradoni e lastre di arenaria: la loro fisionomia consente di ricostruire la storia più antica del luogo che, con ogni probabilità, affonda le sue radici nelle civiltà celtiche che hanno abitato le zone montane del Frignano. Principale caratteristica di queste abitazioni è il tetto, particolarmente spiovente e nella maggior parte dei casi ricoperto da paglia, in modo da potersi proteggere dal vento e dalla neve. La neve, forse lo spettacolo più frequente da poter ammirare nelle valli del Cimone, rappresenta un’attrazione importante per l’intera zona, specie per Fiumalbo che è a due passi dall’Abetone, quasi sul confine regionale. Ovviamente, a chiunque avesse voglia di “scalare” il Cimone, consiglio la stagione estiva oltre che la partenza proprio da Fiumalbo: il percorso è più comodo e, al ritorno, ci si può fermare e ristorarsi in paese!

Il monte Cimone visto da Barigazzo, (MO)

Ma perché Fiumalbo? Secondo alcuni studiosi, talvolta anche di origine locale, il nome del borgo potrebbe derivare dal latino “flumen album”, cioè fiume bianco: il piccolo paesino incastonato ai piedi del Cimone si trova esattamente tra due corsi d’acqua che, proprio a Fiumalbo, si uniscono a formare il fiume Scoltenna. Ma chi furono i popoli che abitarono questa bellissima terra? La storia di Fiumalbo è millenaria: con ogni probabilità i primi abitanti del territorio furono i Liguri Friniati che si stanziarono sull’Appennino modenese a partire dal secondo secolo a.C.; fin dal 1038 la località è conosciuta con il proprio nome, grazie ad un testo scritto che testimoniava la cessione del luogo da parte del marchese Bonifacio di Canossa (padre della più famosa Matilde) al Vescovo di Modena. Da sempre luogo conteso, a partire dal 1936 parte del territorio di Fiumalbo costituisce insieme a Cutigliano il comune di Abetone, già Toscana.

Fiumalbo e i monti del crinale appenninico
Scorcio della località Borghetto

Visitare Fiumalbo per la prima volta è un’esperienza unica. Prima di raggiungere il paese, ci si immerge in auto su strade colorate a seconda della stagione che ne è padrona: fantastici i tramonti estivi. Il primo luogo che desta molta curiosità si trova proprio all’ingresso del paese: si tratta della piccola chiesa dell’Oratorio di San Rocco. L’edificio fu probabilmente costruito nel 1418 e collocato alle porte del paese per scongiurare epidemie e pestilenze. La struttura attuale risale, invece, agli inizi del cinquecento quando fu ampliata e rivestita di affreschi. L’interno è molto suggestivo: entrando dalla piccola porta, ci si lascia alle spalle la luce per entrare in un’atmosfera dalle note mistiche: sulla volta a botte che ricopre la chiesa vi sono gli affreschi di un artista di Carpi, il Saccaccini, realizzati nel 1535. Le scene raffigurano, al centro, la Madonna col bambino e, di seguito storie degli Apostoli e dei santi, tra i quali San Bartolomeo, il Santo Patrono di Fiumalbo.

Oratorio di San Rocco
Affreschi dell’Oratorio

Il centro storico conserva ancora l’aspetto medievale, con le sue case di pietra e le botteghe che si affacciano sulle piccole stradine che attraversano il borgo. In piazza sorge la chiesa intitolata a San Bartolomeo: l’edificio fu costruito per la prima volta nel 1220 e poi ricostruito nel 1592. Di particolare rilevanza artistica sono le cappelle laterali della chiesa in cui è possibile ancora ammirare frammenti lapidei di età romanica.

Chiesa di San Bartolomeo

Passeggiando tra i vicoli talvolta troppo bassi, è possibile ascoltare il rumore del silenzio e la possente presenza della natura. E’ lì che ci dirigiamo, verso i luoghi che la natura e l’uomo hanno saputo condividere. Esattamente sul versante opposto rispetto a quello d’ingresso al paese si trova il Seminario, luogo di culto e di cultura da più di duecento anni: è possibile raggiungerlo attraversando un caratteristico ponte che oltrepassa il fiume sottostante.

Seminario di Fiumalbo
Scorcio del fiume Scoltenna

A molti viaggiatori Fiumalbo potrà sembrare troppo piccola e invece nasconde in sé degli angoli, dei paesaggi e delle storie uniche; Fiumalbo è la dimostrazione che la storia dei popoli del nostro Paese è viva e che altrettanto vive e preziose sono le radici dalle quali proveniamo: Fiumalbo non è altro che un scrigno che protegge dal tempo la propria unicità.

Scorcio dei vicoli del borgo

Delia Brusciano

Ponte di Olina

Olina e Lavacchio: un viaggio tra cielo e terra sull’Appennino modenese

«Per tutti coloro che hanno un po’ l’illuministico comune sentimento di luogo, che viene a volte alterato e reso debole, Olina è un’eccezione, perché non è un insieme più o meno confuso di oggetti edilizi provocatoriamente collocati in piena antitesi con tutto ciò che natura e storia vi avevano prodotto. È un luogo vero, non un “non luogo” caratterizzato da estraniazioni e da dispersioni insediative»

(Elio Garzillo, in Seicento Appenninico. La Chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Olina)

Le parole dell’ architetto Elio Garzillo descrivono in maniera plastica e viva non solo e non tanto il luogo fisico, ma soprattutto le sensazioni che si destano in chi vi fa visita. Immerso completamente nel verde dell’Appennino modenese, il borgo di Olina è una frazione del comune di Pavullo nel Frignano. Come al solito, immancabile è la curiosità per la toponomastica: il nome “Olina” deriverebbe da “aula”, in latino ampia traduzione di un luogo aperto e arioso e che, difatti, ben descrive il clima mite e la fertilità di tale territorio. Tuttavia, oltre alle meraviglie paesaggistiche che il borgo offre per la sua strategica posizione sull’Appennino, Olina ha significato tanto per la storia locale e non solo. Le fonti attestano che il borgo fu teatro di un violentissimo scontro tra le diverse fazioni che si contendevano il territorio del Frignano: nel 1269, i ghibellini Montecuccoli sconfissero l’esercito modenese guelfo; tuttavia, queste lotte intestine terminarono soltanto nel 1337, quando i Montecuccoli (poi divenuti signori del Frignano) si allearono definitivamente con la più nota e nobile famiglia degli Estensi.

Ponte di Olina
Ponte di Olina

Per secoli, Olina è stata anche un luogo cruciale per la tratta Sestola-Fanano, snodo che si congiungeva alla più importante strada che collegava le città di Modena e Pistoia. Del resto, non è un caso che l’attrazione principale di questa località sia proprio un elemento architettonico che segna il passaggio da un luogo ad un altro: stiamo parlando del suo ponte, famoso nel territorio non solo per bellezza ma anche per raffinatezza ingegneristica. Il ponte di Olina fu costruito nel 1522 per congiungere l’Emilia con la Toscana, collegando così le due sponde del fiume Scoltenna: oggi, ancora in perfetto stato, è il simbolo della frazione. Per secoli, il ponte ha rappresentato il principale collegamento tra Modena e Pistoia: per tale ragione, la sua costruzione fu voluta non solo dai Montecuccoli, ma anche dai signori di Firenze e di Lucca. Progettato da Giovanni e Bernardo Parrocchetti, il ponte fu edificato secondo dei criteri che per l’epoca erano molto avanzati: la forma dell’arcata è parabolica e consente di sostenere e scaricare un enorme peso che, con altre tecniche di costruzione, la pietra locale non sarebbe riuscita a sorreggere. Nonostante la sua imponenza, il ponte conserva ancora oggi un aspetto slanciato e leggero. Come ogni luogo misterioso che si rispetti, anche il ponte di Olina ha la sua leggenda: si racconta che chiunque passi dal ponte in una notte tempestosa e buia senta una voce strozzata che chiede aiuto, come se qualcuno stesse tentando di catapultarla nel fiume. Con un po’ di fantasia, potremmo immaginare il volto o l’ombra di questa voce sinistra, magari affacciata proprio dalla piccola edicola sacra costruita in cima al ponte, a protezione della imponente costruzione.

Fiume Scoltenna
Edicola sacra sul ponte di Olina

Ma se il ponte unisce due lembi di terra, cos’è che l’uomo costruisce per guardare da più vicino il cielo? E’ questa la domanda che ci si pone quando ci si imbatte nelle torri di pietra dei Montecuccoli.

Oggi, una delle meglio conservate è la torre della frazione di Lavacchio, a pochi chilometri dal comune di Pavullo nel Frignano. A partire dagli anni ’80, questo luogo è stato protagonista di un’opera di rivalorizzazione territoriale: oggi, è un borgo d’arte, caratteristico per i suoi mosaici e per i suoi murales che all’antichità della torre contrappongono un’aura di modernità.

Panorama
Scorcio panoramico dalla torre

La prima testimonianza scritta che riporta il nome della località risale al 1034 e cita “locus qui dicitur Lavacli”: dunque, si suppone che la frazione di Lavacchio sia antichissima e altrettanto vetusta anche la sua torre.

Torre di Lavacchio
Chiesa di Sant'Anna

La torre di Lavacchio, come tutte le altre disseminate nel Frignano, era una torre di avvistamento: della sua funzione è testimonianza la forma snella dell’edificio, le caditoie poste solo sulla cima ed un’unica porta di ingresso sopraelevata rispetto al livello della terra. Poco distante, sorge la piccola chiesa di Sant’Anna, probabilmente eretta sulla rovine del castello di Obizzo da Montegarullo e consacrata alla Santa nel 1522: l’edificio conserva un aspetto semplice e rurale, poiché costruito con la tipica pietra locale e possiede un campanile a vela, in linea con lo stile della la vicina chiesa di San Lorenzo martire, presso la località Montecuccolo. I luoghi che qui vi abbiamo raccontato sono una piccola parte dell’enorme testimonianza culturale che solo l’Italia può vantare: un connubio storico e paesaggistico di immenso valore che certamente non ha eguali altrove.

                                                                                                                                                                                                      Delia Brusciano

Non ci resta che andare a Sermoneta!

Quest’ultimo anno di certo non ha consentito viaggi o grandi spostamenti… Approfittando di uno dei pochi momenti in cui era consentito uscire dal proprio Comune per una passeggiata, ho potuto vivere una giornata indimenticabile, visitando uno dei borghi medievali più belli del Lazio, l’antichissima Sermoneta, situata a 257 metri sul livello del mare tra l’Agro pontino e i Monti Lepini.

In questa occasione ho dovuto rinunciare alla compagnia degli altri Borgonauti e mi sono affidata alla sicura guida di amici storici che sono stati spesso meravigliosi compagni di avventura e di scoperta.

La prima visita e la Loggia dei mercanti

In realtà avevo già avuto un primo approccio con la perpetua bellezza di Sermoneta diversi anni fa: la conobbi in occasione del matrimonio di una cara amica che aveva scelto, come luogo per dire il suo “sì”, la meravigliosa Loggia dei Mercanti del borgo, che con i suoi archi a tutto sesto è uno dei posti più suggestivi del paese.

La Loggia dei Mercanti
La Loggia dei Mercanti
Vista dall'arcata della Loggia
Vista dall'arcata della Loggia
Affacciandosi dalla Loggia
Affacciandosi dalla Loggia

Costruita nel 1446 per volere di Onorato III Caetani per essere utilizzata come sede del Comune, delle assemblee popolari e degli scambi commerciali, la Loggia è divenuta pian piano il fulcro delle attività commerciali con le botteghe nei magazzini e le stalle sotto le ariose arcate: dal Cinquecento assunse il ruolo di centro civico. Oggi la Loggia dei Mercanti rappresenta un punto di aggregazione per gli abitanti di Sermoneta che qui si incontrano per molteplici motivi.

 
Ciak, si gira!

E proprio entrando nella Loggia è impossibile, allora come adesso, non farsi trascinare in un buco spazio-temporale magnetico in cui non si può non sentire l’eco di voci lontane e cinematografiche che risuonano nell’aria… Proprio da queste arcate infatti il mitico Massimo Troisi si affacciava in una delle scene epiche del film “Non ci resta che piangere” e rispondeva al predicatore che lo incalzava:

«Predicatore: Ricordati che devi morire!

Mario: Come?

Predicatore: Ricordati… che devi morire!

Mario: Va bene…

Predicatore: Ricordati che devi morire!

Mario: Sì, sì… no… mo’ me lo segno».

Anche memore della particolare atmosfera respirata durante la prima tappa nel borgo che, però, non potei all’epoca visitare, vi sono ritornata recentemente per poter finalmente conoscere i meandri di questo “villaggio” che conserva immutata la sua storia nelle sue strade a gradini, nelle salite e discese, nelle piazze, case, chiesette e in ogni angolo del paese.

Un po’ di storia

In realtà a ridosso di dove oggi è collocata l’Abbazia di Valvisciolo, sorgeva l’antica Sulmo, città dei Volsci, in seguito divenuta colonia romana con il nome di Sora Moneta in onore della dea Giunone Moneta.  A causa dell’invasione dei Saraceni e dell’espansione delle paludi pontine che fecero anche preferire ai Romani una strada tra le montagne piuttosto che la via Appia come collegamento tra Roma e Napoli, gli abitanti dell’antica Sulmo si trasferirono nell’attuale Sermoneta, che viene citata con questo nome già nell’XI proprio come evoluzione del nome “Sulmonetta” ovvero “piccola Sulmo”.

La sua storia è connessa da un lunghissimo filo alle vicende della famiglia Caetani che, dal 1297, ne fecero il centro dei loro domini sull’intero Lazio meridionale, grazie alla sua posizione strategica sulla via Pedemontana, l’arteria che aveva appunto sostituito l’Appia nei collegamenti fra il Nord e Sud d’Italia. I sermonetani, per ottenere il controllo della strada, sconfissero prima Ninfa e poi Sezze. E infatti oggi il borgo attira spesso l’attenzione dei visitatori del giardino dell’antica Ninfa che, dopo dopo l’immersione floreale, scelgono di far tappa nel paesino.

Il Castello 

A questo periodo, il XIII secolo, risale il borgo medievale, che ha perfettamente conservato il suo impianto urbanistico, con due dei suoi simboli principali, il Castello Caetani, uno dei più famosi esempi laziali di architettura difensiva, che domina il paese e l’intera Pianura Pontina e il Duomo.

Il Rione Castello
Il Rione Castello
Davanti al Castello Caetani

Il Castello costruito dagli Annibaldi e poi passato ai Caetani è accessibile da più ponti levatoi tramite i quali è possibile l’ingresso al castello, per arrivare alla Piazza d’Armi e alla torre centrale “il maschio” che ha di fronte una torre di più modeste dimensioni, “il maschietto”. Il maniero si mostra ancora oggi in tutto il suo splendore, dalla magnificenza delle mura esterne alle artistiche sale interne, decorate con degli splendidi affreschi del pittore Girolamo Siciolante, poi detto il Sermoneta. 

Da poco tempo si possono scoprire anche le prigioni, dove si possono notare i disegni murari realizzati dai detenuti durante l’angusta permanenza.  Anche nelle stalle del Castello si sono girate alcune scene del film “Non resta che piangere”.  Un tempo il cortile della roccaforte ospitava militari mentre ora è sede di concerti ed eventi.

 Il Castello è un luogo a cui i sermonetani sono sempre stati molto legati tanto che, quando Alessandro Borgia fu nominato Papa e scomunicò i Caetani, confiscando i loro possedimenti, compreso il castello di Sermoneta che venne trasformato in una mera fortezza difensiva, il popolo, da sempre fedele ai Caetani, li aiutò, per ciò che era in proprio potere fare, a tornare padroni del borgo e del castello.

Il cortile interno del Castello
Il cortile interno del Castello
La Salita delle Scalette
La Salita delle Scalette
Il  Duomo

Il Duomo di Sermoneta ovvero la Cattedrale di Santa Maria Assunta fu edificata nel V secolo d.C. su un tempio pagano dedicato alla dea Cibele adibito poi al rito cristiano. Essa fu costruita a pianta basilicale con forme romaniche e nel XIII secolo assunse quell’aspetto gotico che ancora oggi riconosciamo, probabilmente grazie agli interventi degli architetti cistercensi di Fossanova.

All’interno della Cattedrale che oggi è a tre navate con quattro cappelle per ogni lato, si osserva lo stile architettonico romanico e cistercense, caratterizzato da mezze colonne adiacenti ai pilastri della navata centrale e del portico, archetti pensili disposti lungo la navata minore destra, molto simili nelle forme a quelli dell’Abbazia di Fossanova presso Priverno, archetti a sesto acuto e le volte a crociera.

All’esterno della Cattedrale, il primo elemento che si ammira è il Campanile, alto 24 metri, in stile romanico, in origine isolato, che oggi si sviluppa su quattro piani e presenta su ciascun lato finestre a bifore con colonnine romane, inizialmente costituito da cinque piani, uno dei quali fu abbattuto da un fulmine.

Il Campanile del Duomo
Il Campanile del Duomo
Interno della Cattedrale di Santa Maria Assunta
Il cuore del borgo – il centro storico

Intorno all’antico maniero si sviluppa il borgo che, come già accennato sopra, si presenta inalterato e perenne, con le sue case in pietra calcarea, il succedersi di pendenze e declivi, il dedalo dei suoi vicoli, gli angoli fioriti, le botteghe artigianali e gli scorci sulla piana sottostante.

Le strade di Sermoneta
Particolari
Passeggiando tra i vicoli
Le casette del borgo

Passeggiando senza meta per il piccolo centro storico si può godere della sensazione di passeggiare al di fuori del tempo, ammirando tra le abitazioni elementi architettonici e decorativi di grande pregio come bifore, stemmi, portali a bugnato, archi a tutto sesto e ad ogiva, loggiati, insieme a edifici d’importanza storica ed artistica quali la già ricordata Loggia dei Mercanti, la rinascimentale Chiesa dell’Annunziata, il Palazzo Comunale e la Sinagoga ebraica.

I punti panoramici del borgo

Se si percorre verso l’alto Via del Rione Vecchio, una pittoresca viuzza di Sermoneta che conduce alla famosa Salita delle Scalette, ci si trova all’interno di uno spazio fatto di gradoni incluso tra le case arroccate che termina, sulla sommità delle scale, con la vista del castello di Sermoneta. Se invece voltiamo le spalle al vecchio castello, davanti ai nostri occhi si giunge al Belvedere di Sermoneta, da cui si può ammirare un vastissimo panorama sulla pianura e sul litorale pontino mentre lungo le mura quattrocentesche, invece, è stato recentemente allestito un percorso pedonale, che si snoda tra ulivi e terrazzamenti.

Scorcio del Belvedere da via delle Scalette
Scorcio del Belvedere da via delle Scalette
Vista sull'agro pontino dai terrazzamenti lungo le mura
La Chiesetta di San Michele Arcangelo

Se dal Belvedere, invece di imboccare la via delle Scalette, si scende verso via della Valle, si arriva in una zona più nascosta del borgo che porta all’antica Chiesa di San Michele Arcangelo, una chiesetta del 1100 che, con la sua cripta di dipinti quattrocenteschi, è un vero gioiellino.

La chiesa, intitolata a San Michele, anche detta di Sant’Angelo, è stata costruita nel’XI sec. sui resti del tempio romano dedicato alla dea Maia ed è stata eretta in stile romanico ma modificata nel corso degli anni come testimoniano il portico, gli archi delle navate, il soffitto a crociera di impronta cistercense.

Affresco della Chiesa di San Michele Arcangelo
Affresco della Chiesa di San Michele Arcangelo
La Chiesa di San Michele Arcangelo
La Chiesa di San Michele Arcangelo
Non solo arte ma anche gastronomia

Vale la pena visitare il borgo di Sermoneta non solo per una passeggiata tra arte e storia ma anche per fare un viaggio gastronomico e assaggiare la tradizione culinaria tipica delle colline lepine.  Si tratta di piatti specifici che hanno la propria nota peculiare nella semplicità della pasta fresca alla carne, nella degustazione di salumi soprattutto di cinghiale, du formaggi e minestre.

Tra i piatti caratteristici non si possono non menzionare:

  • le lacchene, pasta all’uovo più larga delle fettuccine, o le  fettuccine alla “jutta” condite con un sugo di pomodoro cotto per molte ore con il pecorino;
  • zuppa con i fagioli;
  •  gli strozzapreti conditi con un sugo a base di mortadella e prosciutto cotto tritati o con cinghiale o con abbacchio o con funghi trifolati;
  • i famosi tagliolini di Fabio Stivali al Trombolotto, caratteristica salsa ai profumi di olio, limone trombolotto e 12-14 erbe aromatiche del sottobosco, rielaborata da antiche ricette monastiche cistercensi del Medioevo che consigliavano di spremere il limone con le olive lasciandovi in infusione le erbe;
  • la polenta con la salsiccia;
  • tra i dolci spiccano le serpette, biscotti a forma di serpente, fatti con ingredienti molto semplici quali zucchero, uova e farina, preparati per la prima volta  per celebrare la vittoria dei cristiani contro i Turchi nella battaglia di Lepanto alla quale partecipò il valente Onorato Caetani. La caratteristica forma di serpetta fa anche riferimento all’onda, presente insieme all’aquila nello stemma della famiglia Caetani;
  • tra i liquori da citare Piccolo l’Amaro dell’Agro Pontino, il primo amaro di questa zona e di Sermoneta, una miscela di erbe tra cui alloro, genziana, rabarbaro e agrumi, tra i quali spicca il Merancolo, arancia amara selvatica sermonetana dal succo molto aspro e leggermente amaro.
Fettuccine con funghi e trombolotto
Le serpette di Sermoneta
Il Sapore delle tradizioni – la Rievocazione storica della battaglia di Lepanto

Il 7 ottobre 1571, nelle acque di Lepanto, venne combattuta una delle battaglie più famose e importanti della storia, quella che vide la sconfitta delle flotte dell’Impero Ottomano ad opera di quelle cristiane della Lega Santa di papa Pio V. Tra le fila delle forze alleate combatteva il Duca Onorato IV Caetani, Comandante Generale della Fanteria Pontificia sulla nave Grifone, che nel momento più intenso della battaglia, pronunciò un voto con il quale si impegnava, in caso di vittoria, a erigere una chiesa a Sermoneta.

L’esito della battaglia è noto a tutti, ma forse molti non sanno che il Duca, al suo ritorno, tenne fede alla promessa edificando la chiesa, dove poi fu sepolto, che prese il nome di Madonna della Vittoria. Da allora Sermoneta, ogni anno, la seconda domenica di ottobre, ricorda la Battaglia di Lepanto con una grande rievocazione storica che coinvolge tutti i rioni del paese e i loro abitanti.

Sebbene la manifestazione raggiunga il proprio culmine con il suggestivo corteo storico, la ricostruzione del ricongiungimento tra il Duca Onorato IV Caetani e la sua sposa Agnesina Colonna al ritorno dalla battaglia, e il Palio Equestre tra i rioni, nei vari quartieri del paese la festa dura almeno una settimana con iniziative ed eventi che coinvolgono tutta la popolazione anche dei dintorni.

Il corteo è composto da 170 figuranti in costumi d’epoca, che si reca dapprima al Belvedere per rievocare l’incontro tra il Duca e la sua sposa, e prosegue, poi, verso il campo sportivo per il palio. La Rievocazione trascina in festa i rioni cittadini che coinvolgono i partecipanti in vari spettacoli, ma porta nel borgo anche le esibizioni anche di altre località che sono presenti con sbandieratori, archibugieri e fanfare. Spesso infatti si riuniscono a Sermoneta gli Sbandieratori delle contrade di Cori, gli Archibugieri Trombonieri di Cava de’ Tirreni e della Fanfara di Paliano.

Sermoneta e la Battaglia di Lepanto
Curiosità

Molti non sanno che Sermoneta e il suo territorio custodiscono le tracce maggiori della presenza dei Templari nel Lazio. Ne sarebbero espressione i numerosi simboli riscontrabili nei suoi più importanti edifici sacri, sempre caratterizzati da un’evidente impronta cistercense. Tale Ordine è notoriamente legato ai misteriosi monaci-cavalieri. Tra i segni più interessanti vanno annoverati almeno la “Triplice Cinta Druidica” e il celebre “Sator”. La prima è incisa un po’ ovunque nel borgo e soprattutto sulle chiese di San Michele Arcangelo, dell’Annunziata e sulla Cattedrale di Santa Maria Assunta; il “Sator” sarebbe presente nel chiostro dell’Abbazia di Valvisciolo che si trova fuori dalle mura e che sarà oggetto di una prossima visita al borgo, magari in compagnia di tutti i Borgonauti.

Simboli dalle origini remote e di derivazione probabilmente celtica, sul cui significato ancora si discute, sembra che i Templari se ne servissero per “contrassegnare” i luoghi a cui conferissero un’incredibile valenza sacra e tellurica, in base ad una selezione effettuata secondo occulte conoscenze sulle energie della Natura. La presenza templare è avvalorata anche da vecchi racconti tramandati dalle fonti locali, riguardanti soprattutto Valvisciolo: nei sotterranei dell’abbazia si troverebbe, infatti, il favoloso tesoro dei Templari. In ogni caso, a parte gli elementi favolosi, è un dato certo che i Cavalieri del Tempio s’insediarono per un certo periodo a Valvisciolo, forse a cavallo tra XIII e XIV secolo, com’è provato dalla croce templare scolpita sulla sinistra dell’oculo centrale del rosone.

Scorci panoramici
Scorci panoramici
Girando tra le case in pietra

Si potrebbe scrivere ancora tantissimo su Sermoneta, non solo per citare altri punti di interesse su cui non mi sono soffermata in questo tentativo di narrazione, ma anche perché trattasi di un borgo che non conserva intatta soltanto la sua storica struttura urbanistica, contrassegnata da quella pietra calcarea che ti circonda e rapisce non appena metti il piede sul primo ciottolo, bensì perché l’antica Sulmo è un paese che custodisce, ai piedi del suo maniero, un grande rispetto per i suoi simboli e le sue tradizioni, da quelle storico-medievali a quelle folcloristiche, da quelle culinarie e artigianali a quelle artistiche. Sermoneta si è reinventata senza però snaturarsi troppo, aprendo anche le porte del suo centro storico al cinema, agli eventi, al turismo, iniziando così a entrare in itinerari di avventori curiosi di ripercorrere le tracce del suo passato.

Ed è per questo che spero che il borgo possa regalare, a tanti viandanti come me, momenti eterni come quelli donatimi in una calda domenica estiva, a tanti abitanti la voglia di restare nel paese natio per mantenere viva una storia gloriosa e aggiungervi altri motivi di pregio e di curiosità ma, soprattutto, mi auguro che possa fungere da modello trainante per tanti borghi dimenticati che, come Sermoneta, hanno racchiusi nel proprio “cuore” una profonda ricchezza dalle lontane origini tutta da scoprire e valorizzare. Non ci resta che andare a Sermoneta, anzi ritornarvi al più presto!

Il Borgo in fiore!
Il Borgo in fiore!

Il Carnevale: dalle origini alla cucina

La storia

La parola ‘Carnevale’ deriva dal latino carnem levare che vuol dire ‘eliminare la carne’, poiché anticamente il banchetto si teneva il martedì grasso prima del digiuno della Quaresima (periodo in cui ci si astiene dal consumo della carne). Questa festa ha origini molto antiche ed incerte, che sembrano risalire all’epoca greco-romana durante il quale si tenevano cerimonie pagane in onore del dio Saturno, per propiziare l’inizio dell’anno agricolo. Durante queste feste ci si mascherava e ci si abbandonava ai piaceri dei sensi, mangiando, bevendo e divertendosi. Nel Medioevo i festeggiamenti furono mantenuti simili a quelli greco-romani, con la differenza che essi terminavano con il processo di un fantoccio come simbolo di espiazione dei mali commessi durante l’anno. Questi festeggiamenti sregolati, successivamente, non furono ben visti dalla Chiesta, che cercò in qualche modo di ridimensionarli. Così, il Carnevale cominciò ad essere rappresentato da compagnie di attori in maschera che a partire dal Cinquecento si esibivano nelle corti dei nobili.  

Arlecchino e Pulcinella: due facce della stessa medaglia

Arlecchino e Pulcinella, sebbene indossassero due costumi e modi di esprimersi diversi sono molto simili, sia per lo status sociale di appartenenza che per il rapporto che intercorre tra i due: il primo rappresenta il buono, il secondo il sfrontato e chiacchierone.

La storia di Arlecchino

Arlecchino era un bambino bergamasco che viveva in povertà con la sua mamma. Per Carnevale la sua scuola organizzò una festa durante la quale tutti i bambini avrebbero dovuto vestirsi in maschera. Arlecchino, purtroppo, non poteva permettersi una maschera, così la mamma chiese agli altri bambini un pezzo di stoffa tagliata dal loro vestito. In questo modo venne fuori il coloratissimo vestito di Arlecchino.

La storia di Pulcinella

La maschera di Pulcinella è tipicamente napoletana e le sue origini si avvolgono nella nube del mistero. Secondo alcune fonti il nome Pulcinella deriverebbe da ‘piccolo pulcino’ con riferimento al suo naso a becco. Secondo altre fonti, invece, Pulcinella deriva da Puccio d’Aniello, un attore di Acerra che nel Seicento si unì come buffone ad una compagnia di girovaghi del suo paese. Secondo altri ancora, la maschera di Pulcinella si ispirava alla maschera atellana di Maccus.

Sfizi culinari

Vogliamo lasciarvi, dopo aver letto questo breve e simpatico articolo, la nostra borgoricetta, tutta carnevalesca: le chiacchiere.

INGREDIENTI

  • 500 g di farina di tipo 00
  • 100 ml latte
  • 70 g di zucchero
  • 2 uova
  • 20 g burro
  • 20 g di liquore strega
  • 1 scorza di limone
  • Sale
  • Semi di arachide per friggere
  • Zucchero a velo

PROCEDIMENTO

  • Unire in una terrina: la farina, il burro, le uova, il latte, il liquore, lo zucchero ed un pizzico di sale.
  • Impastare fino ad ottenere un impasto liscio ed omogeneo che andrà avvolto nella pellicola trasparente e messo a riposare in frigo per almeno 30 minuti.
  • Dividere l’impasto in tanti pezzi e stendere ogni pezzo formando dei rettangoli (sarebbe meglio se ogni rettangolo venisse steso col tirapasta).
  • Tagliare le chiacchiere con una rondella.
  • Friggere le chiacchiere nell’olio caldo, scolarle e lasciarle raffreddare.
  • Infine cospargerle di zucchero a velo e servirle.

Vi auguriamo un buon Carnevale!

Ilaria P.

Viaggio nel cuore del Vulture: Venosa, l’antica patria di Orazio

Una delle peggiori tragedie dell’umanità è quella di rimandare il momento di cominciare a vivere. Sogniamo tutti giardini incantati al di là dell’orizzonte, invece di goderci la vista delle aiuole in fiore sotto le nostre finestre.” (cit. Quinto Orazio Flacco).

Questi sono solo alcuni dei versi di Orazio, l’intellettuale latino del “carpe diem” che invita a non fidarsi del futuro ma invece ci spinge ad assaporare ogni momento della vita presente. Il sommo poeta ci incita ancora oggi a brindare con il suo Nunc est bibendum, “Ora è il momento di bere”, e nelle sue liriche piene di sentimento non dimenticò di citare le bellezze naturali della sua terra, porta di confine tra antica Apulia, Lucania e Sannio, facendo spesso riferimento alla dolcezza dei boschi della sua patria.

 E oggi è proprio dell’antica colonia romana di Venosa che vogliamo parlare, per ripercorrerne insieme la storia e soprattutto riviverne la bellezza.

Infatti ogni strada, ogni vicolo, ogni angolo, ogni monumento del borgo senza tempo di Venosa sono espressione della cultura che nei secoli ha permeato la città, dando origine a espressioni artistiche e architettoniche di incredibile valore.

SULLE TRACCE DI ORAZIO – ARIA DI POESIA

Gli abitanti di Venosa hanno sempre sentito molte forte il legame con l’antico poeta Orazio tanto da dedicargli una delle più importanti piazze del paese al cui centro hanno collocato una sua statua, sotto cui troviamo la seguente epigrafe: “Nacqui l’8 Dicembre del 65 a.C. presso Venosa del Vulture al confine con la Lucania”.

Anche se Orazio trascorse a Roma, in qualità di intellettuale del Circolo di Mecenate, la maggior parte della sua vita, abbiamo a Venosa numerose tracce delle sue origini a partire da quella che la tradizione indica essere la sua casa nativa. Le sue opere sono piene di riferimenti ai luoghi dell’infanzia, la mitica “Fons Bandusiae”, “il procelloso Ofanto”, “l’infido Adriatico” oltre alle già citate “selve del Vulture”, luogo del cuore in cui dove il poeta rimembra le corse da bambino.

Orazio poeta Venosa
Versi del Poeta Orazio
UN PASSO INDIETRO NEI SECOLI
Etimologia ed epoca romana

La storica città di Venusia, il cui nome secondo alcuni sarebbe stato dato dall’eroe Troiano Diomede in onore di Venus, la dea della bellezza e dell’amore, per placare l’ira della Dea offesa nella guerra di Troia, mentre secondo altri trarrebbe origine da “vinum” in riferimento all’abbondanza e alla bontà dei suoi vini, risulta esistente già dal Paleolitico Inferiore, come dimostrato anche dal ritrovamento di reperti preistorici in località Loreto. Un’altra ipotesi è che il nome sia legato alle vene d’acqua da cui il borgo è attraversato.

Grazie al processo di romanizzazione, iniziato nel 291 a.C. con il prolungamento della Via Appia, il centro acquistò importanza fino a divenire un Municipium. A partire dal 70 d.C., si verificò anche la formazione di una colonia ebraica, testimonianza straordinaria di incroci di popoli come si può notare sulla collina della Maddalena, appena fuori dalle mura fortificate: qui sono visitabili ancora nelle sue cavità sia le sepolture ebree sia quelle degli abitanti cristiani.

Dal Medioevo ai nostri giorni

Nell’Alto medioevo, Venosa fu occupata dai Longobardi e dai Bizantini e, successivamente, subì ripetute incursioni Saracene. Qui nacque Manfredi Lancia Hohenstaufen, figlio naturale di Federico II e Bianca Lancia. Il momento di svolta si ebbe durante la dominazione normanna, grazie anche alla presenza benedettina, periodo durante cui si sviluppa il complesso della Santissima Trinità, il monumento storico più importante della città oraziana.

Con gli Angioini Venosa passa agli Orsini e sarà fondamentale per la cittadina la presenza del duca Pirro del Balzo, il quale che fece edificare il castello, costruito dal 1460 al 1470 insieme alla cattedrale di Sant’Andrea, la quale sarà terminata nel 1502 e consacrata nel 1531.

Ai Del Balzo seguirono i Gesualdo, feudatari e principi di Venosa e tra XVIII e XIX secolo Venosa passò dai Ludovisi ai Caracciolo finché nel 1820 ebbe una buona rappresentanza della carboneria, mentre con l’Unità d’Italia, nel 1861, fu conquistata dai briganti del rionerese Carmine Crocco.

RESPIRANDO ARTE

Quasi tutte le strade della città portano alla piazza centrale, Piazza Umberto I, dov’è possibile visitare il castello di Pirro del Balzo, circondato da un profondo fossato, oggi sede della Biblioteca nazionale e del Museo archeologico nazionale.

Castello Venosa
Il Castello di Pirro del Balzo

Nel punto in cui è collocato il castello nel 1042 dodici signori normanni si spartirono il territorio lucano e pugliese. Qui vi era prima una antica Cattedrale romanica, dedicata a san Felice, il santo che visse il martirio a Venosa ai tempi di Diocleziano, la quale fu abbattuta per far posto al maniero costruito quando, nel 1443, Venosa venne portata in dote da Maria Donata Orsini a Pirro del Balzo, figlio del duca di Andria.

Il Castello di Pirro del Balzo

In origine vi era una fortificazione a pianta quadrata, difesa da una cinta muraria dello spessore di 3 metri, con torri cilindriche angolari, priva degli stessi bastioni che furono completati nella metà del secolo successivo. Anche se il castello nacque come baluardo difensivo, successivamente, con i Gesualdo divenne dimora del feudatario. In seguito ai danni subiti per scosse sismiche nel corso dei Seicento, la roccaforte venne ricostruita dai Caracciolo con l’aggiunta di nuove parti come l’elegante loggiato al piano nobile, nell’intento di riaffermare il potere signorile sulla città che rimpiangeva i vanti del glorioso passato.

Oggi quando ci si accinge a visitare il Museo posto all’interno, all’inizio del ponte di accesso, si possono vedere due teste di leone provenienti dalle rovine romane: passeggiando per le stradine di Venosa si incontra spesso questo elemento ornamentale ricorrente in un borgo che è ricco di statue, incisioni e blocchi di pietra antichi situati in contesti nuovi, fuori dal tempo, grazie alla politica attuata in passato di costruire e restaurare attingendo dai materiali delle rovine antiche. Possiamo notare la presenza del leone in pietra anche nella famosa fontana di Messer Oto, edificata tra il 1313 e il 1314, a seguito del privilegio concesso dal re Roberto I d’Angiò con cui si consentiva alla città di avere le fontane nel centro abitato.

Fontana Venosa Messer OTO
Fontana di Messer Oto
IL SIGNIFICATO SIMBOLICO DEL LEONE

Il leone guardiano di un luogo sacro. Partendo dalla convinzione che i leoni nascessero con gli occhi aperti (Plutarco), era diffusa nell’antichità la credenza che questi fossero aperti sempre; ecco perché le loro statue venivano poste a guardia di un luogo sacro. Tale tradizione continuò anche in epoca cristiana, come testimoniano le coppie di leoni collocate in epoca medievale ai lati dell’ingresso delle chiese romane.

Il leone simbolo di resurrezione. In base alla lettura del “Physiologus“, un bestiario alessandrino del II/IV secolo d.C. che raccoglieva descrizioni di animali molto più antiche e spesso inattendibili, la leonessa partoriva morto il suo piccolo, quindi lo vegliava per tre giorni finché arrivava il padre che gli soffiava sul volto, donandogli la vita (Aristotele e Plinio il Vecchio). Questa antica tradizione spiega per quale motivo il leone fosse spesso rappresentato nelle religioni salvifiche (culto di Iside, culto di Cibele e cristianesimo).

 

La possibilità di incrociare ad ogni passo elementi appartenenti a un altro tempo rende particolarmente suggestiva la passeggiata a Venosa perché si ha la costante e crescente sensazione di attraversare nello stesso momento molti tempi diversi e, nel frattempo, di essere in un borgo senza tempo.

Uscendo dal castello, alla sua destra, si può ammirare la facciata barocca della Chiesa del Purgatorio detta anche Chiesa di San Filippo Neri, edificio di culto che piacque così tanto agli abitanti di Venosa che costruirono anche una statua per il cardinale Giovan Battista De Luca che lo volle edificare, ponendola davanti alla chiesa. Possiamo anche ammirare una delle fontane storiche del borgo, la fontana Angioina o dei Pilieri, situata nel luogo dal quale, fino al 1842, si accedeva alla città attraverso la porta cittadina detta appunto “fontana”.

Angolo del Castello
Angolo del Castello
Chiesa del Purgatorio
Chiesa del Purgatorio
La Cattedrale

Continuando a passeggiare dopo aver costeggiato la chiesa, si può imboccare via Vittorio Emanuele e dopo aver percorso la strada, soffermandosi sui vari pannelli dedicati al poeta Orazio, si giunge a Largo Vescovado dove non si può non osservare l’imponente Cattedrale di Sant’Andrea Apostolo, chiesa costituita da tre navate modulate da archi a sesto acuto, edificata a partire dal 1470. Da notare il campanile annesso alto 42 metri a tre piani cubici e due a prisma ottagonali, una cuspide piramidale con grande sfera metallica in cima, sormontata da una croce con banderuola. Sempre per la politica di riuso dei materiali a cui ho già fatto riferimento il materiale per la costruzione fu preso dall’Anfiteatro Romano e questo spiega il perché siano inseriti dentro le pareti dell’edificio iscrizioni latine, e pietre funerarie.

Cattedrale san Andrea Apostolo
Il Campanile della Cattedrale di Sant'Andrea Apostolo

Ma il fiore all’occhiello del borgo è in località San Rocco, uno spazio che sembra essere rimasto aggrappato a un altro mondo, proiettando il visitatore in una specie di dimensione multitemporale: a pochi metri l’uno dall’altra possiamo infatti osservare l’antico parco archeologico, la chiesa dell’Incompiuta e la splendida Abbazia della Trinità, luoghi sacri fortemente legati all’origine della dinastia normanna.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DI VENOSA

Dalla chiesa di San Rocco è possibile accedere al parco archeologico che racchiude i resti monumentali della colonia latina di Venusia dal Periodo repubblicano all’Età medievale. Proprio il fatto che ci sia stata un’assenza di sovrapposizioni edilizie sull’area urbanizzata, tra il Periodo romano repubblicano e l’Età medievale inoltrata fa del parco archeologico un unicum in Italia per quanto concerne le città esistenti le cui origini risalgono a prima di Cristo. Anche questo aspetto contribuisce a rendere Venosa un borgo senza tempo.

Il Parco archeologico
Il Parco archeologico

All’interno del parco ci sono le terme realizzate nel I sec. d.C. e ristrutturate fino al III sec. d.C., i quartieri abitativi, tra cui una domus con mosaici e un isolato delimitato da due assi viari basolati. Sulla parte opposta della strada che taglia in due l’area archeologica sorgeva l’Anfiteatro, di forma ellittica, la cui costruzione può farsi risalire all’età giulio-claudia per le parti in muratura in opera reticolata, all’età traiana-adrianea per l’opera muraria mista. Dopo il periodo romano l’anfiteatro fu smontato pezzo per pezzo e i materiali sottratti furono usati per qualificare l’ambiente urbano della città e quindi si sono conservate le tracce solo dell’antica forma che prevedeva tre piani.

L’ABBAZIA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ

Si erge come una sorta di fondale maestoso del percorso del parco archeologico l’Abbazia della Santissima Trinità, integralmente restaurata, eccezionale per il fatto di conservare in sé tutte le sue diverse fasi costruttive, con il conseguente suggestivo incrocio di stili: dalla domus romana imperiale al complesso episcopale paleocristiano testimoniato pavimento e dal mosaico all’ingresso della chiesa, all’impianto abbaziale benedettino risalente all’epoca normanna fino alle tracce lasciate dai Cavalieri di Malta che vi soggiornarono fino al 1800.

Incompiuta
L'Incompiuta

La parte posteriore dell’Abbazia è occupata dalla chiesa dell’Incompiuta che resta l’unico caso visibile di un fenomeno che normalmente si doveva verificare quando si costruiva una chiesa nuova sul luogo di una più vecchia: si lasciava in piedi la prima fino al momento in cui la nuova non fosse in grado di assumere le funzioni di quella più antica. La chiesa nuova fu iniziata dai Benedettini con l’idea di ampliare la chiesa precedente e costruire un’unica vasta basilica. I lavori s’interruppero per probabili problemi economici e perché i Benedettini furono costretti nel 1297 a lasciare Venosa per volere di Bonifacio quando ormai erano stati alzati i muri perimetrali e i pilastri. Il colpo d’occhio dell’Incompiuta oggi è mozzafiato, con le mura che disegnano il perfetto profilo di una grande croce e delimitano un’area che ha per pavimento il prato e al di sopra esclusivamente il cielo.

Vista sul Parco archeologico e la chiesa di San Rocco dall'Incompiuta
Affresco all'interno dell'Abbazia della Santissima Trinità
LE CURIOSITÀ LEGATE ALL’ABBAZIA
La colonna dell’amicizia e dell’amore

“Siete andati a girare la pietra?” Fino a poco tempo a Venosa invece di chiedere a una coppia se si fosse sposata si era solito chiedere ai fidanzati se fossero andati a “girare la pietra” nell’Abbazia della Santissima Trinità, dove è collocata una colonna detta colonna dell’amicizia, attorno alla quale sono avvolte tante braccia: la leggenda prediceva che se due persone avessero abbracciato la colonna prendendosi reciprocamente la mani sarebbero state legate da eterna amicizia. Dall’amicizia poi l’auspicio si è focalizzato sui matrimoni in quanto la credenza voleva se fossero stati i coniugi ad abbracciarsi attorno alla colonna ciò avrebbe suggellato in modo sacrale l’unione. Ancora oggi ci sono donne inoltre che, non riuscendo ad avere figli, vanno a strofinarsi sulla colonna con un triplo giro per evocare un antico rito di amore e fertilità.

Il ripudio di Alberada

All’interno dell’Abbazia nella navata sinistra c’è un’elegante tomba marmorea, quella di Alberada, moglie ripudiata da Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo. Su di essa c’è un’incisione: “Se stai cercando mio figlio puoi trovarlo a Venosa”. Il figlio citato altri non era che Boemondo, famoso condottiero di cui parlò anche Tasso nella Gerusalemme liberata. Il destino ha voluto che nella navata destra ci fossero invece proprio le tombe degli Altavilla e secondo alcune fonti non certe e da verificare vi sarebbero sepolti anche i corpi del Guiscardo e dei suoi tre fratelli.

Interno dell'Abbazia della Santissima Trinità
Interno dell'Abbazia della Santissima Trinità
Particolare all'interno dell'Abbazia
Dettaglio affresco interno all'Abbazia
LA NUOVA VITA DEL BORGO

Tanti sono stati finora i richiami ai segni tangibili della storia e del glorioso passato del borgo. Ma come e dove si svolge oggi la vita della cittadina? Venosa è un borgo piccolo e compatto che può essere attraversato a piedi piacevolmente, abbandonando le arterie e le piazze principali e perdendosi nel folto e intricato gomitolo di vicoli che si snodano dalle vie maggiori. Purtroppo proprio questi vicoli storici sono stati negli anni oggetto di spopolamento. Eppure era proprio qui che si svolgeva in passato la vita della comunità: spazi animati dal mercato del pesce, donne dirette verso le piccole chiese, grotte che conservavano vino e dimore dei braccianti agricoli.

Anche per riqualificare questa realtà è nata a Venosa l’Associazione familiari antistigma “Alda Merini. La onlus nacque nel 2009 per iniziativa di alcuni genitori di pazienti affetti da disturbi psichici; l’obiettivo era cancellare lo stigma della malattia mentale e favorire progetti culturali e sociali di inclusione. Il motto ispiratore dell’associazione due versi: “dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fiori” tratti dal brano Via del campo di Fabrizio De André. Sulla scia di queste note e dei versi oraziani si è dato vita nel borgo lucano a un progetto di miglioramento degli spazi urbani mediante l’arte.

Progetti di valorizzazione

Ad esempio nel 2016 per contro-invertire la tendenza all’isolamento del centro storico alcuni artisti hanno deciso di lavorare per creare un contesto attrattivo partendo da materiale da riciclo al fine di realizzare opere da posizionare sui muri di case vuote. Tutti scelsero di ritrarre lo stesso soggetto: un angelo, figura di confine fra terra e cielo e così nel 2018 Venosa ha inaugurato vico degli Angeli.

Nei vicoletti si osservano volti conosciuti, come quello della pittrice messicana Frida Kahlo o quello di Anna Frank. Non solo immagini, ma anche parole colorano il centro disabitato: è possibile imbattersi in versi, citazioni, strofe o dipinti su porte, panchine, facciate delle case.

corcio sul Vico degli angeli
Scorcio sul Vico degli angeli
Porta con le parole di Frida Kahlo
Interno di una bottega venosina
Panchine "parlanti"
Panchine "parlanti"

Inoltre tra i progetti permanenti del borgo che ho particolarmente amato la “Biblioteca del vicolo”, una casetta in legno situata in varie stradine che sollecita il bookcrossing e lo spirito di condivisione, invitando a prendere un libro posto da qualche passante sui ripiani lasciandone un altro al suo posto.

Tutte le iniziative artistiche e sociali ammirate a Venosa hanno lasciato la speranza che il borgo possa vivere una rinascita in linea con la sua millenaria storia. 

Soluzione onirica

Proprio di recente ho scoperto con gioia che qualche mese fa in largo Manfredi, nel cuore del centro storico della città di Orazio, le mura si sono colorate grazie all’intervento artistico della giovane venosina Rossana D’Andretta, laureanda in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. La giovane artista ha voluto lanciare un messaggio ai giovani residenti o di passaggio nella sua città di origine. Soluzione onirica è il nome del murales fatto dalla pittrice in collaborazione con l’Associazione familiare antistigma “Alda Merini”, che ha voluto ospitare sulla facciata della nuova sede questa manifestazione di speranza. Si pensa di creare all’interno di questo spazio un atelier di pittura per bambini affetti dallo spettro autistico, che non vediamo l’ora sia realizzato.

Biblioteca del Largo
Biblioteca del Vicolo

Venosa è un borgo in cui è piacevole rifugiarsi anche solo per passeggiare tra le viuzze, passare sotto gli archi, leggere i molteplici messaggi custoditi dalla città, chiacchierare con i proprietari delle botteghe come il simpaticissimo ed eccentrico Moreno proprietario di uno di quei luoghi in cui puoi trovare di tutto dagli abiti e i gioielli da cerimonia agli oggetti di antiquariato, scena o arredo, fermarsi in una delle spettacolari trattorie del borgo a degustare i fantastici prodotti della tradizione enologica e culinaria lucana.

PROFUMI E SAPORI DEL TERRITORIO

Se infatti la città oraziana può incantare viaggiatori di passaggio con la ricchezza del suo patrimonio artistico, non si può non riconoscere che altrettanto ricca sia la produzione della sua terra. I piatti tipici di Venosa sono legati a ricette che appartengono alla cultura popolare dei lucani, all’insegna di radici antiche e ingredienti del contado. In un’economia povera come è stata sempre quella lucana, il “primo piatto” ha sempre rivestito un ruolo da protagonista, di solito realizzato con pasta fatta in casa unita a legumi o verdure.

 Alcuni piatti che è impossibile non citare
  • Cavatelli con le cime di rape, pasta fatta in casa con cime di rape e con soffritto di aglio olio e peperoncino (c’è anche la versione con l’aggiunta di peperone crusco).
  • Lagane e ceci, fatti con farina di grano duro, ceci, aglio, pomodori, olio di oliva, sale e una foglia di alloro, una piatto anche detto “piatto del brigante”. Secondo i racconti popolari infatti sembra che i briganti, che infestavano nella seconda metà del XIX secolo i boschi del Vulture, fossero soprannominati “scolalagne” per le grandi abbuffate di pasta.
  • Strascinati mollicati, nati dalle mani delle massaie che con passione si dedicavano di buon mattino alla preparazione di questa pasta “povera”, fatta senza uova, ma esclusivamente con acqua e farina, probabilmente devono il proprio formato di pasta alle orecchiette baresi. Qui questa pasta casereccia ha subìto una rielaborazione diventando leggermente più spessa e dalla forma più larga rispetto alle orecchiette di un tempo. Se gli strascinati erano accompagnati per lo più ad ortaggi e verdure oggi si accompagnano a cavolo, pomodoro e mollica fritta, donde il nome di “strascinati mollicati”.
  • U Cutturidd, carne di pecora (i pastori utilizzavano spesso carne di animali vecchi e improduttivi) aromatizzata con olio, lardo, pomodori, cipolla, patate, peperoncino, prezzemolo e caciocavallo podolico stagionato.
  • Baccalà con peperoni cruschi, il piatto emblema della Basilicata: baccalà lessato con aggiunta di peperoni crusci soffritti nell’olio EVO
Aglianico del Vulture

Se la cucina offre grandi specialità possiamo non ricordare che Venosa ha uno dei maggiori vitigni italiani grazie alla produzione di Aglianico del Vulture?

Il rapporto con il vino

L’Aglianico venosino è tra i maggiori vini rossi DOCG d’Italia grazie al perfetto connubio tra la ricca ed equilibrata composizione del terreno di origine vulcanica tipica del Vulture e il clima delle dolci colline di Venosa. Ha un colore rosso rubino con riflessi violacei e un sapore vellutato e tannico. Nel periodo romano l’importanza di questo vino è testimoniata da una moneta bronzea, coniata nella città di Venusia nel IV secolo a.C., raffigurante Dionisio che regge con una mano un grappolo di uva e il monogramma VE.

Ritorniamo allora ad alcuni dei tanti versi che il poeta Orazio dedicò al vino della sua città nativa: «Il vino è un gran cavallo, per un poeta lepido; ma se tu berrai acqua, non partorirai nulla di buono». Immergendomi in questo spirito simposiale,  l’augurio che rivolgo a me stessa, ai miei amici borgonauti e a tutti noi è di tornare presto a viaggiare, calpestare il suolo di una cittadina come quella di Venosa e brindare con un grande calice di vino alla storia millenaria che si respira in questo borgo senza tempo, all’altezza della quale potremo essere solo se riusciremo a far sì che luoghi come Venosa non siano musei o bomboniere da ammirare ma luoghi sempre vivi e attivi che possano continuare ad essere teatro della storia presente e futura.

Casertavecchia: itinerario di arte, storia e riflessione

I Borgonauti oggi raccontano di un borgo medievale, che ospita meno di duecento abitanti, situato a poca distanza dalla città di Caserta. Trovandosi alle pendici dei monti Tifatini, il percorso per raggiungerlo è leggermente tortuoso, ma la bellezza antica del luogo e dei suoi panorami ripaga sempre ogni visitatore. Parliamo di quella che oggi è conosciuta come Casertavecchia ma che nel Medioevo, prima che la denominazione passasse al nuovo centro abitato della pianura, era chiamata semplicemente Caserta. Non si hanno notizie certe sulle origini del borgo, ma è possibile ritrovarne delle tracce nello scritto Historia Langobardorum Beneventanorum del monaco benedettino Erchemperto, il quale indica già nell’ 861 d.C. un nucleo urbano, denominato Casahirta, dove attualmente si trova Casertavecchia. Tale espressione latina è da tradursi in “villaggio ispido o erto”, con probabile riferimento alla sua collocazione in altura o di difficile accesso.
Il Casahirta ha una storia ricca di mutamenti e alcune di essi hanno lasciato il segno di un importante sviluppo, come il secolo IX in cui le incursioni saracene e le devastazioni di Capua indussero gli abitanti e il clero delle zone circostanti a trasferirsi a Casertavecchia per godere di un rifugio sicuro. A seguito di ciò, infatti, la popolazione aumentò in modo così significativo da determinare il trasferimento della sede vescovile all’interno del borgo. Altra tappa storica importante fu l’occupazione normanna, capeggiata da Riccardo I di Aversa, che segnò una forte crescita del sito: è a questo periodo che risale, ad esempio, la costruzione dell’attuale Cattedrale di San Michele Arcangelo. Il florido progresso continuò poi con la dominazione Sveva: il borgo aumentò il proprio prestigio, grazie alla figura e alla politica del consigliere di Federico II e conte di Caserta, Riccardo de Lauro. A queste fasi di splendore subentrò poi un lungo e lento declino, cominciato col dominio Aragonese, durante il quale la vita incominciò a svilupparsi progressivamente in pianura. A Casertavecchia permase allora solo il vescovato e il seminario, che poi nell’anno 1842, per volere di Papa Gregorio XVI, furono anch’essi trasferiti nell’attuale Caserta. Il borgo si spopolò definitamente, quando i Borbone resero la città sede della bellissima Reggia, consacrandola a nuovo cuore pulsante dell’attività politica e sociale. Sarà poi dal 1960, anno dell’inserimento del luogo nella lista dei monumenti nazionali italiani, che Casertavecchia ritornerà al centro dell’interesse, seppur in maggioranza turistico, di quella stessa vita che per lungo tempo l’aveva trascurata.

Il percorso di mistero e fascino

Chiunque decida di farsi stupire da Casahirta, viene subito accontentato, perché si imbatte immediatamente in una chiesetta, posta al centro strada: la Cappella di San Rocco. Parliamo di una struttura religiosa, risalente secondo gli storici al XVII secolo, realizzata in omaggio all’omonimo santo. La costruzione ha fattezze delicate e sobrie: possiede un portico, un piccolo campanile e un unico affresco decorativo esterno, raffigurante una bellissima Madonna. La cappella è aperta al pubblico il 16 di agosto, giorno in cui si celebra la figura di San Rocco, e si ha la possibilità di scorgere un antico crocifisso ligneo, la statua del santo e quegli affreschi, realizzati tra il XVII e XVIII secolo, che hanno resistito al logoramento del tempo. La cappella con la sua semplicità insinua nell’animo di chi osserva il desiderio di ammirarla da vicino per capirne i segreti, cancellati dell’incuria e dalla solitudine. Comincia così generalmente una passeggiata a Casertavecchia: con lo stupore e la smania di scoperta.

La Cappella di San Rocco
Affreschi interni della Cappella di San Rocco

Proprio allora con il cuore carico di impazienza, si può proseguire verso un’altra meraviglia architettonica, che, imponente, si lascia ammirare dal visitatore con regale distacco: la torre normanna. Secondo alcuni studiosi, la sua costruzione fu ordinata da Riccardo di Lauro, grazie al quale il borgo conserva ancora oggi un torrione cilindrico, che con i suoi 32 metri di altezza ed un diametro di circa 10 metri è nel suo genere tra i più grandi d’Europa. Essa era munita di due accessi con ponti levatoi e di un fossato, che la rendevano impenetrabile, e aveva al proprio interno tre sale circolari sovrastanti. La torre normanna, oltre al suo primato europeo, racchiude un segreto, raccontato dai pochi abitanti del luogo, che ha il sapore di un intenso mistero: si narra che il torrione sia tuttora abitato dal fantasma della consuocera di Federico II di Svevia: Siffridina, che con l’arrivo di Carlo D’Angiò, per la sua fedeltà alla casata sveva fu rinchiusa nel Castello di Trani in Puglia. La donna trascorse i suoi ultimi anni imprigionata, sola e soffrendo la lontananza da Casertavecchia, a cui decise di tornare sotto forma di spirito dopo la sua morte, risiedendo proprio nel torrione. Quando regna il silenzio, secondo la leggenda, è ancora possibile sentirne i passi e le parole.

Il torrione del castello

Mentre l’udito si affina, sperando di carpire questi suoni nascosti, gli occhi si proiettano impazienti verso il vicino castello di Casertavecchia. Parliamo di costruzione risalente all’861, di forma poligonale, intorno al quale vi era un fossato, che fu poi fortificato da Normanni e Svevi con l’aggiunta di sei torri a pianta quadrata, assumendo così l’aspetto di un vero e proprio castello. L’obiettivo era creare una fortezza di difesa dalle aggressioni nemiche, dovute alle lotte tra le varie famiglie longobarde, che si contendevano questa area nevralgica. Di questa testimonianza storica e architettonica, da cui esercitarono la loro propria supremazia i conti Longobardi, Normanni, Aragonesi e Svevi, restano purtroppo poche rovine e una parte di cinta muraria, poiché alcuni terremoti e il logorio del tempo ne hanno danneggiato la struttura. Attualmente il sito è chiuso al pubblico e la curiosità di osservare questi resti è soddisfatta solo in rare circostanze. Quando ci si ferma davanti ai portoni in ferro chiusi, si prova un senso di amarezza nel pensare che a volte il coraggio della materia, resistita al tempo grazie alle proprie forze, non trovi sostegno sufficiente negli uomini: è possibile che non stiamo facendo abbastanza per l’arte?

Resti visibili del castello di Casertavecchia

Con la speranza di ricredersi, il visitatore continua il percorso verso il cuore del borgo e colpisce con straordinaria potenza il panorama vasto e ricco di sfumature. Casertavecchia non delude per i paesaggi e, se si è lungimiranti nel tragitto, nasconde in ogni angolo uno spettacolo, capace di ispirare profonda serenità e l’amore appassionato di chi la sceglie come meta romantica. Con gli occhi pieni di meraviglia e il cuore carico, ci si addentra nelle stradine, si osservano le case con i portoni in legno e i piccoli cortili, decorati spesso con vasi di fiori, e si calpesta la pietra limata dal passaggio di chi, ricchi o poveri, signori o servi che fossero, poco importa, hanno lasciato l’impronta di un passato ricco di vita, che ad oggi è un lontano ricordo.

Scorcio paesaggistico
Stradina del borgo
Stradina del borgo

Passo dopo passo, si raggiunge piazza Vescovado in cui vi si affaccia il palazzo vescovile, decorato con antichi archi e finestre risalenti al secolo XIII.
Casertavecchia conserva il bellissimo Duomo di San Michele Arcangelo, risalente al XII secolo. La facciata è stata realizzata con tufo lavico ed è decorata con elementi antropomorfi, geometrici e floreali, tipici dell’epoca medioevale, che rappresentavano la fede in Cristo. Severa ed elegante all’esterno, la cattedrale è particolarmente suggestiva all’interno, dove si possono ammirare il pulpito, le tre navate e le meravigliose colonne doriche e corinzie, che sono tutte differenti tra loro in quanto elementi di spoglio di edifici romani. Nella sagrestia della cattedrale è presente un crocifisso ligneo del Trecento e sono rimasti integri alcuni affreschi medievali a carattere religioso. Le pareti restanti, invece, sono prive di decorazioni in quanto in epoca barocca esse furono sostituite da diversi stucchi, a loro volta rimossi nel XX secolo. Accanto alla cattedrale è presente un grande campanile terminato nel 1234, al tempo di Federico II e infatti mostra già delle influenze gotiche. Come quella di Gaeta e di Amalfi, culmina in una torre ottagonale ed è decorato da arcate e da torri agli angoli. Il duomo possiede anche cupola, nascosta da un tiburio ottagonale è a sua volta ornata da pietre gialle e bigie, che compongono dei motivi floreali e geometrici stilizzati. Di fronte al Duomo è possibile anche ammirare quello che una volta era il seminario, finché nel 1842 Papa Gregorio XVI ne sancì il definitivo trasferimento a Caserta, e venne trasformato in un convento. Il palazzo possiede un portone centrale in marmo ed è abbellito dallo stemma del Vescovo Diodato Gentile.

Il campanile del Duomo di San Michele Arcangelo
La facciata del Duomo di San Michele Arcangelo
Navata centrale del Duomo

Riflessioni di un Borgonauta

Tra le bellezze artistiche e gli scorci caratteristici, dovrebbe sorgere in modo del tutto naturale la voglia di godere a pieno di tutto ciò che il nostro passato ci ha consegnato come lascito. È anche vero che molto spesso ci lasciamo accattivare dalla foga del moderno, disabituandoci a rallegrarci del silenzio, carico di significato, delle realtà sospese nel tempo, come lo sono i borghi. Ciò fa sì che, anche quando siamo fisicamente presenti in un luogo come questo, che ha resistito alle intemperie, allo spopolamento e all’abbandono, invece di assaporarne la storia, che ci racconta attraverso un vaso di fiori, un saluto di un abitante, una leggenda o una pietra levigata, ricerchiamo spasmodicamente e forse inconsapevolmente lo stesso caos delle nostre città di appartenenza. Sarà probabilmente il frutto dei mutamenti della contemporaneità, ma è bene che non dimentichiamo di osservare con curiosità l’antico per riaccendere la sete di sapere, spesso assopita nelle anime, è bene che si dedichi il giusto tempo alla scoperta profonda dell’arte, è bene che si scalfisca la barriera del visibile per imparare a definire noi stessi anche attraverso il passato, è bene, infine, che ogni borgo sia messo in condizione di svelarsi nella sua essenza più autentica e che non sia svilito della sua importanza.  

Marica Fiorito

Il borgo immortale

Nella sconfinata provincia di Udine, ricchissima di comuni, frazioni, valli,torrenti e boschi ,scopriamo così come si farebbe con un tesoro nascosto,Venzone,un piccolo borgo trecentesco, situato tra il congiungimento di due importanti valli, quella del Tagliamento e del Canal di Ferro, poco lontano dalle Alpi Giulie e dalla bella Carnia.

STORIA

Sin dall’alto medioevo, chi voleva recarsi oltralpe, doveva necessariamente fare i conti con Venzone, capace di concretizzare i vantaggi che le derivavano dalla sua privilegiata posizione geografica; il borgo, infatti, poteva controllare i traffici di merci e di uomini lungo l’importante e antichissima via che metteva in comunicazione l’Adriatico con il mondo transalpino (sulla stessa direttrice, in tempi romani, venne tracciata con qualche variazione di percorso, la strada imperiale Julia Augusta, che univa l’antica Aquileia al Nord Europa). L’imposizione di dazi per il transito, rese ricca Venzone, che determinata a difendere i propri interessi, si mise in una secolare e logorante rivalità con la cittá di Gemona posta a pochi chilometri a sud. Naturalmente il transito da Venzone  avveniva nei due sensi e da qui vi passavano non solo i mercanti, in particolar modo Toscani, Tedeschi ed Ebrei, ma anche le armate dei popoli germanici, che durante le loro migrazioni da Oriente, percorrevano l’antica via e lasciavano spesso dolorosi ricordi del loro passaggio. 

Municipio di Venzone
Duomo di Venzone

Intorno al 1200 nella storia della città si verifica una svolta che ne segnerà per almeno due secoli il destino, infatti il patriarca di Aquileia offri il feudo alla famiglia dei Mels, al cui dominio corrispose un periodo di grande floridezza, con un forte sviluppo del nucleo urbano e una fervente e vivace intraprendenza commerciale. Risalí a questo periodo di grande vitalità imprenditoriale la fondazione della chiesa di Sant’Andrea apostolo, la doppia cortina muraria eretta con i ciottoli del Tagliamento e la pietra grigia dei monti circostanti il Duomo

romanico-gotico considerato il monumento più rappresentativo del Borgo, consacrato nel 1338 dal patriarca di Aquileia Bertrando e i vari palazzi gotici. Nel corso dei secoli Venzone più volte si è trovata a dover affrontare periodi di grandi cambiamenti storico culturali, che tuttavia non sono mai riusciti a scalfirne l’identitá Romanico-gotica, riuscendo a passare indenne alle rivoluzioni architettoniche del Rinascimento e del Barocco, conservandosi inalterata, come se fosse custodita in un’ampolla di cristallo.

I problemi per il piccolo borgo non finirono qui: durante la seconda guerra mondiale fu vittima di uno scellerato bombardamento inglese che distrusse gran parte delle sue case e della cinta muraria. Il bersaglio degli aerei nemici, in realtà, era la vicina linea ferroviaria con il chiaro intento di bloccare il trasporto dei treni merce delle forze nemiche. Nel 1976 un violento terremoto la rase quasi completamente al suolo, ma la grande forza d’animo dei suoi abitanti ha consentito di ricostruire il borgo pietra su pietra, scongiurando il pericolo che le ruspe potessero portare via secoli di storia.

CURIOSITÁ

Nel 1965 Venzone diventa Monumento Nazionale, diventando un punto simbolico di riferimento per l’ intera Nazione, assumendo uno status particolare per il suo significato storico, politico e culturale.

Nel 2017 viene eletto il borgo più bello di Italia durante la trasmissione il borgo dei borghi di Rai3.

Nei sotterranei del Duomo si sviluppa una particolarissima muffa che favorisce la disidratazione dei tessuti evitandone la totale decomposizione, infatti famose a Venzone sono le sue mummie.

Le mummie di Venzone
La pianta del borgo

Tra cedri e castagni alla corte dei Montecuccoli

Quella di Pavullo nel Frignano è un’esperienza del tutto singolare, non più visita pomeridiana e domenicale in terra natia, ma lunga permanenza in luoghi lontani da casa. Quello di Pavullo nel Frignano è un viaggio sui generis, poiché le passeggiate sull’ Appennino modenese e i pomeriggi immersi nella storia sono privi della insostituibile compagnia dei miei amici di viaggio.

Ad ogni modo, vi chiedo di immaginarci tutti insieme a raccontarvi questo splendido posto: del resto, la maniera migliore per scoprire un luogo è farne esperienza con i propri inseparabili compagni.

Completamente immerso tra le montagne dell’Appennino tosco-emiliano, a quasi 700 metri sul livello del mare, Pavullo nel Frignano è forse il borgo montano più caratteristico della provincia di Modena; popolato da poco più di 17000 abitanti, è oggi la sede amministrativa dell’ “Unione dei comuni del Frignano” che comprende altri 9 centri: Fanano, Fiumalbo, Lama Mocogno, Montecreto, Pievepelago, Polinago, Riolunato, Serramazzoni, Sestola. La zona del Frignano, dominata dal monte Cimone, è una regione storico-geografica che si estende approssimativamente nei territori appenninici compresi tra il fiume Secchia e il Panaro.

L 'Appennino modenese

Anche questa volta, sapendo che certi toponimi parlano e svelano tanto della storia di un luogo, è stato inevitabile ricercare le radici linguistiche che hanno dato origine al nome “Pavullo nel Frignano”. Questo caratteristico borgo montano si trova esattamente al centro dell’area geografica del Frignano, in una posizione così strategica da costituirsi tappa obbligatoria sulle antiche tratte commerciali Modena- Pistoia e Modena- Lucca ; ma da dove deriva la parola “Frignano”? Gli storici non hanno dubbi: “Frignano” deriverebbe dal nome dell’antica popolazione che abitava la vasta area appenninica, i cosiddetti “Friniates”, i Liguri Friniati. Tuttavia, l’imminente conquista romana modificò significativamente l’aspetto del luogo, la cultura e l’organizzazione amministrativa: in epoca romana, il Frignano divenne una “prefaectura” di Mutina, l’attuale Modena. Centro geografico ed amministrativo della zona, il borgo ha attirato a sé il nome Frignano, ma Pavullo da cosa deriva? Molto probabilmente, “Pavòll” (in dialetto) discende dalla parola “palus”, ovvero “palude” a ricordare l’antica natura paludosa del territorio.

Il castello di Montecuccolo
Il conte Raimondo Montecuccoli

Come è facile intuire dal breve excursus etimologico, Pavullo nel Frignano possiede una storia antica, crocevia di popoli tra loro molto diversi: nonostante la lunga permanenza romana, i segni più tangibili dello scorrere dei secoli testimoniano soprattutto il periodo medievale. È proprio al XII secolo, infatti, che si fa risalire la costruzione del Castello di Montecuccolo, probabilmente fino al XV secolo centro del potere politico dell’intera area. Il castello sorge nella piccola frazione di Montecuccolo e , insieme al suo borgo, è da considerarsi una delle perle storiche meglio conservate della zona. Costruito nel 1019, il castello apparteneva alla nobile famiglia dei Montecuccoli, feudatari e dominatori del posto: tra questi spicca la personalità del conte Raimondo Montecuccoli, nato proprio nel castello di famiglia, valoroso uomo di guerra al quale il comune di Pavullo ha intitolato la sua scuola media.

Chiesa di San Lorenzo Martire

Il castello domina una piccola piazza su cui si affaccia la Chiesa di San Lorenzo Martire, edificata nel 1454: l’edificio è ad aula unica con due cappelle laterali simmetriche e una facciata comprensiva di campanile a vela. L’intero complesso è costruito con la pietra del posto.

Sia il castello che la chiesa sembrano essere fermi in un passato glorioso, quello di un medioevo cristiano ed eroico. Alla suggestione storica non manca l’accostarsi di quell’aura di pace e conciliazione che solo la natura a grandi altitudini sa dare: l’area del Frignano e con essa il suo centro, Pavullo, godono di una vegetazione ancora in larga parte incontaminata, di passi e sentieri immersi tra alberi di castagno.

A primo impatto sembra di trovarsi in un tipico borgo di montagna, benché si tratti di un centro modestamente abitato. Ebbene, Pavullo è ricca di storia e qui la storia è passata da Via Giardini, il centro della città, dei negozi e del passeggio: è su questa strada che si affaccia la Chiesa di San Bartolomeo Apostolo. Secondo alcune fonti storiche, l’edificio nasce da una piccola cappella del preesistente ospedale di San Lazzaro, a sua volta costruito per ospitare dapprima i pellegrini per poi diventare un lebbrosario. In seno a questo edificio, dunque, sorge l’attuale chiesa parrocchiale di Pavullo: tuttavia, l’edificio comincia a svolgere a pieno le sue funzioni solo a partire dal 1690. La chiesa aveva probabilmente l’aspetto tipico delle costruzioni tardo-barocche, ma oggi non ne abbiamo più tracce: purtroppo, la notte del 22 aprile 1945 i tedeschi distrussero l’edificio durante la loro ritirata. Grazie alla devozione e alla laboriosità del popolo pavullese, la chiesa fu ricostruita  secondo uno stile che si ispira all’antico romanico, ma i lavori terminarono soltanto nel 1960. L ’interno ad unica navata è arricchito dalle opere di artisti locali e da testimonianze vetuste, tra le quali un antico crocifisso risalente all’epoca della chiesa antecedente.

Il Palazzo ducale

Proseguendo su via Giardini, si  raggiunge il palazzo ducale. Risalente al XIX secolo, l’edificio fu voluto dal duca di Modena e Reggio Francesco IV d’Este poiché Pavullo rappresentava l’area montana più facilmente raggiungibile da Modena. Utilizzato come residenza estiva austro-estense fino all’Unità d’Italia, oggi il palazzo ducale è sede di alcuni uffici del comune e della biblioteca e ospita mostre ed eventi nelle sue sale. Risalendo un sentiero sul retro dell’edificio, è poi possibile visitare il parco ducale, polmone verde cittadino e suggestiva passeggiata a ridosso del centro. Il giardino ospita la tipica vegetazione appenninica:   querce, boschi di aghifoglie, di latifoglie, aceri, frassini e cerri.

Fontana del parco ducale
Sentiero del parco ducale

Tuttavia, l’attenzione del visitatore è subito attirata da un maestoso albero, il “Pinone”, così affettuosamente definito dai pavullesi. Si tratta di un cedro del Libano alto 38 metri che da oltre due secoli è uno dei simboli della città, ma anche testimonianza di patriottismo. Difatti, gli abitanti del posto raccontano che nel 1943 i tedeschi tentarono di abbattere il maestoso cedro cittadino per farne legna da ardere: la ferrea opposizione dell’intera comunità e del parroco della chiesa cittadina destò i tedeschi dal loro intento, salvando la vita ad un amico verde bicentenario, per i pavullesi quasi un membro della propria famiglia;

una famiglia proprio come quella dei Borgonauti ai quali dedico l’inaspettata scoperta di questo luogo, sperando di poterlo presto visitare, questa volta insieme, in un soleggiato pomeriggio domenicale.

                                                                                                                                                                                                                       Delia Brusciano

il "Pinone" simbolo di Pavullo

Gaeta: la città dai mille piaceri

La storia

Gaeta è una splendida città adagiata sul mare e dalle origini antichissime, tanto che la sua storia si fonde col mito. L’etimologia del nome, secondo Strabone, deriva dal termine greco “καϊέτα” (caieta), cioè ogni cosa ‘cava’, con riferimento al golfo. Secondo Virgilio, invece, Caieta sarebbe stata la nutrice di Enea, sepolta da lui in questo sito durante il suo viaggio verso le coste laziali.

Certo è che le prime notizie di questa città risalgono all’epoca dei Romani, ai quali fu favorito l’accesso dalla costruzione della via Flacca; essi l’apprezzarono così tanto da costruirvi  ville fastose, monumenti e mausolei, tra cui quello dedicato a Lucio Munazio Planco, generale di Giulio Cesare.

Castello di Gaeta
Tempio di San Francesco

In epoca medievale la città, grazie alla sua posizione arroccata su una penisola alta e rocciosa che ne permetteva una facile difendibilità (soprattutto dagli attacchi dei Barbari e dei Saraceni), fu circondata da mura e divenne un vero e proprio castrum.

Intorno al X secolo, liberata dai Saraceni, si costituì in un ducato autonomo, con una propria forza militare, propri statuti ed una propria moneta (il follaro), che permise alla città di sviluppare intensi traffici marittimi nel Mediterraneo ed essere considerata la quinta Repubblica Marinara.

Un altro periodo critico per la città fu il 110 d.C. quando la città fu contesa tra Federico II di Svevia e dal papato, poi divenne dominio di Angioini ed Aragonesi. Qui si nascose Papa Pio IX dopo la proclamazione della Repubblica Romana nel 1848 e fu al centro di uno degli scontri più importanti per la proclamazione dell’Unità di Italia che si concluse il 13 febbraio 1861 con la resa di Francesco II di Borbone. Anche durante la Seconda Guerra Mondiale la posizione strategica di Gaeta fece sì che essa avesse un ruolo importante negli avvenimenti storici.

A spasso per i vicoli della città

Il nostro borgotour è iniziato da via dell’Indipendenza, da cui si snodano una serie di vicoletti, che sono probabilmente la parte più caratteristica della città. Entrando nel viottolo principale siamo stati catapultati in una dimensione completamente diversa da quella del resto della città: case sviluppate in altezza, balconcini pieni di piante, negozietti e altri particolari preziosi che si mimetizzano con la quotidianità di tutti i giorni.

Via dell'Indipendenza

Il vico 2 di via dell’Indipendenza in pochi metri raccoglie anni di storia e tradizioni: entrandovi è possibile notare subito l’anello per legare gli animali da soma; il mulo o la mula, infatti, erano fondamentali per l’economia rurale del paese, tanto da essere soggetti a tassazione patrimoniale. Sulla parete destra, invece, è possibile osservare un vecchio torchio, una pigiatrice ed una botte con i quali veniva fatto e conservato il vino.

Vico 2

Il vico 3 è dedicato al ‘sarto’, o meglio, ‘gliu cusutore’. All’ingresso del vicoletto, infatti, abbiamo trovato una macchina per cucire, alcuni attrezzi da sarto ed una targa che spiegava quanto fosse stata importante la loro attività artigiana durante tutta la storia di Gaeta: “tra i clienti del Borgo-cita la targa- c’erano anche i militari dei Presidio di Gaeta e negli ultimi anni quelli statunitensi che richiedevano adattamenti alle proprie divise”.

La parete della poesia e le panchine letterarie

Da via dell’Indipendenza siamo arrivati, poi, a Piazza Goliarda Sapienza, dove siamo rimasti incuriositi e sorpresi alla vista della ‘Parete della poesia’ realizzata dagli studenti dell’Istituto Enrico Fermi Gaeta ed AbbelliAmo Gaeta, nell’ambito del progetto nazionale “Cantieri di Narrazione Identitaria”. La parete è caratterizzata da maioliche con su riportate poesie su Gaeta scritte da autori locali ed internazionali che hanno visitato la bella città pontina, tra cui, Cicerone, D’Annunzio, Boccaccio, Cervantes e Mazzini. Ad abbellire ulteriormente Piazza Goliarda Sapienza ci sono le panchine letterarie ed un murales, che fa parte dello stesso percorso che abbiamo trovato per i vicoli di via Indipendenza e raffiguranti scene di vita quotidia

Visita al campanile del Duomo

La nostra seconda tappa è stata la visita al campanile del Duomo. Secondo quanto riportato su un atto notarile su pergamena, la storia del campanile comincia nel gennaio del 1148, anno in cui il monaco Pandolfo Palagrosio decide di donare alla Cattedrale un terreno per la realizzazione del campanile stesso. Da quel momento comincia la costruzione di questa struttura, alta 57 metri, conclusasi nel 1279.

La torre campanaria del duomo di Gaeta unisce caratteri romanici con elementi tardo romani, in simbiosi con architetture islamiche. Il campanile è caratterizzato da una pianta quadrangolare; la struttura si compone di un basamento con arco gotico, tre celle, ognuna arricchita da quattro bifore (una per lato), e da un torrino ottagonale, circondato da quattro torri circolari.

Il campanile del Duomo
Bifore del campanile
La scala del campanile del Duomo

Vi è una simbologia nascosta nelle forme del campanile. Difatti, la pianta quadrata del basamento fa riferimento ai quattro elementi della filosofia platonica (aria, acqua, terra, fuoco) che simboleggiano la natura umana; invece, la sommità del campanile, di forma ottagonale, se venisse proiettata all’infinito convergerebbe verso il cerchio, che simboleggia la perfezione, il divino. Il campanile, dunque, costituisce un asse che unisce terra e cielo, che avvicina l’uomo e le sue miserie terrene alla perfezione e al paradiso.

Il primo livello costruttivo è realizzato con blocchi calcarei provenienti da edifici antichi romani prelevati dall’intera rada di Gaeta. La scalea monumentale è arricchita da un arco gotico e presenta delle colonne incastrate negli angoli dei pilastri che lo sottendono: questa caratteristica richiama l’architettura degli edifici sacri islamici. 

Il campanile è caratterizzato da una dettagliata tessitura laterizia, che vede numerose decorazioni in diversi materiali, come pietre di diverse colorazioni, laterizi e, soprattutto nella parte sommitale della struttura, bacini ceramici smaltati di diversi colori, assieme a losanghe in cotto smaltate.

All’altezza della seconda delle tre celle che suddividono la struttura, sono visibili gli ingranaggi di uno degli orologi anticamente presenti sul campanile stesso, posti sia verso il mare (nord) che verso il borgo (est).

 

Una delle campane del campanile

Lungo il percorso guidato si riscontrano diverse campane, le quali, in passato, venivano collocate in prossimità degli unici punti di forza della struttura, ovvero le bifore. Difatti, prima del 1960-1, la struttura era sprovvista dei solai attualmente posti in corrispondenza dei marcapiani esterni e, per giungere sulla sommità, veniva adoperata una lunga scala di legno che correva tutt’intorno alla struttura, collocata in prossimità di tutti i punti che dovevano essere facilmente accessibili, ovvero vicino alle campane da suonare e agli orologi da ricaricare.

Il percorso termina nel torrino ottagonale che, come ricorda l’epigrafe ritrovata durante i lavori di restauro del vicino palazzo Cardinale De Vio, venne posto in opera e completato nel 1279 per volere del Vescovo di Gaeta Bartolomeo Maltacea. Il torrino è riccamente decorato con bacini ceramici: tuttavia, quelli posti in situ sono delle riproduzioni, mentre gli originali sono custoditi presso il Museo Diocesano di Gaeta.

Il Museo Diocesano

Visita al museo diocesano

Il museo diocesano risale al 1903 e nasce in seguito all’idea di raccogliere reperti dell’età classica e del periodo medievale rinvenuti sia a Gaeta che nel territorio vicino.
Negli anni successivi alla sua fondazione fu poi iniziata un’altra raccolta, che comprendeva anche dipinti, nella navata superstite del duomo duecentesco. I ritrovamenti depositati rappresentavano un consistente nucleo per l’inizio di una vera e propria pinacoteca e di un piccolo museo archeologico. Le opere pittoriche provenivano principalmente da edifici religiosi danneggiati durante l’ultima guerra. Negli anni Cinquanta del secolo scorso il progetto andò a conclusione con il Museo Diocesano, inaugurato sul pronao della Cattedrale il 4 novembre 1956.

I dipinti su tela e su tavola raccolti nella pinacoteca risalgono dal secolo XIII al primo decennio della seconda metà dell’Ottocento. Le opere, quasi tutte di soggetti religiosi, provengono dal Museo Diocesano del 1956, dalla Cattedrale e da altre chiese chiuse al culto. Nella pinacoteca sono esposte molte opere di cui sono noti gli artisti e, pertanto, rappresenta un giacimento di particolare valore, che permette un’attenta lettura dei corrispondenti periodi delle correnti artistiche in Campania. Delle opere in mostra il numero maggiore è rappresentato da quelle di Giovanni da Gaeta, artista che ha operato nella seconda metà del sec. XV. Altre opere appartengono, invece, ad artisti gaetani, quali Scipione Pulzone e Sebastiano Conca.

Il museo conserva anche lo Stendardo di Lepanto del pittore Girolamo Siciolante, raffigurante sui due lati il Crocifisso tra i santi Pietro e Paolo. Esso fu sventolato sulla nave ammiraglia della flotta pontificia, comandata da Don Giovanni d’Austria. La battaglia nelle acque di Lepanto portò alla sconfitta delle navi ottomane il 7 ottobre 1571. Il 4 novembre dello stesso anno fu lasciato dal figlio naturale di Carlo V, Don Giovanni d’Austria, nel Duomo di Gaeta.

Curiosità:

Gaeta conserva la più antica testimonianza scritta della pizza nel mondo: basti pensare che il primo documento scritto nel quale è riportata la parola pizza è contenuto nel Codex Diplomaticus Caietanus dell’anno 997. Il Codex ratificava un baratto: il pagamento in natura dell’affitto di un mulino, proprio con “spatula de porco, lumbum, pulli” e pizza. Certo, una pizza bianca (il pomodoro sarebbe arrivato in Europa dopo la scoperta delle Americhe) ma pur sempre pizza. 

La locazione del mulino aveva effetto giuridico a condizione che “ogni anno nel giorno di Natale del Signore, voi e i vostri eredi dovrete corrispondere sia a noi che ai nostri successori, a titolo di pigione per il soprascritto episcopio e senza alcuna recriminazione, dodici pizze, una spalla di maiale e un rognone, e similmente dodici pizze e un paio di polli nel giorno della Santa Pasqua di Resurrezione”.

Cosa mangiare a Gaeta?

Trai i piatti tipici di Gaeta figura la Tiella, antica ricetta che un tempo, per pescatori e contadini, era un piatto unico: due sfoglie di pasta tirata a mano, ripiene di verdure o pesci a scelta, polpi, alici, cipolle, scarola o altri ingredienti tipici della dieta mediterranea. La Spagnoletta, caratteristico pomodoro dalla forma a spicchi e dal gusto intenso che profuma di mare. Le olive in salamoia, famose in tutto il mondo ed ancora le alici salate e le cozze del Golfo.

Ciò che vi ho presentato in questo articolo è solo un piccolo spicchio di Gaeta, una città  ricca di posti da scoprire e di storie da raccontare. Speriamo di tornarci presto per potervi parlare ancora di lei e di altre meravigliose scoperte.

Ilaria Pellino.

Gli itinerari di San Potito Sannitico

Questa è la volta di San Potito Sannitico, nel parco nazionale del Matese.

Era una calda domenica di fine estate, alla scoperta di un nuovo borgo, ma soprattutto di nuove persone, che in fondo sono proprio loro a fare la differenza, rendendo le nostre passeggiate leggere e piacevoli.

Il borgo di San Potito Sannitico sorge alle pendici del Matese, di qui è inutile spiegare l’elevata valenza naturalistica del luogo, che cattura l’attenzione già lungo la strada percorsa per raggiungerlo.

Il bellissimo borgo ultra millenario di San Potito Sannitico offre ai turisti tre itinerari, che percorrendo le strade del paese sono perfettamente collegati l’uno all’altro: Acqua – Storia – Natura.

Sono i tre elementi che caratterizzano San Potito, elementi che si lasciano vivere ed assaporare passeggiando per il paese.

Acqua

L’acqua, è uno degli elementi essenziali che caratterizza le singole stradine e le piazze del paese, con le sue fontane, abbeveratoi e i caratteristici lavatoi, che definiscono un itinerario completo del borgo, accompagnando il turista in un percorso definito.

L'abbeveratoio
Il lavatoio
Il lavatoio
La fontana
La fontana

La storia

La storia, tangibile nella passeggiata tra le stradine, tra i palazzi del 700 e dell’800, il cui primo insediamento si fa risalire al periodo sannitico. Uno degli elementi di spiccata valenza storica è il Palazzo Filangieri de Candida Gonzaga, costruito nel XVII secolo, da una famiglia di latifondisti, i Sannillo. Nell’ottocento è poi passato ai conti Gaetani, che lo ampliarono sul modello della Reggia di Caserta, ispirandosi ad alcuni elementi essenziali come ad esempio lo scalone della reggia. Il palazzo è poi passato in eredità ai Filangieri, attuali proprietari. Oggi il palazzo con le sue decorazioni artistiche, mobili d’epoca e preziosi di ogni genere è anche sede di numerose iniziative culturali.

La natura

Infine, la natura, presente in ogni scorcio, che regala dei panorami mozzafiato.

I tre itinerari si fondono perfettamente in una cornice artistica. Le fontane, le case e le mura del paese sono un vero e proprio museo a cielo aperto, alla portata di tutti, fruibile dal semplice passante al turista, tutti possono ammirarla e goderne.

L’idea nasce nel 2004, dal progetto FateLab, il cui unico obbiettivo è la valorizzazione del territorio. Il progetto vede la partecipazione di artisti vari, nazionali e internazionali, che regalano arte ai visitatori. Dietro a ogni singolo murales vi sono innumerevoli messaggi che affrontano i temi più svariati.

Tante sono anche le opere d’arte installate nelle aree del paese, opere realizzate con l’utilizzo di materiali di riciclo.

Il dolore di emigrare
I murales
Ritratto di famiglia
El silencio del ruido

Le cupole

Altra tappa imperdibile è la scuola materna di San Potito Sannitico. Un progetto di edilizia scolastica caratterizzato da elevate caratteristiche antisismiche e dall’utilizzo di tecnologie innovative.

La scuola materna, con biblioteca e auditorium, è stata realizzata con una struttura a cupola in mattoni e pietra di tufo, ricoperte di cocciopesto con lo scopo di realizzare una struttura antisismica, dopo l’evento sismico che ha interessato il paese nel 2013.

Le cupole

La passeggiata finisce con la splendida vista serale della chiesa di Santa Caterina, incorniciata, nella sua maestosità, da una suggestiva atmosfera.

La chiesa di Santa Caterina

Finisce così la nostra passeggiata a San Potito, soprattutto con la consapevolezza che sono principalmente le persone, in questo caso i nostri tre ‘angeli’, a fare la differenza e ad arricchire le nostre passeggiate. Persone che pensavi non esistessero più, che ti aprono la porta nonostante fossimo in troppi, che ti lanciano un invito a cena, al quale non vedi l’ora di andare.

I borgonauti

Questa tappa, come tantissime altre lasciano in primis in ognuno di noi l’allegria e l’accoglienza che le persone del posto ci trasmettono. Spesso, come in questo caso, ci ritroviamo sommersi di affetto, stupiti dalla diponibilità delle persone e dall’amore che trasmettono per i loro borghi.

Vatolla: il borgo in cui tradizione locale e pensiero filosofico si armonizzano

A sud della provincia di Salerno si erge nel cuore del Parco Nazionale del Cilento Vallo di Diano e Alburni il borgo medievale di Vatolla, Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Come spesso accade per i centri abitati di remota fondazione, le tracce delle origini di Viculus Vatulanus si dissolvono nel corso dei  secoli. È ipotizzabile però, dato i numerosi  resti di epoca romana,  che Vatolla esistesse già ai tempi dell’Impero e che sia uno dei paesi più antichi del Cilento. La presenza del maestoso castello, che incanta il visitatore per la sua imponenza, induce a supporre che Vatolla, nel primo periodo della dominazione longobarda sia stato luogo di insediamento degli arimanni, ovvero della guarnigione di confine, caratteristica dell’ordinamento militare dei longobardi, e che in seguito sia mutata in fara, cioè nella forma abitativa civile, che univa l’attività agricola con l’eventuale servizio armato.  Gli elementi artistico-architettonici, manifestazione tangibile della sua storia, e  la posizione sopraelevata del sito creano un’atmosfera suggestiva, quasi fiabesca, che incanta l’anima e dona emozioni profonde:  il panorama, che accoglie il mare salernitano e il paesaggio collinare, i delicati riferimenti religiosi sparsi in tutto il borgo, i richiami al rapporto tra il luogo e il filosofo Giambattista Vico, importante esponente del panorama filosofico napoletano, la tradizione locale, dedita soprattutto alla coltivazione di una varietà di cipolla unica nel suo genere, rendono Vatolla un luogo eclettico, poliedrico, capace di armonizzare la conoscenza in tutte le sue straordinarie sfaccettature.

Scorcio di Vatolla. Foto dell'Associazione Cipolla Di Vatolla.
Scorcio di Vatolla. Foto dell'Associazione Cipolla di Vatolla.

Il luogo dove germogliò la Scienza Nuova di Giambattista Vico

Giambattista Vico è stato filosofo, storico, giurista e letterato, nato a Napoli nel 1668. Questi fu fortemente legato alla cultura umanistica, che venne a diffondersi nell’ambiente napoletano nella seconda metà del XVII secolo. Nel 1686 il vescovo di Ischia Geronimo Rocca conobbe G. Vico in una libreria napoletana e, ammirandone la vasta cultura, gli propose l’incarico di istitutore per i suoi quattro nipoti. Fu così che Il Vico restò a Vatolla, anche se non continuativamente, per nove anni, spendendo qui  la maggior parte del corso degli studi filosofici. Il grande pensatore ebbe con il paese un rapporto di amore e odio: alcune volte lo definiva “aspra Selva solinga arida e mesta” , altre come “bellissimo sito di perfectissima aria, dalla quale fu restituito alla salute ed ebbe tutto l’agio di studiare e gettare le basi della Scienza Nuova“. Infatti, è proprio in questa terra di rurale fascino che nel  1725 prese forma l’opera in cui è racchiusa nella sua complessità e originalità la dottrina di G. Vico.

l’Associazione Cipolla di Vatolla e il prodotto di eccellenza locale

Nata nel 2014, l’Associazione Cipolla di Vatolla di natura privatistica, senza fini di lucro e con valenza di pubblica utilità sociale e rilevanza di interesse pubblico agisce sul territorio con finalità di promozione sociale e di valorizzazione delle realtà e delle potenzialità naturalistiche, culturali, storico-artistiche, turistiche ed enogastronomiche. La presidente Angela Marzucca, manifestando nelle sue parole un profondo l’orgoglio e l’amore per la propria terra, afferma: «ci auspichiamo che Vatolla sia conosciuta e apprezzata anche attraverso il suo prodotto d’eccellenza: la cipolla. L’associazione ha avviato vari progetti, che mirano alla rinascita del territorio, e che sono animati soprattutto da donne, anche giovani, che non vogliono abbandonare il Cilento. Un esempio di queste iniziative è la festa della cipolla, che ogni estate si organizza a Vatolla e che ha ottenuto nel corso degli anni un riscontro crescente, gettando le basi di un percorso enogastronomico, che favorisca diverse forme di  turismo e la diffusione di un prodotto, riconosciuto come patrimonio dell’UNESCO». La cipolla di Vatolla (Allium cepa L.) è un ecotipo, un elemento della biodiversità del Cilento, coltivato secondo tradizioni antiche nelle zone rurali di questo magnifico borgo. Questa peculiare varietà di cipolla differisce da tutte le altre per la particolare dolcezza e delicatezza e per la presenza di sostanze, come flavonoidi e quercetina, che favoriscono il benessere del corpo. I semi della cipolla di Vatolla arrivano dall’Oriente, forse dall’Afghanistan, portati dai monaci Basiliani in fuga dalle persecuzioni che si realizzarono dopo l’anno mille. Il microclima locale, le caratteristiche e la biodiversità dei suoli dei sistemi di terre del Cilento e la continuità della tradizione contadina da parte delle popolazioni locali hanno determinato le caratteristiche di questo vegetale, unico nel suo genere.

La cipolla, prodotto di eccellenza di Vatolla. Foto dell'Associazione la Cipolla di Vatolla.

Il borgo e le sue bellezze

È stata Arianna C. con la sua bravura a creare un percorso, che ha reso possibile apprezzare le meraviglie del luogo: ella con grande disponibilità ha accolto i visitatori ed ha esposto in modo garbato ma con partecipata emozione  le caratteristiche e la storia dei siti di interesse del borgo. Il tour è cominciato con la visita alla Chiesa Santa Maria Delle Grazie. Le prime notizie riguardo la chiesa risalgono all’XI secolo. I pannelli, facenti parte di un sarcofago romano del IV secolo, posizionati ai lati della facciata fanno pensare che essa sia sorta sulle rovine di un tempio romano poiché raffigurano le divinità pagane di Pan, Dioniso, Bacco e Sileno. L’interno della struttura, in parte restaurata, è costruita su tre navate e notevole importanza e pregio sono gli affreschi raffiguranti santi bizantini, come San Francesco d’Assisi e San Francesco di Paola. In questa chiesa lo stesso Vico assisteva alla Santa Messa con la famiglia Rocca.

Chiesa Santa Maria Delle Grazie. Foto dell'Associazione Cipolla di Vatolla.
Affresco della Chiesa Santa Maria Delle Grazie.

Imponente  alla vista è il Castello- Palazzo Vargas : eretto probabilmente prima dell’Anno Mille per mano dei Longobardi con la funzione di “sentinella” e di primo ostacolo, per chi avesse voluto avventurarsi sulla via di Lucania e fu poi reso il palazzo di residenza dalla famiglia feudataria Griso nel XVI secolo . Si tratta di una costruzione a pianta trapezoidale, circondata da quattro torri cilindriche. Passato successivamente in possesso dei marchesi Rocca, il palazzo divenne la dimora di Gian Battista Vico. Nel 1767 la struttura divenne di proprietà di un nobile napoletano, di origini spagnole: Francesco Vargas.  All’interno vi è un’ampia biblioteca di testi storici e critici che riguardano il grande filosofo.

Castello-Palazzo Vargas. Foto dell'Associazione Cipolla di Vatolla.
Cortile del Castello-Palazzo Vargas. Foto dell'Associazione Cipolla di Vatolla.

Continuando il percorso, è possibile ammirare la Cappella Di San Nicola . Si tratta un’antica chiesetta padronale, posseduta in origine dalla famiglia Cocozza e poi da questa donata alla comunità francescana del Convento della Pietà. Il culto di San Nicola, e anche la sua statua, furono portati a Vatolla dagli abitanti di Avella. Probabilmente risale al XIV secolo.

la Cappella Di San Nicola. Foto dell'Associazione Cipolla di Vatolla.
Interno della Cappella Di San Nicola. Foto dell'Associazione Cipolla di Vatolla.

Il cammino si è concluso con la visita Convento S. Maria Della Pietà, fondato nel 1619 su un terreno donato ai francescani dalla Universitas, recuperando un’antica struttura di una cappella detta “della pietà”, in cui oggetto di grande venerazione era un affresco ritenuto miracoloso dal popolo. Soppresso nel decennio francese, fu riaperto nel 1815, dopo sostanziali lavori di restauro. Oltre all’antica cappella, di notevole importanza sono gli affreschi interni e alcuni elementi artistici. Vico fu assiduo frequentatore del Convento della Pietà, dove era solito discorrere con i frati oppure consultare la biblioteca interna, che conteneva testi su cui il noto filosofo condusse i suoi studi e da tali libri, all’ombra dell’ulivo posto di fronte al Convento in cui Vico soleva riposare, leggere e meditare, prese forma la sua  Scienza Nuova, consacrando il pensatore come punto di riferimento dello scenario filosofico dei secoli successivi.

Convento S. Maria Della Pietà. Foto dell'Associazione Cipolla di Vatolla.

Vatolla stimola una profonda curiosità, una straordinaria sete di conoscenza in chi la osserva e non delude né la mente né l’anima, perché dà testimonianza tanto della fierezza della tradizione rurale, quanto delle meraviglie dell’ingegno umano. Noi Borgonauti  ci auguriamo, dunque, che altri possano conoscere e  godere del fascino particolare e ricco di sfumature di questo sito, apprezzando ogni dettaglio nel quale il tempo ha dato manifestazione tangibile della propria mano, incantandosi e  perdendosi nella profonda devozione religiosa, che il luogo esprime, e infine emozionandosi nel calpestare lo stesso suolo, nell’abbandonarsi negli stessi luoghi in cui il filosofo Vico ha dato voce al suo pensiero.

                                                                                                                               Marica Fiorito

Il magico borgo di Erice

A spasso per le strade del paese

Il borgo medievale di Erice sorge arroccato sul monte omonimo, situato sulla costa occidentale della Sicilia, dove sovrasta con il suo sguardo paladino la città di Trapani ed il mare in cui si specchia la sua ombra. I panorami che si offrono al visitatore sono molteplici e aprono la vista da un lato alle saline di Trapani, dall’altro alle Egadi e più a nord ancora a Marsala. Passeggiare per le strade ericine è come andare a spasso nel tempo, catapultati in un’epoca medievale dal sapore moderno. 

Le arancine ericine

Si, perché mentre si è intenti a passeggiare per le sue stradine ripide ed acciottolate, l’attenzione per l’antico viene rubata dall’invitante profumo delle arancine che proviene dai piccoli locali tipici. Ma quello delle arancine non è l’unico profumo che caratterizza il borgo siculo; Erice è anche il profumo delle ‘Genovesi’, del cuoio delle botteghe artigiane, delle porcellane lavorate a mano. Passeggiare per i suoi vicoli è un’esperienza mistica e sensoriale, che schiude davanti ai nostri occhi orizzonti aperti che riportano alla mente l’antica e ricca Erice, quella a cui i Segestani chiesero in prestito le coppe d’oro per fare bella figura con gli inviati ateniesi.

La torre campanaria
Il Real Duomo

Tra mito e storia

Tra una strada acciottolata ed un arancino è facile perdersi nella storia e nel mito che avvolge questo magico borgo. Le origini di Erice risalgono probabilmente ai Sicani e, da sempre, sono indissolubilmente legate al culto della dea Venere: prima ancora che fosse dedicato dai Fenici ad Astarte, quello che fu il “thémenos“, il santuario di Afrodite, il tempio di Venere Ericina, era già il luogo della dea dell’amore. Un luogo che avrebbe attirato su questa vetta popolazioni da ogni parte del Mediterraneo e dove, secondo Diodoro Siculo, Erice, figlio di Bute e di Afrodite stessa, aveva eretto il tempio dedicato alla propria madre e fondato la città. Nel corso del tempo, il culto della Venere ericina, a cui i marinai di passaggio erano particolarmente devoti grazie anche alle bellissime Ierodule, giovani prostitute sacre alla dea dispensatrice di voluttà, crebbe insieme alla sua fama e alla sua ricchezza: Tucidide fa riferimento a “i doni fatti alla Dea, anfore, coppe e ricche masserizie…” dai pellegrini e Diodoro Siculo attribuisce a Dedalo, fuggito da Creta, la creazione di un ariete d’oro dedicato ad Afrodite. 

I vicoli acciottolati
Il tramonto su Trapani
Panorama dalle strade ericine

In ogni caso, è chiaro che un luogo come Erice, in una posizione geografica del tutto privilegiata per l’ampissima visuale, oltretutto fortificato e protetto efficacemente, dovesse assumere il potere che l’interesse dei popoli che si succedettero attribuirono al santuario-fortezza. Tucidide riporta anche che la città fu fondata dagli esuli Troiani, che scappando nel Mediterraneo trovarono lì il posto ideale in cui insediarsi e che i Troiani uniti alle popolazioni autoctone avrebbero dato vita al popolo degli Elimini. Contesa, poi tra i Siracusani ed i Cartaginesi, fu conquistata dai Romani nel 244 a.C. Secondo altre testimonianze durante la prima guerra punica, il generale cartaginese Amilcare Barca ne dispose la fortificazione e qui fece trasferire parte degli Ericini per la fondazione dell’odierna Trapani. Erice fu anche dominata dagli Arabi e dagli Spagnoli. Nel XII secolo, fu conquistata dai Normanni e ribattezzata da Ruggero d’Altavilla come Monte San Giuliano. Raggiunse il suo massimo splendore durante la guerra del Vespro, divenendo di fatto la rocca da cui scaturivano le azioni belliche di Federico d’Aragona, re di Sicilia. Durante la dominazione spagnola, invece, fu percorsa da numerosi e feroci tumulti. Certo è, che la ricchezza di alcune famiglie ericine, attraverso la costruzione di maestosi palazzi, ha donato lustro e splendore alla città.

Piazza Madrice, il Real Duomo e la Torre

A spasso per la città

Per raggiungere il borgo antico di Erice si può usufruire della funivia che permette di raggiungere la vetta del monte in dieci minuti, godendo di uno splendido panorama su Trapani e sulle isole Egadi.  Usciti dalla funivia si passa per un viale alberato, per arrivare, attraverso una delle porte della città,  al cuore del borgo antico: piazza Madrice. Proprio qui sorge il maestoso duomo di Erice, un vero gioiello in stile gotico, con la sua isolata torre campana, usata come torre vedetta durante le guerre del Vespro. Il duomo mantenne per secoli il suo aspetto originario, fino ai restauri iniziati nel 1853, dopo alcuni crolli, che si trasformarono in un vero e proprio rifacimento, durato fino al 1865, in stile neogotico ottocentesco. Custodisce in un piccolo museo il cosiddetto “tesoro di Erice”, con oreficeria, argenti, monili, parati, alabastri. Un altro incredibile e straordinario ponte col passato che Erice ancora conserva è il Castello Normanno, o Castello di Venere, che sorge sulle rovine del santuario a cui in epoca romana si sovrappose un tempio in onore della Venus Erycina. Qui, secondo il mito, risiedevano le sacerdotesse che praticavano l’arte della prostituzione sacra con i pellegrini che si recavano sul monte per omaggiare la dea. 

I resti di quella struttura oggi corrispondono alla fortezza che i Normanni eressero nel 1100 recuperando i materiali lapidei preesistenti. Il castello servì, successivamente, come carcere e nel XVI secolo fu presidio militare spagnolo. Il passaggio nelle mani del Comune avvenne con la riforma borbonica tra il 1818 e 1819.

La funivia

Cosa mangiare ad Erice

Non si può, infine, lasciare Erice senza aver assaggiato le sue gustosissime e prelibate specialità, da quelle dolci, come le ‘Genovesi’, sfiziosi dolcetti di pasta frolla ripieni di crema, a quelle salate, come le arancine e il pane cunzato, pane di grano duro cotto a legna con pomodori, pecorino, olio, acciughe.

La vista su Trapani
Balli tradizionali in piazza Madrice

Caiazzo: il borgo delle ricchezze storico-artistiche da scoprire

I Borgonauti, sempre impegnati nella scoperta delle bellezze locali, hanno dedicato nel mese di maggio una tappa ad una città che, grazie alla sua posizione elevata, offre paesaggi a cui nessun occhio umano può restare indifferente: Caiazzo. Posta nella Media Valle del Volturno, il borgo è maestosamente circondato dalle variegate colture nelle aree pianeggianti, rese fertili dall’abbondanza di corsi d’acqua, a cui fanno da contrasto, alle quote più elevate, le formazioni boschive di rovere e leccio. I colori dei monti e delle vallate, intensi come pennellate, creano uno scenario idilliaco, che rievoca le leggendarie origini del luogo: principio di tutto fu l’amore passionale e contrastato tra il dio Volturno e la ninfa Calatio, figlia di Tifata, la quale per sfuggire all’ira e alla disapprovazione del padre trovò riparo in questo splendido territorio e vi fondò una città: Caiatia.  

Il borgo caiatino

Se il paesaggio sembra un evanescente omaggio alla radice mitologia del borgo, il centro abitato invece incarna l’essenza di una lunga storia, in cui ogni popolo dominatore ha contribuito all’evoluzione della sua ricca bellezza: Caiazzo, fondata secondo le fonti storiche più accreditate dagli Osci tra il IX e l’VIII secolo a.C., come confermano alcuni tratti delle mura pelasgiche, visse dapprima una fase di influenza etrusca e poi sannitica, svolgendo un ruolo di supporto nelle relazioni commerciali. Successivamente la città rientrò sotto il dominio di Roma, attraversando un periodo particolarmente florido sia dal punto di vista culturale che architettonico, testimoniato anche da alcune lapidi onorarie rinvenute nelle vicinanze del sito, che riportano il nome della casata imperiale Giulia. È proprio in questa fase che Caiazzo trasformò il proprio volto, assumendo l’assetto urbanistico di una città vera e propria. La crescita dell’antica Caiatia da quel momento in poi si arricchì dell’intervento successivo dei Longobardi, che nel X secolo elevarono l’abitato a Contea, edificando uno degli emblemi della città: il castello. In epoca medievale il dominio del luogo passò ai Normanni e Rainulfo II di Drengot ne divenne il signore. Fu poi la volta degli Svevi, nel XIII secolo, con Federico II, che decise di fondarvi una delle tre Corti dei Conti del Regno. In seguito Caiazzo fu scelto come luogo di caccia da Carlo e Ferdinando IV di Borbone.

I borgonauti alla scoperta del borgo e dei suoi paesaggi.

Passeggiando nel cuore del borgo, di questo passato pieno di forti mutamenti se ne riscontrano testimonianze in ogni pietra levigata, in ogni arcata, in ogni stradina accarezzata dal tempo. Si scoprono così le mura megalitiche, i vicoli medioevali, le chiese rinascimentali e barocche, come la Basilica di Maria SS. Assunta e Santo Stefano Menecillo, e i palazzi catalani del XV secolo con i bellissimi portali. Alzando gli occhi al cielo, si può ammirare il simbolo storico-artistico del luogo: Il castello longobardo di Caiazzo. Situato sull’Arce romana, esso fu realizzato per volontà del secondo conte di Capua, il longobardo Landone Matico. Divenuto col tempo di proprietà privata, la struttura conserva poche tracce della fisionomia originaria, essendo stato radicalmente modificato nel XIX secolo. Infatti, oggi l’edificio presenta numerosi ampliamenti, risultato dell’accostamento di più corpi così distinti: residenza nobile, cappella, ambienti di servizio e torre. Nei suoi pressi si possono però ancora scorgere delle mura poligonali sannite, risalenti al IV secolo a.C. Diversi personaggi illustri hanno dimorato in questa splendida roccaforte, come il poeta Torquato Tasso, l’imperatore Federico II e Pier Della Vigna, menzionato da Dante Alighieri nell’Inferno, e sotto il regno di Alfonso I d’Aragona ospitò la favorita del re: Lucrezia d’Alagno. Nel territorio tra Monte Santa Croce del comune di Piana di Monte Verna e il centro urbano di Caiazzo, si trova una collinetta conosciuta come «Castello delle Femmine». Sulla sommità si trovano i resti di un piccolo insediamento fortificato medievale, già segnalato come castrum feminarum in una pergamena del 1119 ed in un elenco di decime del 1326-1327, in cui, secondo un’antica leggenda, si preparavano giovani donne a diventare cortigiane a servizio dei feudatari del luogo.

La bellezza dei vicoli di Caiazzo.
Basilica Concattedrale di Maria SS. Assunta e Santo Stefano Menecillo.
Vista dal basso del Castello Longobardo

Pro Loco Caiazzo “Nino Marcuccio” e il Palazzo Savastano

Grazie all’Associazione di promozione sociale PRO LOCO CAIAZZO, inserita nel registro nazionale come affiliata UNPLI e dedita alla valorizzazione e promozione del territorio, è stato possibile recarsi al meraviglioso Palazzo Savastano. La visita è stata accompagnata da una spiegazione accurata, offertaci da Annarita, la quale ha saputo alimentare il nostro interesse per i dettagli dell’imponente struttura, descrivendo le caratteristiche artistiche del palazzo e la sua storia. L’edificio attuale è il risultato di una serie di modifiche delle strutture preesistenti, realizzate nel corso del XVII secolo, probabilmente ad opera della famiglia Fortebraccio. Il palazzo, attualmente di proprietà della famiglia Savastano, presenta una facciata tardobarocca, ed è composto al piano nobile da sette aperture, ornate da busti allegorici in terracotta, che rappresentano i giorni della settimana. Il maestoso portone è contornato da locali che servivano nel passato da botteghe. Altrettanto interessante è il cortile interno con le sontuose scale a forbice, che permette di accedere ai piani superiori. Frontalmente, è presente lo stemma della famiglia De Pertis, formato da due stucchi di leoni rampanti. Una volta superata la prima rampa di scale, è possibile ammirare due affreschi, di origine ottocentesca, che riproducono paesaggi all’alba e al tramonto. Il piano nobile raggruppa invece diverse sale, tra cui emerge la bellezza del salone centrale, il solo ad essersi interamente salvato dal disastroso incendio, che colpì la struttura durante la seconda guerra mondiale. Ogni stanza del palazzo sfoggia un arredamento ricco, riconducibile a varie epoche, come i raffinati pavimenti settecenteschi, gli imponenti stucchi e affreschi ornamentali e i preziosi lampadari.

Palazzo Savastano
Lo stemma della famiglia De Pertis.

A conclusione di questa tappa borgonautica, si è radicato nel profondo dei nostri animi l’entusiasmo per le meraviglie paesaggistiche e artistiche del territorio caiatino. Questa stessa sorpresa rende inevitabile la riflessione sulla necessità di dare la giusta luce ad opere di importanza storica e bellezza artistica, cadute nell’oblio o nella morsa della privatizzazione. In tal senso, il lavoro della pro loco, come è da esempio quella caiatina “Nino Marcuccio”, fa sì che le testimonianze del nostro passato siano valorizzate e ricordate, rendendole accessibili al pubblico. Consci di ciò, ci si accorgerà che ogni borgo ha voglia di condividere la sua storia e, per quanto complessa e travagliata sia stata, è dovere dell’uomo lottare affinché esso ottenga il diritto di raccontarla. L’auspicio, che ogni borgonauta può rivolgere ai visitatori di borghi, è di osservare queste antiche città con il fervore della ricerca e della scoperta, poiché solo così sarà possibile ricomporre i frammenti delle nostre radici.  

 

                                                                                                                 Marica Fiorito

Piana di Monteverna e i suoi angoli nascosti

Nonostante il Covid-19 e le premesse che non erano delle migliori, visto che dopo un po’ di tentativi di organizzare una passeggiata nei borghi che avevamo calendarizzato ci ritrovavamo di fronte a strutture non ancora pronte per l’apertura al pubblico, decidemmo di andare nella valle caiatina, a Piana di Monteverna, prima chiamata Piana di Caiazzo.

Scelta condizionata soprattutto dal cordialissimo Antony, membro della proloco di Piana. Sì proprio lui, con il suo modo naturale di coinvolgere le persone, ci spinse a scoprire il piccolo borgo ai piedi del monte Verna.

Arrivati, parcheggiammo a piazza Municipio e ci incamminammo verso il centro.

Percorrendo la piccola stradina in discesa che porta al centro del paese siamo subito, tutti, catturati da una piccola chiesetta.

È la chiesa della Madonna delle Grazie, la cui prima edificazione risulta antecedente al al XII secolo, poi è stata riedificata agli inizi del 1600, nota anche come chiesa di Santo Angiolillo. Nella chiesa è presente una grotta naturale, dove è collocata una cappella dedicata alla Madonna di Lourdes.

Chiesa della Madonna delle Grazie
Chiesa della Madonna delle Grazie

Svoltammo poi per il centro, in fondo alla strada, posta in rilievo rispetto al piano stradale, si vede la chiesa dello Spirito Santo, una chiesa nata intorno al 1600.

La chiesa affaccia sulla piazza del paese, Piazza XXI Maggio, che offe un bellissimo panorama immerso nel verde, che dona tranquillità e spensieratezza.

Chiesa dello Spirito Santo - Foto di Andrea Buondonno

Da qui, poi, raggiungemmo Antony nella sua splendida bottega di fiori. Come già ci aveva accennato erano ancora tante le restrizioni da rispettare, ma nonostante ciò riuscì ad organizzare una visita alla chiesa di Santa Maria a Marciano. Prima però ci consiglio di visitare Villa Santa Croce.

Villa Santa Croce

Accogliemmo, ovviamente, i suoi consigli e tra una chiacchiera e mille risate l’ora di pranzo era giunta. Così dopo il nostro ordinario pranzo a sacco ci spingemmo per le viuzze del borgo, che sorge sul monte Santa Croce, una delle punte della catena dei Monti Trebulani.

 

Arrivammo alla Piazzetta delle chiacchiere, ad accoglierci uno splendido belvedere, inutile descriverne la bellezza e le sensazioni che regala! Un tuffo nel verde, nella natura incontaminata. Non riuscivamo a non immortalare quel panorama.

Piazzetta delle chiacchiere
Il panorama

Tra il silenzio del posto incontriamo una coppia del posto, il silenzio rotto dalle nostre voci li stranisce, perché ormai quel luogo vive nel silenzio, perché, come loro stessi raccontano ogni iniziativa ad esso legata sta svanendo, insieme alle sue tradizioni.

Le origini di villa Santa Croce  non sono ben chiare, se ne hanno le prime notizie intorno al 1400, se ne trova, infatti, traccia in una pergamena del 1436 nella quale si parla di un certo Giovanni de Adenulfo di Villa S.Croce. Dall’anno 1700 si ha certezza della vita cittadina di Piana.

Salendo verso il cimitero, tra la natura e il silenzio spicca una doppia cinta di mura ciclopiche, sono i resti del monastero, La Badia Benedettina del monte Santa Croce, che in base alle varie ricostruzioni sarebbe stata fatta edificare dal Conte Landolfo tra il 979 e il 981.

Chiesa di Santa Maria a Marciano

Chiesa di Santa Maria a Marcano - Foto di Andrea Buondonno

Nel pomeriggio ci dirigemmo poi alla chiesa di Santa Maria a Marciano, ad accoglierci c’è Antony con la guida Nunzia Cecere, che nonostante i suoi impegni e il poco preavviso ci appassiona alla piccola chiesa e ai suoi affreschi.

L’attuale struttura della chiesa risale al XIV secolo. Anche se le sue origini sono anteriori all’anno 979. Intorno al 1303 la Chiesa in stile gotico è stata completamente ricostruita ed ampliata con i caratteri dell’architettura angioina. Ad oggi la chiesa presenta origini gotiche angioine con influenza catalana.

La bifora sovrastante, che fa parte dell’eremo, è uno dei rari esempi dell’alto casertano di architettura catalana, insieme alla scala a chiocciola in pietra, una delle prime di importazione spagnola.

Scala a chiocciola

Una chiesa ricca di affreschi, di cui purtroppo non si hanno evidenze storiche. Infatti, i documenti erano contenuti nell’abbazia di Montecassino e sono andati persi.

I soggetti degli affreschi sono stati dunque ricostruiti nel tempo, dai tanti studiosi che si stanno dedicando alla chiesa. È proprio Nunzia, la nostra guida, che di recente con un gruppo di sue colleghe stanno portando alla luce l’identità degli affreschi grazie ai due lavori da loro redatti: La Chiesa di Santa Maria a Marciano. Gli affreschi svelati’ e ‘La chiesa di Santa Maria a Marciano’ del 2008 autrici Nunzia Cecere, Amalia Gioia, Rosolena Maresca, Angela D’Agostino.

Di certo gli affreschi non risalgono tutti alla stessa epoca, si distinguono, infatti, affreschi del 300 e del 400, dove è chiara l’influenza esercitata dai grandi pittori fiorentini e senesi.

Sono inoltre presenti degli affreschi del 1234 il cui committente è stato Giovanni Cammario.

Degli affreschi Quattrocenteschi, quelli che tuttora rimangono, sono: la Vergine col Bambino del Transetto e i quattro dipinti della Cappellina a sinistra del Coro. I restanti sono stati ricoperti da vari strati di calce.

Nella cappellina a destra del Coro è rappresentata la Vergine col Bambino, a destra della Vergine, è dipinta Santa Maria Maddalena, a sinistra della Vergine troviamo Santa Caterina d’Alessandria, avvolta in manto rosso.

Sopra la Vergine, nella parete, c’è una piccola apertura monofora, di forma rettangolare, ma con arco ogivale.

A destra dell’apertura è rappresentato S. Giacomo, quello a sinistra invece è rovinato dall’umidità e non risulta identificabile

A destra invece troviamo San Giovanni Battista, al disotto di S. Giovanni, ci si presenta nella parete un’altra apertura monofora, pure di forma rettangolare, però murata nella parte posteriore.

Ai due lati di quest’apertura, si osservano due affreschi, a sinistra c’è S. Stefano, Vescovo di Caiazzo, come si legge dalla scritta “Sanctus Stephanus Caiaccianus”, a destra c’è poi S. Antonio Abate.

Nella parete sinistra, sono rappresentate le maestose figure di tre Apostoli, che sono dipinti pure in piedi come S. Stefano e S. Antonio Abate dalla parte opposta.

Nella restante parte della parete, verso la chiave dell’arco, l’umidità ha prodotto ingenti danni che ne rendono impossibile la definizione dei dipinti.

Affreschi cappellina a destra del Coro
Affreschi

Lungo il transetto è presente il più importante dipinto quello di Cristo in Croce.

La cappellina a Sinistra del Coro ha ormai pochissimo affreschi, il più interessante è, il solito gruppo della Vergine col Bambino.

Molti sono gli affreschi rovinati dall’umidità, umidità causata dalla presenza di una falda sottostante la chiesa.

Cristo in croce

La falda sta creando oltre ai problemi di risalita anche problemi strutturali, aggravati dalla spinta dell’eremo sovrastante. Problemi già evidenti nel passato, nel 1620, quando il vescovo di Caiazzo, il vescovo Acquaviva, fece costruire un arco rampante all’esterno per contrastare i danni.

Purtroppo, i problemi strutturali ancora oggi sono presenti e sono costantemente monitorati.

Dopo questa bellissima giornata a Piana ci lasciamo con la gioia nel cuore di sapere che sono ancora tanti i giovani come Antony che cercano di dare vita ai loro piccoli borghi e ci sono giovani come Nunzia che credono ancora nelle tradizioni, nella cultura e nella storia, trasmettono con tantissima passione l’amore per le origini proprie.

Castello Prata Sannita

Rocce e rivoli di oblio a Prata Sannita

Geostoria. Prata è nascosta tra le serrate montagne del Matese: tra quelle propaggini una stirpe antica di guerrieri, i Sanniti, fece assaporare con pietre e lance − si narra che il pilum fosse stato abilmente copiato e migliorato dai romani, ma che in origine fosse un’arma sannita − le prime sconfitte all’emergente potenza romana. I Pentri, tribù sannita, furono i primi grandi guerriglieri della storia, e il Muro delle fate è una testimonianza della loro natura bellicosa.

Prata Sannita (Prat-orum toponimo che compare per la prima volta nel Chronicon vulturnense, conservato nel Vaticano ma scritto a San Vincenzo al Voltuno nel vicino Molise) s’arrampica su d’una collina, sulla cui cima a ferire il cielo c’è il magnifico Castello Pandone; quest’ultimo testimonia l’importanza strategica del luogo. Prata, nata in origine nella parte pianeggiante (Prata piana), a causa dei saccheggi saraceni (860 d.C.) che devastarono le terre sulle sponde del Volturno, venne edificata dai Longobardi, che decisero di arroccarsi incastellandosi sulla collina alta 333 m.s.l.m.

 In seguito, fu dominio: normanno dei Drengot della contea di Alife provenienti da Aversa, e dei Sanframondi, infine dei Pandone durante il reame aragonese… le prossime notizie le coglierete leggendo.

Il Castello e gli ulivi - foto di Daniele Palladino
Il Castello e gli ulivi - foto di Daniele Palladino
Fiume Lete
Fiume Lete

Impressione. Appena scorgi Prata comprendi che la sua ossatura urbana è di pietra, così lontana dalla civiltà del tufo tipica della Campania Felix. Il suo apparire riflette il sole, come l’acqua leggendaria su cui questi posti galleggiano come navi. Qui il fiume Lete richiama il mito e pensieri profondi di una tale limpidezza da ossigenare le astruse costruzioni di un mondo così confuso. Questo scorrere millenario ha lasciato un ciottolo levigato nella mia mente, una ricostruzione etimologica: Aletheia (ἀλήθεια) in greco antico è traducibile “come lo stato del non essere nascosto”, il fiume Lete (Λήθη) attraverso il mito è per noi tutti il fiume dell’oblio.

Questo meditare mi ha ancor di più mostrato come la Campania sia sempre pronta, a causa della sua natura mitica, a parlare della sua storia tramite sirene, sibille, titani… di correre il rischio della dimenticanza. C’è troppo da ricordare, meglio l’oblio… La Campania tutta, dal Tirreno all’Appennino, può essere narrata solo abbandonando per un po’ la ragione, solo così si sfiora la sua anima.

Prata si costruì verticalmente, forse per proteggersi dai pericoli leggendari del Lete e cercò anche di crearsi una via di fuga con il ponte che collega il mondo di pietra e quello di acqua. La Prata di cui ci incuriosimmo fu quella protetta dal mantello calcareo che è il suo abitato, abbellita dagli orti colorati con gli aranciati fiori di zucca, dalle sfumature di verde dei suoi alberi e dai primi pomodori sfumati di rosso.

Il letto del Fiume
Il letto del Fiume
Orti colorati
Orti colorati

L’arrivo. Mentre eravamo intenti a liberarci dall’arsura grazie al gorgoglio e ai rivoli ipnotici del Lete, Flora decise di chiamare il Presidente della Pro Loco Di Prata, il sig. Mario che ci diede appuntamento vicino al Ponte di origine romana verso le 15.00. Nel frattempo, seguendo il corso del mitico fiume arrivammo al vecchio Mulino in pietra, alimentato in passato dalle sue acque. Le suggestioni iniziarono a fiorire nella mente: immaginai che farina sarebbe stata quella prodotta con l’acqua del fiume dell’oblio e col grano duro più della stessa pietra matesina, coltivato su quelle spianate e terrazzamenti… Pane e oblio, alimenti per sopravvivere nei luoghi duri ed eroici dell’Appennino. Dalle alture nascono sempre prodotti densi di sapori, come i formaggi eccezionali e l’olio, ma anche il mais della varietà tonda con il quale si produce una ottima farina di polenta con la quale si cucinano piatti impensabili per la cucina campana mediterranea. Dopo esserci ristorati, andammo all’appuntamento.

 

Prata Inferiore vista dall'antico mulino
Prata Inferiore vista dall'antico mulino
Prata Inferiore vista dal ponte
Prata Inferiore vista dal ponte
Borgo medievale visto dall'alto - foto di Daniele Palladino
Borgo medievale visto dall'alto - foto di Daniele Palladino

Lì attendeva Mario, che ci venne incontro sorridente, nonostante fosse claudicante per via di una operazione recente al menisco e fossero più di trenta i gradi che illuminavano il luogo pattuito per l’incontro. Da questo momento, senza aver ancor visto il borgo, se non da lontano, stimai ancor di più questo uomo, il quale per dare un’opportunità ai visitatori di apprezzarlo, aveva lasciato tutti i timori a casa, dedicandosi completamente a Prata, anzi… dedicandosi anche alla moglie. Maria fu la sua spalla, energica e simpaticissima, donna di origini statunitensi, ma ancor di più pratesi, che subito ci fece sorridere con le sue battute e ci rimproverò della nostra incoscienza borgonautica, che scioccamente, invece di spingerci a bagnarci nei flutti marini, portò ad arrampicarci con quelle temperature sullo specchio di sasso che è il Matese. Maria ci descrisse la preparazione di uno dei piatti tipici, il Frattocchio, fatto con la polenta fredda e la minestra…

Schizzo del ponte sul Lete
Schizzo del ponte sul Lete
Antico mulino
Antico mulino

L’esplorazione. Prima tappa del percorso scelto dalle nostre guide fu il Convento di San Francesco. L’architettura, ci spiegò Mario, è di origine romanica con interventi barocchi, ma purtroppo è chiuso, come i misteri più profondi del cristianesimo stesso e che solo con la fede vi si può giungere.

 La seconda tappa del percorso fu la piazza principale nella parte di Prata Superiore, nata intorno alla fine del ‘500, dove domina la Parrocchia di San Pancrazio, nata per sostituire quella ancor più antica che sorgeva a 1000 piedi dall’attuale e nella quale sono riutilizzati elementi della più antica parrocchia risalente al 700 d.C, come il portale laterale di epoca longobarda raffigurante Cristo, arricchito con motivi geometrici e floreali, e dalle tre teste di leone poste nella parte alta della facciata. Interessante è l’appellativo di questo giovane martire: è uno dei santi di ghiaccio, dicitura risalente a una credenza contadina che vedeva nel giorno del 12 maggio (festa patronale) un brusco raffreddamento del clima, giorno che apriva in modo definitivo al caldo dell’estate sostituendosi alle bizzarrie e ai tepori primaverili. Per gli appassionati dei misteri medievali una ricostruzione storica vede sul portale di accesso in pietra un’edicola, avente ai lati le immagini di due soli sfolgoranti riconducibili ai Cavalieri Templari del Santo Sepolcro…

Convento di San Francesco
Convento di San Francesco
Parrocchia di San Pancrazio
Parrocchia di San Pancrazio

La bella passeggiata dalla piazza proseguì per le strade di Prata superiore dove avemmo il piacere di incontrare un bravissimo ceramista, nonché profondo conoscitore di Prata, il sig. Santillo Martinelli che ci accolse nella sua variopinta bottega e a ogni colore smaltato, richiamò un tassello del mosaico storico di Prata, spiegandoci come tra queste stradine la storia non avesse mai smesso di scorrere: infatti, anche da un punto di vista archeologico, Prata è una chicca! Per tale esigenza, in questo borgo è stata istituita una vivacissima e colta associazione, il Gruppo Archeologico di Prata Sannita, che tanti studi di pregio ha condotto a livello locale, lavori che abbracciano la preistoria fino all’archeologia industriale, ma anche il restauro di alcune opere di pregio. 

Tra ceramiche e archeologia
Tra ceramiche e archeologia

Prima di ritornare al parcheggio scambiammo delle piacevoli chiacchiere con due arzille signore, amabili scrutartici dagli occhi vispi. Le simpatiche donne rocciose nella lucidità, subito ci tempestarono di domande, ci spiegarono come il loro nome, Maria, fosse dedicato alla S.S Maria di Prata, che è cosa diversa da tutte le altre Maria… e ci salutarono con la frase “che a Maronn e Prata v’accumpagn”…

La signora delle benedizioni - foto di Daniele Palladino
La signora delle benedizioni - foto di Daniele Palladino
Le strade bianche
Le strade bianche

Arrivati al parcheggio per partire verso una nuova tappa, Mario ci incitò a seguirlo per andare a vedere qualcosa di sacro e allo stesso tempo profano, dove l’uomo sfida la montagna e la sua linfa…ancora acqua e pietra. Seguimmo la sua auto bianca mentre si gettava con una certa velocità – lontana dagli standard di guida di gente proveniente dalle tempeste urbane – in una strada sterrata. Eravamo entrati in una strada bianca – penso alla archeologia – ricca di polvere e meno insidiosa dei crateri stradali delle città della Pianura campana; Mario aiutato dalla polvere bianca e dal colore della sua auto si mimetizzò da buon sannita, ma lo raggiungemmo perché ci orientammo grazie alle argentee foglie degli ulivi che delimitavano la strada. Antonella aveva lavato la macchina da qualche giorno, prontamente ricevetti uno schiaffo dolce almeno quanto le botte date con la sua macchina quel giorno.

Mario si fermò vicino a una edicola votiva in onore di Sant’Antonio da Padova con la rispettiva statua che ha del miracoloso. Infatti, è stata piangente: è per questo miracolo che San Pancrazio, nel cuore dei pratesi, ha ceduto il posto al padovano che in quella statua ha ancora racchiuso mito e acqua. Dopo aver goduto del panorama che dà su una gola ripida e un paesaggio mozzafiato, tappa seguente fu la centrale idroelettrica dismessa sulla Grotta del Cavuto costruita nel 1946 e funzionante fino agli anni ’60. Mario, scendendo dalla macchina, ci portò alla scoperta di questo sito di archeologia industriale: tra stradine ripopolate da piante fiorite di giallo e viola, sentimmo il piacere dell’avventura, il profumo della menta selvatica… Mario mi sembrò un brigante alla macchia e dimenticai ben presto che avesse subito un intervento al menisco.

Sant'Antonio da Padova
Sant'Antonio da Padova

Tra il cemento e il ferro, e le scritte rupestri di giovani innamorati o contestatori politici, capii che il mito sa essere più forte di tutto, e che l’uomo col suo contenere le acque, i boschi, non ha vinto… ha plasmato se non in modo temporaneo quello che è il mito. Tutto ritorna perché il Lete è il fiume dell’oblio e ha dimenticato ben presto ciò che l’uomo ha imprigionato… il suo sbarramento è un ricordo passato, adesso scorre dimenticando. Il mito non è altro che un modo diverso di dire tutto, cambiando nome recupera sempre lo stesso mistero rimescolandolo.

Archeologia industriale-Grotta del Cavuto
Archeologia industriale-Grotta del Cavuto
Borgonauti & Friends
Borgonauti & Friends
Particolare di archeologia industriale - foto di Daniele Palladino
Particolare di archeologia industriale - foto di Daniele Palladino

Ultima tappa fu il borgo medievale che ammirammo già dal fiume e che adesso dovevamo invadere. Appena arrivammo nel parcheggio del Castello, ahimè chiuso al pubblico quel giorno, mi emozionai nel vedere tutto quel miscuglio di lastre di calcare, tagliate in modo da costruire ardite fortificazioni e case forate in pietra, legate con malta e acqua, edificate  l’una sull’altra in modo da sostenersi fondamenta su fondamenta, dalle quali sgorgavano piante spontanee di cappero, con i loro bellissimi e profumati fiori, di colore avorio e viola. Questa è la bellezza dei luoghi calcarei e carsici: se è vero che dal letame nascono i fiori, dalle pietre nascono i borghi. Arrivati alla porta di San Giovanni che affianca il Castello con il suo apparire angioino, e con i suoi simboli templari ben custoditi, scendemmo per il borgo tra strade strette e sconnesse. Lì ci imbattemmo in una dolce signora dal corpo esile e impaurita, in un primo momento molto diffidente. Per avere delle dritte sulle storie popolari del posto chiedemmo delle Janare: ella dopo un po’e con molta reticenza, accennò di queste donne conoscitrici dei misteri della natura e dei malefici… ci aggiornò che non era più epoca delle Janare; erano scomparse, infatti nessuno più lega le trecce dei cavalli nella notte, né recita formule per propiziare amori e incantamenti…ma qualche lupanaro ancora era impresso nella memoria dei pratesi.

Torre in fiore
Torre in fiore
Pietra e capperi
Pietra e capperi

Di tutto ciò parlammo vicino alla chiesa più importante di Prata, almeno per le Marie, la custode della divinità femminile del luogo S.S Maria di Prata: la Madonna della montagna è custodita nella Chiesa di S.Maria delle Grazie, quest’ultima nata dopo la distruzione della Chiesa di San Giovanni, ma che malgrado sia databile intorno al Cinquecento, possiede alcuni particolari romanici come il portale con un fregio longobardo.

Immagine votiva di S.S. Maria di Prata
Immagine votiva di S.S. Maria di Prata
Chiesa di Santa Maria delle Grazie
Chiesa di Santa Maria delle Grazie

Scendemmo ancora per il borgo, incontrando gente meravigliosa. Una dolce signora sul balconcino di casa accudiva i suoi gerani di vari colori e ci salutò scambiando qualche battuta. Giunti nella piazza del borgo medievale ci acquartierammo con gli abitanti del posto, che tra domande e battute ci mostrarono il lavatoio e il calore della gente dell’oblio.

Borgonauti alla scoperta
Borgonauti alla scoperta
Il calore della gente dell'oblio
Il calore della gente dell'oblio

Prata, con la sua misteriosa luce, ci aveva lasciati nella dimenticanza di avere un posto in cui tornare. Sulla strada del ritorno, nella macchina impolverata, vidi Carla felice, i suoi occhi stanchi di bellezza coperti dai capelli mossi dal vento. Al suo fianco sedeva Paolo, un piccolo borgonauta che ancora faceva domande sui posti visitati, sui monti e sulle storie delle streghe…Capii che aveva un senso tutto questo e che al mondo del cemento e della memoria virtuale sopravvive un mondo fatto di pietra che lotta contro l’oblio.

Scorcio del borgo
Scorcio del borgo
Le case del tempo
Le case del tempo

La fertile Limatola, porta del Sannio

Sin da quando si è piccoli, il castello è sempre un luogo privilegiato, l’ambientazione ideale di favole, giochi, imprese, lo scenario perfetto su cui far scorrere immagini di un tempo antico, storico o mitico, in cui ricercare tracce di un passato glorioso o ricostruire le fila di leggende e tradizioni popolari che contraddistinguino l’eredità culturale dei borghi che nascono ai suoi piedi.

Proprio sulla spinta dell’immaginazione e della curiosità di entrare nell’antico Castello di Limatola, situato sulla sommità di una collina a guardia del suggestivo borgo medioevale di Limatola, nella valle del Volturno, circondata dal monte Taburno, dal monte Maggiore e dai Monti Tifatini, a cavallo tra la fine dell’estate e i primi giorni dell’autunno 2019, decidemmo di organizzare una passeggiata alla scoperta di Limatola.

Durante l’organizzazione della nostra visita al borgo, scoprimmo che Limatola sarebbe stata inserita tra gli itinerari culturali promossi in occasione delle Giornate europee del Patrimonio 2019, a cura del Mibact, e che quindi avremmo potuto visitare gli interni, non sempre aperti, di molti gioielli caratteristici del luogo e così scegliemmo di cogliere l’occasione e di lasciarci condurre dalla giovane Rosa Ambrosio, la guida volontaria che ci ha gentilmente accompagnato nel nostro viaggio di scoperta.

La nuova Chiesa di San Biagio

Il luogo d’appuntamento – Limatola centro

La base di partenza ideale per visitare Limatola, un piccolo borgo di più di 4.000 abitanti diviso in varie frazioni, Casale, Biancano, Giardoni e appunto Limatola, è la piazza, nella parte bassa del borgo, in cui è situata la nuova Chiesa di San Biagio Vescovo e Martire.

Lo spazio antistante la chiesa è stato anche il nostro luogo d’appuntamento con la guida che ci ha fatto entrare in chiesa e ha iniziato a raccontarci la ricca storia del paese.

La nuova Chiesa di San Biagio fu restaurata dal duca Gambacorta nel 1724, come si legge nella memoria sotto la volta, e conservava una meravigliosa pala di altare, rubata il 5 ottobre 1999, a seguito della ristrutturazione, durante la quale, sotto il pavimento, fu rinvenuto il corpo di un nobile, forse un duca della famiglia Gambacorta, con un bambino, completi di vestimenti d’epoca.

Ma la vera ricchezza del complesso è la Campana Giubilare dedicata alla Pace fra i popoli, fatta fondere dal parroco don Giuseppe Giuliano con il concorso del popolo di Limatola  e benedetta da S.S. Giovanni Paolo II per l’Anno Santo del 2000.

La campana, quarta di Italia per grandezza, è posta su un supporto d’acciaio, davanti al campanile, e fa sentire la sua voce nei momenti forti e nelle ricorrenze più solenni dell’anno liturgico.

Campana Giubilare
Campanile della Nuova Chiesa di San Biagio

Dopo aver ammirato la maestosità della Campana e aver iniziato ad assaggiare i primi bocconi della storia secolare del posto, salimmo su una piccola navetta messa a nostra disposizione dalla nostra energica e solare guida e iniziammo a salire per le viuzze del borgo verso la parte alta di Limatola.

Borgo Antico di Limatola

Lungo la strada che porta al borgo antico è situata la vecchia Chiesa di San Biagio. Questa chiesa, come la Chiesetta di San Nicola dentro le mura, è documentata nella bolla di Sennete del 1113. Oggi non conserva più l’originario aspetto romanico, ma possiede un impianto rinascimentale, dovuto agli interventi dei Duchi Gambacorta. Sulla facciata sono presenti un portale rinascimentale (1599) e una lapide dei restauri settecenteschi (1734).

Un salto nella storia del borgo

Mentre salivamo verso il Castello abbiamo avuto modo di conoscere le vicende dell’affascinante storia di Limatola grazie al racconto orale di Rosa e di chi abbiamo incontrato durante il percorso, il modo più interessante per comprendere le tracce che la Storia ha lasciato in un territorio. Sulle origini del nome l’ipotesi più accreditata fa derivare Limatola da “limo” ovvero terra limacciosa, fertilizzata dal fiume. Diversi documenti attestano la presenza di Limatola già in epoca longobarda come presidio militare del Principato di Capua, al confine con il Ducato di Benevento, anche se vari ritrovamenti archeologici ne attesterebbero l’importanza già in epoca romana.

Con la costituzione della Contea di Caserta, Limatola ne ha seguito le vicende dinastiche, prima con i Longobardi, poi con i Lauro e i Della Ratta (fino al sec. XV).

Acquisita tramite unione matrimoniale dai duchi di Gambacorta, il borgo visse un momento di rinnovato splendore nei secoli XVI e XVII.

Francesco Gambacorta fu un vero mecenate, per il suo amore per l’arte e l’architettura. Fece consolidare la struttura del castello di Limatola, restaurò la cappella di San Nicola intra castrum, emanò nel 1527 i capitolari, norme che dovevano essere osservate sia dai feudatari che dai contadini delle sue terre, commissionò il polittico dell’Annunziata di Limatola a Francesco da Tolentino, pittore marchigiano che lavorò a Napoli con artisti locali. Nel 1570 Limatola fu comprata per conto del principe di Conca Giulio Cesare di Capua. Passata al Demanio regio (1734) fu acquistata dai Mastelloni, cui successero i Lattieri D’Aquino e i Carafa, fino all’emersione della feudalità (1806).

Con l’Unità d’Italia, Limatola fu aggregata alla provincia di Benevento a cui ancora oggi appartiene, diventando una delle porte di confine tra la terra casertana e il Sannio beneventano.

Facciata della vecchia Chiesa di San Biagio
Lapide per il restauro della Chiesa di San Biagio
Il Castello

Finalmente giungemmo al Castello che sorge su una collinetta calcarea a 100 metri sul livello del mare. Si pensa che già i Sanniti avessero stabilito qui una loro fortificazione. Lo sviluppo del castello avvenne intorno ad una primitiva torre longobarda (X sec.), in epoca normanno-sveva (XII sec.) e soprattutto in età angioina. Nel periodo rinascimentale assunse le attuali forme di palazzo ducale con corte interna, sede signorile delle varie famiglie che ne fecero la propria dimora.

Curiosità sui lavori al Castello – Il Castello di Limatola ebbe la sua prima ristrutturazione alla fine del mese di ottobre del 1277, con decreto del re Carlo I d’Angiò, emanato a Melfi il 27 settembre del 1277. Con molta probabilità alla sua ristrutturazione dovette presiedere l’architetto francese Pietro D’Angicourt, quello stesso che aveva diretto i lavori di ricostruzione del castello di Lucera in Puglia e che spesso viene citato col titolo di Protomaestro.

La facciata esterna del castello di Limatola rivolta a Sud-Est, nonostante gli interventi strutturali successivi, tra i quali quello operato dal duca Francesco Gambacorta nel 1518, conserva ancora parte dell’antico splendore e del restauro eseguito dai maestri scalpellini napoletani, fatti venire da Margherita de Tucziaco. La finezza del lavoro si nota soprattutto per la messa in opera dei conci di tufo, per la precisione del loro taglio (tutti della stessa dimensione) e per la perfezione della forma, che richiama quella della fabbrica di Castelnuovo, ristrutturata da Pietro D’Angicourt.

Carlo, difatti, era molto meticoloso nell’assegnare i lavori e pretendeva che si portassero a termine con celerità e minacciava forti pene a chi indugiava ad eseguire i suoi ordini.

Nel mese di novembre, vedendo che i lavori progredivano poco, Carlo chiese a Gerardo di Artois, giustiziere di Terra di Lavoro, di mandare altri manovali, ed esortò Pietro Chaul ed Enrico di Torsenvach di vigilare affinché gli operai lavorassero e non fuggissero. Ordinò di chiudere in carcere cum compedibus, e solamente con pane e acqua, quelli che si mostrassero svogliati o che andassero via; e di procedere contro quelli che riuscissero a nascondersi, carcerando la moglie e i figli, rovinando le loro case, divellendo le loro vigne. Da questi aneddoti si comprende come mai il lavoro di restauro del castello di Limatola sia durato poco più di un anno.

Il Castello
Il Castello
L'esterno del Castello
L'esterno del Castello

 Il valore storico e attuale del Castello – Il Castello di Limatola, con le sue mura merlate, rappresenta la memoria storica del territorio; si erge poderoso sulla collina, a guardia della vallata, in un punto strategico, dando lustro al piccolo centro limatolese e divenendo il simbolo della sua storia.

Baluardo dell’antico borgo medioevale, il Castello di Limatola, un tempo dimora difensiva, ora è di proprietà privata dal 2010, e dopo cinque anni di restauro è stato aperto al pubblico ed è oggi un’incantevole location. Tra le suggestive mura del Castello medioevale di Limatola infatti si svolgono matrimoni, eventi, meeting e nel periodo natalizio i Mercatini di Natale di Limatola “Cadeaux al Castello”.

In questo modo il Castello rivive e, anche se con una funzione del tutto diversa, può continuare a essere un polo di attrazione e una calamita nei confronti di chi non è nato nel borgo, restando così uno dei motori trainanti del piccolo centro. In questo senso, il Castello fortifica il senso di appartenenza dei suoi abitanti e rappresenta anche un simbolo di riscatto del suo popolo.

Dopo aver visitato il Castello, aver respirato la sua storia, girovagato nelle varie stanze e negli spazi esterni adiacenti, scattato foto e aver osservato i preparativi di allestimento dello spazio interno, che lasciavano ben cogliere la sua nuova destinazione d’uso, a malincuore abbiamo lasciato alle nostre spalle questa meravigliosa struttura per continuare la nostra visita limatolese e ci siamo diretti alla “fontana”.

Armatura d'arredo
Armatura d'arredo
Arredo interno
Arredo interno
Sala interna del Castello
Sala interna del Castello
Borgonauti al Castello
Le scale del Castello
Le scale del Castello
Il castello dall'uscita lateralello
Il castello dall'uscita laterale
La Fontana Margherita de Tucziaco – L’adozione

Questa fontana storica è localizzata nei pressi del Castello e intitolata a Margherita de Tucziaco, cugina carissima di Carlo I d’Angiò alla quale egli offrì uno dei più maestosi castelli del Regno di Napoli, qual era il castello di Limatola, in cui il re stesso fu ospite per qualche giorno durante i suoi viaggi. Nel tempo, la Fontana Margherita de Tucziaco di Limatola è divenuta un luogo molto significativo per tutta la comunità e non solo per la sua fonte d’acqua. Infatti questa fontana è stata sempre meta di molti visitatori, così come di molte persone del posto, anche per trascorrere il proprio tempo libero e pian piano è diventata insomma un punto di aggregazione sociale.

Dopo un periodo di maggiore disattenzione e incuria, quando qualche tempo fa il Sindaco di Limatola, dott. Domenico Parisi, ha proposto di attivare un progetto di adozione dei monumenti principali di Limatola, l’Assessore alla Cultura, il dott. Massimiliano Marotta, ha scelto proprio questa fontana come oggetto della sua personale adozione, curandone il ripristino e la manutenzione. E proprio nei pressi della fontana abbiamo vissuto uno dei momenti più belli della nostra domenica limatolese: una volta ascoltata la storia della fontana e aver fatto la nostra foto di rito, guardandoci intorno, osservammo che nei pressi della fontana c’era una lunga tavolata di abitanti del borgo che mangiavano e bevevano insieme all’aperto nei pressi della fontana, rappresentando ai nostri occhi una delle più simpatiche immagini simposiali e conviviali che ci si possa prefigurare immaginando la vita quotidiana di un borgo vivo. Avendo anche i commensali notato la nostra presenza al seguito della giovane Rosa, fummo invitati a brindare con loro con dell’ottimo vino gentilmente offertoci dall’assessore lì presente e dagli altri suoi amici commensali, facendoci sentire accolti e parte integrante di quell’allegra rappresentanza di limatolesi. 

Fontana Margherita de Tucziaco
Fontana Margherita de Tucziaco
Borgonauti con la loro guida
Lavatoi e Abbeveratoi della Fontana Margherita de Tucziaco
Lavatoi e Abbeveratoi della Fontana Margherita de Tucziaco

Dopo un brindisi e un bel momento di gioia, ci accingemmo a lasciare la parte antica e a completare il nostro itinerario nei meandri del centro sannita, verso le altre frazioni non ancora esplorate.

Casale di Limatola – Chiesa dell’Annunziata

Andando verso “Casale di Limatola” potemmo visitare la Chiesa dell’Annunziata Ave Gratia Plena che dà anche nome alla frazione.

L’aspetto tardo-settecentesco che oggi la caratterizza nasconde origini ben più antiche. Fu fondata infatti prima del 1403, per volontà di una confraternita laicale, i Battenti, ancora oggi raffigurati nello splendido portale rinascimentale di gusto spiccatamente toscano, che risale al 1503. L’originaria pianta ad una sola navata fu ampliata con l’aggiunta di due navate laterali. Nel 1764 fu realizzato l’attuale imponente campanile.

Sulla sinistra del portale di ingresso è ancora riconoscibile, nonostante le numerose modifiche, l’edificio rinascimentale della chiesa con annessa una cisterna per la raccolta delle acque, nominata più volte nei documenti dell’archivio vescovile di Caserta.

La chiesa è stata sede dello splendido Polittico di Francesco da Tolentino, pittore marchigiano, datato 1527. Per un periodo il Polittico è stato depositato presso il Museo del Territorio della Reggia di Caserta per restauro, in attesa del rientro in sede entro l’imponente macchina lignea, purtroppo asportata da ignoti durante la notte nel 1999. Il Polittico raffigura la Madonna in trono col Bambino, San Giovanni Battista e Santa Maria Maddalena; nella predella sono visibili Storie di Gesù e Maria ed era originariamente destinato a ornare l’altare maggiore della chiesa della SS. Annunziata di Limatola e dopo il suddetto restauro, il Polittico è attualmente conservato nella chiesa palatina del Castello di Limatola.

Biancano – Il Santuario di Sant’Eligio e la Fontana

Biancano di Limatola è localizzata a pochi chilometri dal centro cittadino. Rivela un’origine autonoma e una storia importante per i reperti archeologici rinvenuti e l’esistenza di una serie di toponimi che attesterebbero a Biancano un accampamento di soldati cartaginesi guidati da Annibale in marcia per soccorrere i campani contro i Romani.

Il monumento più antico di Biancano è il Santuario che su un colle da cui si gode di uno spettacolare scorcio della vallata del medio Volturno verso Capua. La sua fondazione risale alla fine del Trecento, quando le truppe francesi acquartierate a Caserta e a Maddaloni si rifugiarono a Biancano per sfuggire alla fame e alla peste. Qui fraternizzarono con la popolazione locale e le comunicarono la devozione al santo, vissuto nel VII secolo. I biancanesi vollero testimoniare la loro riverenza innalzando nel 1388 un piccolo tempio a navata unica sovrastata da una cupola emisferica su presbiterio quadrato. Sulla navata si aprono alcune finestre e all’interno della chiesa è possibile ammirare alcuni affreschi tardorinascimentali. Tra la navata e il presbiterio vi è un arco sorretto da pilastri, su uno dei quali vi è un affresco di ignoto autore raffigurante San Benedetto. Sul fondo dell’abside vi è un trittico forse risalente alla scuola di Giotto che reca da sinistra a destra San Francesco, Sant’Eligio e Santa Caterina; mentre nella lunetta in alto campeggia la Madonna delle Grazie con gli angeli. All’esterno, a destra della chiesa si eleva il campanile in muratura di tufo.

Altro luogo incantevole di Biancano è la nota fontana, alimentata dalle sorgenti del versante dei monti Tifatini. Per le sue acque naturali freschissime e salubri, è stata sempre considerata una tappa importante dai viaggiatori di un tempo che si spostavano a piedi. Allo stesso modo, come l’altra Fontana storica di Limatola, anche questa di Biancano è stata sempre utilizzata in passato dalle signore del posto, le cosiddette lavandaie, che qui si recavano a lavare. Difatti, entrambe presentano degli abbeveratoi per animali e dei lavatoi in pietra risalenti al XVII sec. Nei pressi dell’antica fontana di Biancano è situata la vecchia Chiesa di San Michele Arcangelo (oggi in disuso), testimonianza dell’espandersi del culto dell’Arcangelo fin dalla seconda metà del VII secolo, praticato anche dai Longobardi.Il

Chiesa dell'Annunziata Ave Gratia Plena
Santuario di Sant'Eligio

 

Sazi per la tutta la meraviglia assaporata, felici di aver potuto scoprire la ricchezza storica, artistica e culturale di Limatola, storditi come si potrebbe essere dopo un viaggio nel passato grazie a quella preziosa macchina del tempo costituita dalla memoria collettiva umana, estasiati dalla bellezza naturale dei luoghi e soddisfatti di questa salita e discesa fatte tra cielo (sulla sommità della collina tra Castello e Santuario di Sant’Eligio) e terra (tra le viuzze del borgo antico fino alla Nuova Chiesa di San Biagio), andammo via da Limatola, consapevoli di aver conosciuto un borgo tra i più belli, con una vitalità e potenzialità enormi, come appurato anche grazie all’incontro con il popolo limatolese, che ci ha accolto e che continua ad adottare le testimonianze della sua storia per farle vivere anche nel presente e nel futuro.

L'interno dell'antico Santuario di Sant'Eligio
Vista dal colle in località Biancano
Abbazia di Sant'Angelo (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)

Taurano, capitale estiva di danze e cultura

Trascorrere le vacanze estive a casa, lontani dalle gettonate capitali europee o dalle nevrotiche spiagge di Ferragosto non è poi un dramma! A volte non è necessario allontanarsi tanto, ci sono luoghi vicini, spesso insospettabili che possono sorprenderci per angoli dal fascino ancora sconosciuto. Il territorio campano, ma in generale l’entroterra della nostra bella Italia, offre ad agosto un calendario ricco di serate magiche. Si può optare per escursioni notturne i cui passi sono illuminati dalla luna, concerti, sagre con ottimi percorsi enogastronomici, festival di danze popolari… Insomma, si ha solo l’imbarazzo della scelta, che in questo caso ci ha portato a Taurano. Le ragioni che ci hanno condotto a questa scelta sono state essenzialmente due: la prima è perché si tratta di un borgo dell’Irpinia quindi, garanzia di bellezza; la seconda è perché Taurano ogni anno ospita il Festival Internazionale del Folklore. Aggiungo un ulteriore motivo, scoperto solo dopo la visita di questo borgo: si tratta di alcuni murales che rianimano i vicoli con i loro colori e tematiche.

TAURANO

Taurano, antico come l’età del bronzo, è un piccolo paese della Bassa Irpinia disteso lungo il monte Pietra Maula, sempre lì, in quiete, a contemplare un panorama ricco di vegetazione dove con lo sguardo si può arrivare fino ad abbracciare il suolo napoletano. È circondato da un territorio generoso dove tutti i sensi vengono appagati con la natura che cambia colore ad ogni stagione ed è sempre uno spettacolo per gli occhi, il fruscio del vento tra gli alberi, l’odore intenso delle erbe selvatiche, la frescura dell’estate, il gusto raffinato dei suoi frutti. Questa terra è caratterizzata dalla presenza di querceti, uliveti e noccioleti; è segnata da una cultura agricola antichissima e, grazie alle mani sapienti dei suoi abitanti, Taurano è una delle capitali italiane della nocciola. Si tratta della nocciola Mortarella, di ottime qualità, la cui coltivazione ne ha fatto un prodotto di eccellenza nella tradizione culinaria dell’Irpinia.

Per quanto riguarda il centro abitato, il borgo non è molto grande, è raccolto ma non privo di fascino. Anzi, è proprio quell’atmosfera intima che lo rende incantevole. Oltre ai suggestivi vicoletti, Taurano è patrimonio di chiese meravigliose dall’architettura semplice e raffinata dove è possibile ammirare all’interno opere d’arte come le tele di Angelo Mozzillo (1736 –1806) nella Chiesa del Rosario (fine XVI secolo) oppure l’altare ligneo della Chiesa di San Giovanni del Palco (XIII secolo) e; all’esterno scorci mozzafiato come quelli unici dall’Abbazia di Sant’Angelo risalente al 1087 (vedi immagine di copertina, fornita da Tommaso Buonfiglio).

Altare ligneo della Chiesa di San Giovanni del Palco (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)
Altare ligneo della Chiesa di San Giovanni del Palco (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)
Convento di San Giovanni del Palco (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)
Convento di San Giovanni del Palco (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)

FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FOLKLORE

Taurano, nonostante sia un piccolo borgo, protetto e isolato per la sua posizione di difesa sui rilievi della Campania, ha una meravigliosa tradizione di accoglienzaTaurano, infatti, ospita dal 1996 il Festival internazionale del Folklore organizzato dalla Pro Loco del paese con la collaborazione del Gruppo Folk Laccio di Amore. Il Festival si tiene durante la prima settimana di agosto, giorni in cui Taurano si accende con i colori dei numerosi gruppi internazionali, la tradizione locale si mescola alle culture di paesi lontani, ed è tutta una festa di sorrisi e allegria, senza frontiere! Le danze, i costumi variopinti e le musiche dei gruppi partecipanti ti avvolgono e ti travolgono. La danza è l’essenza di un popolo, possiede quel ritmo antico che accomuna tutte le culture per propiziare un raccolto generoso, per onorare una cerimonia religiosa, per allontanare spiriti cattivi…

L’edizione del 2019 ha accolto con entusiasmo i gruppi musicali e di danza popolare di Argentina, Cile, Costa d’Avorio, Perù, Polinesia, Kamtchatka e l’immancabile compagnia di Taurano, sempre in giro per il mondo per far conoscere le proprie tradizioni. I vari gruppi dopo la sfilata inaugurale, sulle scale della villa comunale dove le luci hanno creato una magnifica scenografia, si sono esibiti a turno mostrando la bellezza dei loro movimenti. La musica ci ha rapiti e non importava se si trattasse di quella tribale della Polinesia o quella cortese della tarantella nostrana.

Gruppi del Folklore
Gruppi del Folklore
Foto ricordo con le gentili donne della Polinesia
Foto ricordo con le gentili donne della Polinesia

TAURANO E L’ARTE DEI MURALES

Taurano si sta trasformando in un museo a cielo aperto grazie ai murales lungo i caratteristici portici del paese. Si tratta del progetto “Portici d’Autore”, iniziativa artistica nata nel 2012 che ha l’intento, oltre a quello di riqualificare e valorizzare il borgo spento dal tempo, di testimoniare le epoche trascorse di questo antico borgo: un modo per conservare la memoria storica di Taurano. Il murales che più mi ha colpito è il “Sogno Americano” di Franco Mora. L’artista ha affrontato il tema dell’emigrazione che ha coinvolto i cittadini tauranesi (e non solo) nei primi anni del Novecento. Al centro del murales c’è un veliero fantastico che traghetta gli abitanti del paese verso una nuova vita: di fronte ad un futuro dove l’unica certezza era una vita dura, segnata dalla fatica nei campi che non sempre riusciva a sfamare la comunità, la gente lasciava con amarezza la propria terra per l’America con la speranza di un futuro migliore.

Portici d'Autore
Portici e murales (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)
La contadina (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)
La contadina (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)
Dettagli dei portici (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)
Dettagli dei portici (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)
Portici d'Autore (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)
Portici d'Autore (foto fornita da Tommaso Buonfiglio)

Andare alla scoperta di borghi e sentieri, e di tutte quelle bellezze del nostro territorio cadute nell’oblio, è una passione che coltivo da tempo, oggi trasformata in qualcosa di vitale per il richiamo di teneri ricordi e per l’occasione di nuovi incontri. Ma è una passione che si è fatta ancora più bella e profonda grazie all’allegra compagnia dei Borgonauti, uniti dal desiderio di conoscere l’anima dei borghi consumati dal tempo e dalla speranza di vederli un giorno rianimati dalla freschezza di future generazioni. Oggi l’America del murales è la città, il caos, i luoghi affollati, i bar, il degrado, tutto a portata di mano…Il sogno dei Borgonauti è quello di vedere quel veliero fare rotta verso i borghi, traghettare le persone verso luoghi dimenticati che hanno bisogno solo di essere abitati.

Il "Sogno americano"
Il "Sogno americano"

Le Luci di Piedimonte

Non è difficile comprendere l’etimologia della parola “Piedimonte”, ma lo è capire il motivo per il quale questo comune dell’alto casertano, un tempo rigoglioso e florido, abbia visto nel corso dei secoli una significativa riduzione di interesse, forse  associato ad un calo dei flussi commerciali , affievolendo sempre più l’influente peso che ha avuto nella provincia. Situato ai piedi del massiccio del Matese, il comune ha conosciuto tanti felici periodi storici, ma è doveroso citarne due in particolare: quello Normanno (XII sec.) durante il quale ha esteso i propri confini occupando un territorio di oltre 142 km², e quello della nobile famiglia dei Gaetani d’Aragona (che lo mantennero fino all’abolizione della feudalità) i quali favorirono l’incremento della produzione industriale dei panni lana.

Nel 2019 il comune di Piedimonte ha partecipato ad una bellissima iniziativa chiamata “Illuminarti”, manifestazione nata nel 2012 dall’Associazione culturale Byblos, con un chiaro obiettivo: quello di accendere i riflettori sui suoi angoli più nascosti e remoti, per dare vita ad una “protesta” contro il loro abbandono. La curiosità e l’interesse che sempre ci guidano come strade maestre, ci hanno spinto a partecipare a questa suggestivo progetto che abbiamo trovato estremamente elegante e raffinato. Le luci sapientemente dislocate nei punti strategici, hanno illuminato le antiche Chiese, le strade principali  ed il centro storico, interessando anche il Complesso Museale San Tommaso D’Aquino, le rampe di San Marcellino e il Palazzo Ducale.

Passeggiando lungo questo percorso abbiamo incontrato più spettacoli in contemporanea, concerti di musica, mostre pittoriche e fotografiche, artisti di strada itineranti, punti di ristoro e prodotti locali. Sicuramente, gli scorci più suggestivi e romantici vanno ricercati nei pressi del Palazzo Ducale. E’ stata un’esperienza bellissima, intima, delicata ed organizzata in maniera estremamente scrupolosa, che ci ha dato la possibilità di ammirare un borgo magnifico, troppo spesso dimenticato, che cerca di ritornare a splendere come in passato attraverso queste romantiche manifestazioni.

Cava de’Tirreni: la città stellare

Cava dei Tirreni è una città molto apprezzata sia per i suoi scenari naturali che per la sua storia, per questo non potevamo non destinarvi una ‘borgo-tappa’. 

Essa sorge in una vallata immersa nel verde e viene chiamata ‘città stellare’ perché parte dei suoi abitanti è dislocata nei paesini attorno al centro. L’etimologia del nome ‘Cava’, deriva dal termine cavea, ossia ‘antico anfiteatro’, che allude alla vallata circondata dai monti. La seconda parte de’ Tirreni rimanda, invece, al suo primo nucleo abitativo: i Tirreni, un popolo di origine etrusca. La storia della città è ricca di fascino e di echi mistici, che rimandano all’immagine di un luogo soprannaturale. 

Pare, infatti, che in passato, essa sia stata scelta come meta da un nucleo di monaci eremiti proprio per la sua posizione appartata, ideale per poter ritrovare se stessi e la propria dimensione dedicandosi alla contemplazione ed alla preghiera. Per un fine analogo fu costruita, nel XI secolo, l’antica Abbazia benedettina della Santissima Trinità, consacrata, poi, da Papa Urbano II nel 1092. Cava, come numerose altre città italiane, fu bombardata durante la seconda guerra mondiale e successivamente ricostruita.

Borgo Scacciaventi
Borgo Scacciaventi

La nostra passeggiata ha avuto inizio dal Borgo Scacciaventi, un vero gioiello, nonché una delle più belle attrazioni della città. Esso si offre agli occhi con i suoi caratteristici portici che ornano gli antichi palazzi edificati sulle arcate,  ripercorrendo ognuno la storia del luogo. L’intero percorso porticato offre negozi e botteghe, tanto da costituire un centro commerciale all’aperto. Lo scenario dei portici è ancora più suggestivo all’imbrunire, quando le luminarie gli donano un aspetto quasi magico.

Passeggiando ci siamo imbattuti, poi, nel Complesso Monumentale di San Giovanni Battista, un vecchio monastero distrutto dal terremoto dell’ ’80 e totalmente ristrutturato, oggi sede di mostre ed esposizioni. L’illuminazione serale è stata, a sua volta, studiata per rimandare al suo carattere ieratico e di meditazione.

Santuario di San Francesco e Sant’Antonio
Cripta del santuario di San Francesco e Sant'Antonio

Tra le varie bellezze della città, c’è sicuramente il maestoso santuario dedicato a San Francesco e Sant’Antonio, situato nella piazza principale, che ogni anno diventa mèta di migliaia di pellegrini che provengono da tutta Italia. Si tratta di una chiesa del 1500 ricostruita su tre livelli dopo il terremoto dell’Irpinia e famosa per la cerimonia che si svolge ogni 13 del mese: il Botafumeiro, l’incensiere più grande d’Europa con un peso di oltre 70 kg. Al termine della cerimonia viene fatto oscillare per ben tre volte lungo la navata centrale. Altrettanto emozionante è stato ascoltare la messa e le lodi dei monaci francescani. Non bisogna dimenticare, poi, la cripta sotterranea ricca di reliquie ed il presepe monumentale, l’unico in tutta Italia costruito su 1000 m².

Insomma, con i suoi portici, le sue chiese, i suoi scenari naturali e le sue botteghe ricchi di sapori e tradizioni, Cava è una città tutta da scoprire.

Montesarchio-La nuova Caudium

Montesarchio per me era solo un borgo della valle caudina, ma Carla e Mario, con il loro entusiasmo e la loro passione per i borghi, ci affascinarono fino al punto di “calendarizzare” questa meta.

Era una domenica pomeriggio di pieno inverno, decidemmo, nonostante il tempo non proprio favorevole, di andare alla scoperta di questo nuovo paese del beneventano, ai piedi del monte Taburno.

Da lontano era già ben visibile la parte alta del borgo, la collina, sulla quale dominano maestosi la torre e il vicino castello.

Arrivati sopra la collina ci dirigemmo subito verso la torre dove fummo accolti da guide volontarie. La torre è costituita da due corpi cilindrici, rimaneggiata nel corso della storia dai vari conquistatori che si sono susseguiti. Le origini risalgono al VII secolo, quando era costituita solo dal corpo centrale, realizzato come torre di avvistamento, per necessità belliche contro l’esercito di Carlo Magno. Altre modifiche hanno interessato la torre nel tempo, cambiamenti che l’hanno vista ampliarsi per renderla più efficiente nell’utilizzo dell’artiglieria da guerra: infatti sono ancora oggi ben visibili le aperture sui due cilindri. Le ultime modifiche risalgono invece all’epoca borbonica, che vede la torre diventare un carcere politico, che ha avuto come prigioniero il patriota Carlo Poerio. Proprio da quella che fu la sua cella si può godere di una vista mozzafiato del monte Taburno e dell’intera vallata.

Vista panoramica

Purtroppo uscimmo dalla torre con un briciolo di rammarico per non aver visto il cratere di Assteas, il ratto di Europa, definito il cratere più bello del mondo, momentaneamente non esposto nella torre.

Ci dirigemmo poi al vicino castello dove è situato, al primo piano il Museo Archeologico del Sannio Caudino, che ospita numerosi ritrovamenti archeologici della valle Caudina.

Ciò che cattura l’attenzione sono i meravigliosi crateri che Il museo ospita, vasi rinvenuti nelle tombe risalenti al V e IV secolo a.C. oltre ai numerosi corredi funerari esposti.

I crateri
Rosso immaginario

Molto divertenti e simpatiche sono le didascalie colorate dedicate ai più piccoli, che attirano sicuramente la loro attenzione.

Continuando la nostra visita all’interno del museo arrivammo alla mostra ‘‘rosso immaginario’’, una splendida installazione multimediale che racconta dei crateri rinvenuti a Montesarchio.

La mostra ‘‘rosso immaginario’’ viene svolta nelle celle del carcere borbonico del castello, entrando nella prima cella, uno spazio piccolo e intimo, troviamo una parete di vetro oltre il quale sono collocati più crateri. Poi arriva la sorpresa, i vasi prendono vita e una voce narrante ci porta a rivivere la mitologia greca, facendoci immergere nei sentimenti e nelle emozioni delle divinità greche!

Le installazioni raccontano i vasi, raccontano le immagini su di essi raffigurate, dandogli vita, catapultando lo spettatore nelle storie dei singoli crateri, che prendono vita in proiezioni di immagini animate, che ti catturano e ti catapultano nella narrazione!

In serata, nonostante l’ora tarda, decidemmo di fare un giro nel centro storico. Giungemmo nella piazza principale, Piazza Umberto I, dove è situata la fontana dell’Ercole, in stile barocco, dove appunto emerge la figura di Ercole guerriero. Passeggiando per le stradine tranquille del centro giungemmo alla Chiesa di San Francesco, con la sua porta di legno intarsiata con le scene di vita di san Francesco, la cui facciata è attribuita a Luigi Vanvitelli. Accanto alla chiesa sorge il Convento di San Francesco, oggi sede del Comune di Montesarchio.

La fontana dell'Ercole
La chiesa di San Francesco
Il convento

Ci spingemmo poi a percorrere le stradine silenziose e isolate fino a giungere ad una scalinata di larghi gradini, che ci avrebbe portato nella parte più alta e suggestiva della città.

Di fronte alla lunga e larga scalinata, con la consapevolezza che troppe cose ci saremmo persi, decidemmo di rincasare, ma con la promessa di ritornare a goderci pienamente quel borgo ricco e silenzioso in una splendida e lunga giornata.

Valogno – Il borgo dei murales

Fino a pochi mesi fa non ero purtroppo mai stata a Valogno e non ne avevo mai sentito parlare. E forse non è un destino così insolito per un piccolo borgo, arroccato tra le alture dell’Alto-Casertano, frazione del comune di Sessa Aurunca, un paesino abitato da meno di cento persone, lontano dalle mode e dalla grande distribuzione, privo di bar, farmacie, supermercati o locali tipici della movida ma dotato del bene più prezioso, la bellezza di un’anima unica e variopinta e un’incredibile storia che dal passato ritorna a essere coniugata al presente.

LA SCOPERTA – La prima volta in cui ho sentito parlare di Valogno, mi è stato menzionato in relazione a una mia grande passione, quella per la street art e i murales. Mi fu detto che non era necessario percorrere km per affollare grandi e famose città italiane o europee alla ricerca dei graffiti degli street artist locali e internazionali perché, a distanza di pochi km da casa mia, nel cuore della Campania, c’era un gioiello, un intero paese i cui muri erano stati inondati dai colori di più di 40 murales di vari maestri, chiamati a dipingere le facciate grigie delle case del borgo, per farlo rivivere con nuovi e vivaci colori, ma io direi anche con nuove direzioni del corso della sua storia.

Valogno Borgo d'arte
Mastu Felice
Il pensatoio

LA STORIA DI GIOVANNI E DORA – Spinta dalla curiosità e dalle bellissime foto mostratemi, ho iniziato a informarmi sulle note caratteristiche, sulle particolari vicende di Valogno e sulle intuizioni geniali di Giovanni Casale e Dora Mesolella, una coppia di persone meravigliose che, ritornate nel borgo, in seguito a dolorose e intime situazioni familiari (dopo aver vissuto e lavorato, lui come psicologo e lei come addetta alle telecomunicazioni, per molti anni a Roma), proprio là, nel luogo natio della famiglia e simbolo del passato, hanno avuto lo sguardo lungimirante, l’approccio creativo e la determinazione forte di chi vuol affrontare la sofferenza con positività, coraggio ed energia e di chi non vuol vedere il proprio paese d’origine abbandonato, vuoto, spento, trasformato dalle terribili colate di intonaco grigio degli Anni Ottanta, atte a seppellire l’identità preziosa dell’antica Valogno, all’epoca felice espressione della tipica fisionomia dei borghi emergenti dal tufo vulcanico.

Per combattere il grigio dei nuovi interventi edilizi che coprivano e incupivano l’aspetto medievale di Valogno e arrestare l’abbandono del paese, a causa del disinteresse e della necessità di sostentamento da parte delle nuove generazioni, costrette ad andar via per la mancanza di lavoro e prospettive, Giovanni e Dora hanno fondato l’associazione no profit “Valogno Borgo d’arte” e chiamato a raccolta artisti locali e altri conosciuti a Roma e in varie parti d’Italia, invitandoli a “colorare il grigio” e a riportare gioia, luce e vitalità nel borgo. E in questo modo hanno dato avvio a una nuova stagione della vita di questo piccolo e incantevole paradiso, che ha iniziato lentamente a rinascere e attirare alcuni turisti incuriositi dai graffiti che si moltiplicano nel tempo.

Borgonauti con Giovanni Casale
La casa di Giovanni e Dora

LA PRIMA VISITA – Pur sapendo tutto ciò, solo quando sono giunta a destinazione ed entrata nel paese, ho davvero compreso l’unicità di questo luogo, che è diventato subito un posto per me speciale, in cui tornare sempre per respirare ogni volta la magia di un’atmosfera sospesa nel tempo che ti circonda, coinvolge e rapisce, proiettandoti in un universo di antico e presente, fiaba e mito, colori e profumi, stradine lastricate e tetti a spiovente, arcate e scalini, gatti e fioriere, senza trascurare i suoi meravigliosi abitanti.

Mentre, infatti, si percorrono i vicoli stretti di Valogno, sentendo i rintocchi delle campane delle tre chiese del borgo, costeggiando e ammirando i magnifici murales che accompagnano i visitatori sin dall’ingresso del paese, ripopolandolo con le immagini di figure mitiche, eroi e briganti, protagonisti del Risorgimento e rappresentanti di arti e mestieri, donne famose d’arte e letteratura come Frida Kahlo o Matilde Serao, scene desunte da favole d’ogni tipo, alberi della vita e pensatoi, si ha la possibilità di conoscere il vero valore aggiunto del borgo: quegli abitanti che non lo hanno mai abbandonato, che ti aprono le porte delle loro case, invitandoti a entrare e a condividere la loro storia, gli angoli delle proprie case, i giardini, l’orto e, perché no, anche un caffè e delle bottiglie di ottimo vino fatto in loco.

IL CUORE DI VALOGNO: I SUOI ABITANTI – E così, insieme ai borgonauti con cui ho assaporato questa prima fantastica visita a Valogno, in una bella e tiepida giornata di inizio autunno, sono entrata nella casa di Pietro che ci ha mostrato la sua “tana” con i soffitti d’epoca ricoperti di carta da parato intervallata da stampe di antichi quotidiani, cucina in muratura con gli utensili di un tempo e la bellissima cantina dove abbiamo ammirato i mosti di vino a fermentare e le bottiglie di vino bianco e rosso da lui amorevolmente riempite e a noi donate; abbiamo poi visitato il Giardino dell’Eden, situato a ridosso di una delle prime case all’ingresso del paese, e conosciuto Luigi, il mitico proprietario e ideatore di questo straordinario e inconsueto giardino artistico, che si estende dal cancello fino al patio e giù per la discesa verso le coltivazioni della vallata, decorato interamente da conchiglie, raccolte sul litorale romano di Ostia durante tutte le estati degli ultimi decenni e riutilizzate per creare stupefacenti mosaici, iscrizioni, pareti e pannelli d’arte avvolti dalla vegetazione, su cui batte la luce a campo aperto e da cui traspira la cura infinita di un uomo per il suo piccolo tempio, costruito, centimetro dopo centimetro, con minuzia “maniacale”, secondo i divertenti racconti della moglie spifferati dal balcone, ma soprattutto con creatività, amore e ammirevole dedizione.

I PRANZI CONDIVISI E LO SGUARDO AL FUTURO – Impossibile non sentirsi a casa a Valogno, non andar via col desiderio di avere un piccolo rifugio su quell’altura e, se è vero che non ci sono al momento bar, è altrettanto vero che è possibile comunque condividere dei pasti in compagnia grazie a una delle tante iniziative di Giovanni e Dora che, per continuare a contribuire al risveglio del borgo, al finanziamento dei murales e alla sostenibilità delle varie opere messe in atto o progettate, hanno creato i “pranzi condivisi”. Con una cifra davvero modesta (tra i  15,00 € e i 20,00 € in base al menù) si ha l’occasione di pranzare insieme a casa loro, una splendida casetta nel cuore di Valogno, sede anche dell’associazione, coloratissima, con arredo rustico e camino, aperta dai suoi proprietari a chiunque abbia voglia, come abbiamo fatto noi, di entrare e ascoltare la loro storia, condividere il fermento delle loro idee e imparare una grande e semplice lezione di vita: a volte bisogna solo saper immaginare!

Il Giardino dell'Eden - Vista dall'alto