Categoria: Vicoli e segreti
Capua è una bella donna
Casilinum, porto fluviale dell’antichissima Capua (IX sec. a. C. – Santa Maria Capua Vetere) è protetto dal geloso fiume Volturno, l’antico e irruento fiume che deve il suo nome a una dea etrusca, Voltumna, la portatrice del vento di scirocco; ed è sorvegliato dal monte Tifata, lì dove il geniale Annibale sacrificò alla dea Diana tifatina un elefante per propiziare la guerra contro l’Urbe. Ebbene, a sconfiggere il cartaginese furono proprio quelle messi, che con la loro abbondanza rammollirono la grandiosa macchina bellica africana.
Appena vedi Capua capisci che la sua essenza è femminile: già la sagoma lo è, con le meravigliose cupole che invadono lo sguardo sia provenendo da Aversa che da Treflisco. È una donna misteriosa, piena di angoli mai pienamente compresi, ed è per questo che continuo a corteggiarla, cercandone la strada più intima. Il suo tessuto urbano, che si mostra lineare e chiaro, ti porta a dubitare sempre se quella strada sia stata già percorsa, in uno smarrimento tra bellezza, complessità… silenzi.
In realtà, la Campania stessa è un mondo femminile e Capua n’è la figlia prediletta e dimenticata, ha il profumo fluviale della fertilità limosa, nonostante sia violentata dalle vicende umane (fin) troppo umane, sotto i bracieri dell’ignoranza e dei roghi dei soldi facili; è una terra che di notte è piena di fiamme e odori innaturali, infernali, eppure al risveglio ti riconquista sempre (nonostante l’incubo).
L’attuale Capua è figlia del Fiume, il più grande e lungo del Sud, che l’abbraccia su d’un fianco e la protegge dal nord: pertanto, gli uomini, per non essere meno galanti e gelosi, l’hanno collegata e corteggiata con due antiche strade, l’Appia (Regina viarum) e la Casilina… forse per raggiungerla celermente o per amarla di sfuggita o semplicemente per ritornarci sempre. Essa ha il dono di essere l’ombelico dell’Italia intera.

Capua è emozionante… mio padre vi ha lavorato per anni portandomi a visitarla nei pomeriggi dopo il lavoro, spiegandomi quanta storia potesse essere racchiusa in un rettangolo; mio padre sapeva rendere la storia geometrica e la geometria carica di bellezza. Ricca di monumenti e vicoli misteriosi, la città ha una composta consistenza di mito, sogno e luce… ma è l’ombra il suo sfondo! Capua fu Principato longobardo (Landone, i Pandolfo) conquistata dai vicini normanni della contea di Aversa (Riccardo I) e inglobata nel primo grande regno d’Italia, quello normanno degli Altavilla: qui venne incoronato Federico I d’Aragona, fu la città dell’impavido Ettore Fieramosca, del grande Pier delle Vigne, venne offesa col saccheggio dal Borgia, protetta con le sublimi fortificazioni prima normanno-sveve (Torri di Federico II, Castello delle Pietre) e poi asburgico-spagnole (Castello di Carlo V con fortificazioni spettacolari)… quanta storia vive in questa sonnacchiosa città. È l’antica città del Placito capuano e di Pulcinella, quest’ultimo simpatico oggetto di sfida con l’altra città di origine etrusca, Acerra, per la nascita della maschera più complessa d’Italia e con l’osca Atella… ma è qui che rivive ogni anno il più antico Carnevale della Campania.
La scelta di scoprire Capua avvenne sempre nelle famigerate discussioni nella scuola della provincia napoletana, tra una chiacchiera, un panino, e un’insalata di patate, durante la pausa-pranzo nella quale nasce il sogno borgonauta, quello di renderci visitatori particolari di luoghi e di comunità, ricamatori di legami spezzati, contro il pregiudizio che i posti più belli siano solo quelli già resi noti dall’industria del turismo o delle sagre. Dopo aver combattuto con Flora per chi dovesse parlare di più, litigato con Carla per chi dovesse mangiare l’ultimo cioccolatino, aver visto l’insofferenza di Marica col suo sbattere di ciglia, parlato con Daniela delle doti enologiche del padre, dialogato con Giuseppe sulle potenzialità culinarie della Pianura campana, parlato di essenze della meraviglia con Ilaria e collegato Pier delle Vigne sia con il padre di Daniela che con la passione di Delia per i versi del divin poeta… decidemmo! E Capua fu.

Questa città è un concentrato di monumenti di fattura pregevole, è un turbinio di epoche. Scegliemmo di seguire il percorso che ci avrebbe portato alla scoperta dell’anima longobarda della città e fummo fortunati, nonostante il tempo birichino e lunatico; avemmo la possibilità di essere guidati dai due angeli-guida (Pro loco e Touring club) di Capua che vennero in nostro soccorso con tutta la simpatia e professionalità di chi sa amare la propria storia… fu una scoperta incredibile!
I Longobardi, misterioso popolo proveniente dalla Pannonia, portarono non solo il famigerato Caciocavallo e la Podolica (antica razza bovina che sopravvive in alcune zone del Sud Italia dal Molise alla Calabria) – alcuni sostengono anche le bufale – ma anche un culto molto particolare, quello del dio guerriero Odino che furbamente, per esigenze di conversione al cristianesimo dopo un originario paganesimo, collegarono all’Arcangelo Michele il paladino di Dio. Il culto micaelico di origine bizantina divenne forte coesione nel Sud Italia per il popolo germanico, che disseminò santuari, dedicati al Principe degli angeli, nelle grotte e sulle vette dei monti, ma anche nelle loro città principali tra cui Capua. Tutto torna: Michele era il nome di mio padre, anche lui mi sta guidando in questa riscoperta!
Grazie alle guide riuscimmo a vedere alcune delle chiese longobarde che difficilmente avremmo trovato aperte: infatti sarebbe sempre consigliabile contattare le associazioni operanti in città, perché Capua è difficile da visitare, è donna!
Partendo da Piazza dei Giudici, anch’essa magnifica con il Palazzo del Governatore (particolari degni di nota sono le teste di spoglio incastonate, prelevate dall’Anfiteatro di Capua antica, S.P.Q.C) e il Palazzo della Gran Guardia (Bivach) sede della Pro loco, ci addentrammo alla scoperta, dopo esserci proiettati su un’ottima cartina fornitaci da uno degli angeli delle visite il quale ci annunciò la meraviglia, pillole di mondi incredibili, pochi elementi che portano alla grandezza passata di questo luogo, tramite un itinerario alto-medievale, culminato nell’altezza scenografica del barocco. Un imprevisto ci colse: incontrammo un nobile saggio innamorato della sua città, che con la dolcezza di chi l’ha amata da anni ne descriveva l’eternità, con cui, rincalzato dalle mie impertinenti domande campanilistiche, nacque un duello all’ultimo sangue tra Aversa e Capua… ma a vincere questa volta fu la consapevolezza che in pochi chilometri si racchiude un patrimonio artistico sublime, purtroppo fruito in modo superficiale. Quel simpatico vecchietto ci ha insegnato tanto, perché ci ha mostrato quell’amore che spesso dimentichiamo per i nostri luoghi, città, borghi, frazioni ecc.


Arrivati alla prima Chiesa di San Salvatore a Corte (X sec. d.C.), sede del Touring club, ci attende Mario, uno degli angeli, che subito ci mostra i tratti salienti di questa bellissima struttura con le particolarità longobarde, come le colonne semincassate e i capitelli del portico (nartece), elementi che avremmo ritrovato nella seconda delle chiese denominate a “corte”, ma anche due bassorilievi raffiguranti un leone e due grifoni. La chiesa è composta da tre navate e da un bellissimo campanile romanico. Un’altra nota caratteristica è che per accedervi si scende tramite una pedana: infatti la chiesa si trova sotto il livello stradale, perché vi furono innumerevoli modifiche già in epoca normanno-sveva. Si narra che questa fosse una cappella privata dove Adelgrima dopo la morte di suo marito, il barbuto gastaldo Landenolfo, ricordasse e pregasse per l’anima guerriera del marito, scegliendo tra Odino e il Valhalla San Michele e il Paradiso….


Dopo queste leggere interpretazioni, del tutto fantasiose e arbitrarie, con il prode Mario partimmo verso la seconda chiesa ad curtim quella di San Michele (X sec. d.C.); arrivati sul posto, appena i giri della chiave avevano terminato il tintinnio e una goccia di pioggia era caduta sul vetro degli occhiali, ecco una vocina antica che ci richiama sulle scale… Era ancora il simpatico vecchietto che aggiungeva ai precedenti racconti altre strepitose gesta del popolo capuano, dal campo artistico a quello militare, soffermandosi anche su quello culinario, citandoci il famoso carciofo Capuanello e l’oliva Corniola coltivata nei pressi del Tifata, che aveva la forma dei corni suonati dagli uomini del nord nell’adunata per invadere queste fertili pianure. Sopraggiunse la telefonata della moglie del nostro simpatico capuano, a cui la donna ricordò che era pronto e lo attendevano per il pranzo domenicale.
Finalmente entrammo: San Michele era lì di fronte a noi, elegante e fiero mentre schiaccia il serpente che divide. La sua luce ci mostrava come ci fosse un luogo buio non solo nella guerra celeste, ma anche in questa bella chiesetta; essa infatti è dotata di una cripta a cui si accede da due scale simmetriche posizionate a ridosso dell’abside. La cripta con la sua umidità storica è interessante anche per le tipiche colonne. La cappella denota per di più una forte influenza bizantina, non solo per il culto dell’Arcangelo, ma soprattutto per gli eleganti capitelli sempre di fattura longobarda. Anche questa chiesa era in origine una cappella privata, quella dei Principi di Capua e, probabilmente, era direttamente collegata al Palazzo della residenza principesca con un cavalcavia. Purtroppo, non riuscimmo a vedere la terza delle chiese ad curtim, quella di San Giovanni.




Ebbene, Mario aveva l’asso nella manica: ci portò nella Chiesa dei Santi Rufo e Carponio, d’impianto longobardo, che fu edificata nel 1053 e poi ristrutturata in epoca romancia dopo la concessione ai benedettini di Montecassino. Caratteristiche peculiari sono l’abside che chiude la navata centrale con un arco trionfale e presenta nella struttura sedici nicchie, ricavate nel 1646 per custodire le reliquie dei Santi ritrovate sotto l’altare maggiore. Suggestive anche le belle colonne di spoglio, ma ancor di più il sarcofago di epoca romana posto come altare della struttura.
Un’altra chiesetta dimenticata, sempre di origine longobarda, completamente infestata dall’odore acre dell’urina, ma anche dalla solitudine, è quella di Sant’Angelo in Audoladis, sempre chiusa, ma eccezionalmente fascinosa… gli Audoladi la fondarono dedicandola a San Michele, come riporta un’iscrizione del portale: anche qui emerge il contributo dei materiali di origine romana come ottimi strumenti di riutilizzo… il passato ha sempre sostenuto l’incerto futuro.


Questa fu l’ultima tappa sotto la supervisione di Mario, che ringraziamo in modo particolare per la pazienza e per le dritte che ci ha concesso! Ad attenderci di nuovo nella Piazza dei Giudici c’era il nostro precursore e cartografo, Giuseppe Netti, membro della Pro loco, il quale attento cultore e appassionato del barocco napoletano ci aveva dato appuntamento verso mezzogiorno. Ci regalò una bellissima chicca e sinceramente era la prima volta che avevo piacere di visitare una tale gioiello: la Chiesa della Carità (1697). Di impianto prevalentemente settecentesco, appena entrati, la luce del barocco lasciò ben presto lo spazio al buio della scala a chioccia che portava sul terrazzo, imprevisto… alla fine della scala era presente una campana che portò quasi tutti a farsi una foto o a volerla suonare…
Appena raggiunta la vetta notammo, dopo le indicazioni sublimi di Giuseppe, il tiburio che accoglie la cupola che è davvero qualcosa di particolarissimo, ma che soprattutto ci guidò da lì nello spettacolo di Capua vista dalla tribuna principale non pagante… una bellezza eterna, feconda. Era tutto lì alla portata del nostro sguardo, il Tifata, la bellissima Annunziata, il Castello delle Pietre normanno con i suoi merli ghibellini ma non medievali… il Duomo in cui riposa un Cristo sempre nella madre terra… le decine di cupole morbide come la prospera Mater Matuta… e ancora Mario che non ci ha mai abbandonato!





Lo spettacolo era lì e fummo spettatori privilegiati almeno per un giorno. Perché rendere così silenzioso un posto come questo, dove la vita sarebbe sostenuta dalla bellezza? Mi ricordo quando con Carla una sera d’estate, mentre passeggiavamo per le misteriose strade di Capua, chiedemmo un consiglio culinario al Sig. Gennaro e, dopo averlo ricevuto, domandammo perché Capua fosse così silenziosamente dimenticata… Lui rispose che «i capuani erano invaghiti di un ozio di cittadinanza (lontano dall’otium latino) che ha chiuso molti luoghi alla partecipazione, un torpore che li allontana sempre di più dalla responsabilità della vita cittadina e rende la città dormiente o affollata solo per negotium, nascosta al mondo intero per paura di non aver più la forza di quel passato che l’ha resa grande».
Poi aggiunse che «la storia era il problema…se uno non conosce la storia, il passato non ha senso per la vita e tutto diventa moderno, luccicante e confortevole, un’illusione insomma […] i ragazzi seguono luci sbagliate e tutto diventa ombra. I giovani sono sempre meno perché accecati dalle sirene dei grandi raduni, come se la felicità potesse essere raggiunta solo nella confusione, nello stordirsi, ma a Capua qualcosa sopravvive e la sorregge». Insomma, Capua è una bella donna, abbandonata!
Benevento, la città delle streghe
Per chi a Benevento mai è stato perché le janare non vuole incontrare, sveliamo un trucco per poterle ingannare!
Benevento è una città carica di storia e ogni epoca che l’ha attraversata ha lasciato il proprio segno di riconoscimento a memoria di un passato fiero come i Sanniti, imperiale come i Romani, pagano come i Longobardi.
Se pensiamo al presente di Benevento, sicuramente il ricordo che lascerà al futuro è quello di una città lontana dalla cronaca sulla criminalità o sui rifiuti che quotidianamente ferisce il popolo campano. Benevento è infatti tranquilla, ordinata, pulita, distaccata dal caos caratteristico delle città del Sud. Anche il clima sembra fare la sua parte con inverni più rigidi e stagioni non sempre mediterranee.
Ma se infine pensiamo a Benevento in un tempo indefinito, l’immagine che abbiamo è di una città con una identità solida e insolita che abbonda di misteri e leggende, streghe e riti di magia, miti dal fascino senza tempo.
Benevento offre molto ai turisti appassionati di storia, arte e architettura oppure presi dalla voglia di passeggiare per spazi verdi o ancora incuriositi dai prodotti gastronomici. È ricca di monumenti e luoghi di interesse ma come ogni grande città, il tempo non è mai abbastanza per scrutare tutti i suoi angoli e conoscerla tutta, nella propria personale bellezza.

La passeggiata insieme ai Borgonauti è stata simpatica e suggestiva: abbiamo scelto per questa nostra prima visita di vederci chiaro sulla questione delle Streghe di Benevento. Ci siamo quindi recati al museo Janua dove la guida e il viaggio multimediale ci hanno condotti nell’incredibile mondo delle janare, le streghe così chiamate nell’Italia meridionale.
Era domenica, ma appena arrivati siamo misteriosamente tornati indietro di un giorno. Sì, perché a Benevento è sempre sabato quando le janare, impegnate nel rito del Sabba, si tengono lontane dalle faccende umane. Ci è stato poi svelato un piccolo trucco per metterci al riparo dai malefici di queste streghe dispettose e cioè: ogni qual volta si pronuncia la parola “janara” bisogna incrociare le gambe e ripetere “oggi è sabato”!
Divertiti da questo aneddoto ma anche suggestionati dalla possibilità di poter realmente incrociare queste donne dai poteri magici, abbiamo trascorso parte della giornata a compiere questa pratica superstiziosa.
La guida, beneventana doc, è stata molto carina e paziente ad accogliere le nostre domande, a volte indiscrete, nella speranza di farci confessare qualche formula magica. Ma niente da fare: queste vanno tramandate solamente nella notte di Natale, bisbigliate nell’orecchio della futura custode di questo patrimonio straordinario.
La visita al museo è stata davvero piacevole e affascinante, merito anche di un’ottima scenografia. C’è infatti una sala dove è stato riprodotto il famoso “Nocio e Beneviente” con riproduzioni multimediali che avvolgono totalmente il visitatore e lo trascinano lungo le sponde del fiume Sabato, in quel luogo segreto, da sempre non identificato dove le streghe di varia provenienza si riuniscono per celebrare la cerimonia del Sabba nella quale si compiono pratiche eretiche.
Per raggiungere l’albero di noce la janara esce di notte, si infiltra nelle stalle per rapire un cavallo e, veloce nel percorrere lunghe distanze e ritornare con le prime luci del sole senza essere smascherata, cavalca sfrenata per tutta la notte. La mattina seguente il cavallo, sfinito per la fatica immane e con la criniera aggrovigliata dal vento durante la cavalcata, lascia un chiaro segno della presenza della janara.



Secondo le credenze popolari la strega beneventana, contrariamente alla più generica figura della strega, può essere una donna dai tratti tipicamente umani, quindi insospettabile che solo di notte fa emergere la sua vera natura. È una donna esperta di erbe, non è malvagia ma può divertirsi a lanciare malocchi a sue possibili rivali oppure durante la notte tramutandosi in vento o in gatto striscia sotto le porte e si accomoda sul petto degli uomini provocando nel sonno una sensazione di soffocamento.
C’è poi un’altra area del museo adibita con i “ferri” del mestiere di queste sapienti donne come erbe medicinali, bastoni dai poteri magici, amuleti, ex-voto e libri scritti in lingue incomprensibili fatte di simboli e figure oscure.
Tante altre curiosità abbiamo scoperto durante questa visita come quelle della notte di san Giovanni quando per tradizione si stende la biancheria al cielo per raccogliere la rugiada miracolosa o ancora, sempre nella stessa notte rituali legati all’amore delle giovani ragazze. Si crede infatti che sciogliendo pezzetti di piombo in acqua, quando poi si vanno a solidificare restituiscono una forma che suggerisce il mestiere del futuro marito.
Insomma, Benevento oltre ad avere tutte quelle qualità e caratteristiche che ne fanno una città moderna, pronta ad ospitare turisti da ogni luogo e generazione conserva un patrimonio di riti e tradizioni che la rendono unica.



Avrò mai conosciuto Aversa?
Ho conosciuto Aversa, nonostante ci sia nato e ci viva, molto tardi. La mia bella città la conobbi nella sua profonda intelaiatura grazie a una ragazza. È stato per conquistare lei, e rendermi in quel momento oggetto unico del suo interesse, se mi spinsi nelle viscere profonde, nelle vene, capillari esangui di questa, in parte, ripudiata città… che in primis fu un borgo.
Le volevo mostrare, essendo ella proveniente dal contado, qualcosa che fosse sfuggito al suo occhio vigile nelle passeggiate scolastiche/universitarie per Aversa. In questo modo, scoprii che il mio cuore era occupato nelle sue due parti, una per quella misteriosa signorina, e l’altra per la mia città, ma, in quei luoghi pieni di silenzio sentii la richiesta tacita di aiuto. Avete mai visto e ascoltato una città che ha dimenticato qualcosa di sé? Ed è la parte per cui essa è lì? Eppure, la cosa più vera era che non conoscevo nel profondo ciò in cui vivevo.
Aversa è stanziata tra due entità geografiche, quella della antica Liburia e dell’ampia zona metropolitana di Napoli, tale posizione la rende solo meta di passaggio e non di arrivo per la scoperta turistica della bellissima Campania. Un territorio di grande fertilità e di ingegno, da cui un’agricoltura festosa e florida, ha reso l’Agro aversano famoso in tutta Italia, la coltivazione di prodotti unici e rinomati da tutti i veri buongustai.
È da ricordare la coltivazione della Mela annurca, in passato della canapa, la torzella e soprattutto dell’Asprinio, antichissimo vitigno sopravvissuto alle difficoltà del tempo, ma non all’abbandono della terra, coltivazione che continua a lasciare tracce di sé nel comune con la sua necessaria e verticale salita verso il cielo, aiutato dai pioppi con cui ama sposarsi per secoli, formando la scultura della vite maritata o Alberata aversana, che può raggiungere ben oltre i dieci metri di altezza. Viene scalata (scalillo) e potata a sua volta dagli uomini ragno i quali permettono la formidabile e precisa ramificazione della tela vitata per catturare non gli insetti, ma il sole, in modo da rendere del colore della giada i grappoli più alti. Aspro n’è il sapore, giallo paglierino il colore, dissetante soprattutto nelle calure estive è un vitigno unico, che ha genetica simile al Greco di Tufo, di cui condivide la struttura ma non l’altezza nella coltivazione; il Greco, in verità, è l’Asprinio portato dalla famiglia Tufo in quei luoghi ricchi di zolfo, nobili aversani, i quali ebbero in epoca angioina feudi nella zona irpina, e come mi ricorda Salvatore, un grande conoscitore della storia aversana, per non sentirne nostalgia fecero arrivare barbatelle per riprodurne lo stesso vino in un territorio diverso. Asprinio che va di gran gusto abbinato con la Mozzarella di bufala aversana, il latte proveniente dalla zona dei Mazzoni, lì dove le bufale mediterranee trovano un habitat unico tra i Regi lagni, il Volturno e il mare, viene lavorato dai mastri casari donando giubilo con prodotti inimitabili, basti pensare anche ai meno famosi bocconcini con la panna di bufala, un tempo conservati in otri di argilla e commercializzati a Napoli.


Altro vanto è la pasticceria: in questo ramo si ricordano la Polacca (sinfonia di crema e amarena), di cui si presume sia commercializzata nelle pasticcerie dopo il furto della ricetta dal convento delle Cappuccinelle, dove una suora di origine polacca deliziava le sue consorelle, ancora avvezze ai piaceri del palato. Per non parlare poi della Pietra di San Girolamo… e dei Pasticciotti di San Paolo (simili a quelli leccesi), della Melacca (crema e mela annurca)… Per i primi il famigerato Scarpariello piatto povero dei calzolai cucinato nei bassi del quartiere spagnolo del Limitone… lì dove poi nacque la grande piccola industria calzaturiera di Aversa.
Parlare della mia città in maniera dotta sarebbe per me riduttivo, per tale interesse rimando ai brillanti studi sulla storia e sul patrimonio artistico monumentale di Alfonso Gallo e Aldo Cecere, e alla miriade di siti che nella rete raccontano la città dalle cento chiese. Questo pensiero nasce da una sfera affettiva, sentimento acuito con gli anni come ambasciatore (onorario) di Aversa nel mondo, titolo conquistato sul campo. Ricordo quando due anni or sono ho iniziato a insegnare in una scuola della provincia napoletana: accadeva che durante l’ora di pranzo, prima del turno pomeridiano, imbastissi forti e conflittuali tafferugli storico-culinari con i colleghi provenienti da altre lande della Campania. Le guerre, come ben sappiamo, nonostante le vittime, possono farci gustare il sapore della vittoria, un bellum culturale. Dopo mesi di assalti al campanilismo trincerato di ogni collega, riuscimmo a organizzare una passeggiata per Aversa, avevano firmato l’armistizio, bisognava portarli alla resa, e ciò poteva accadere solo con le armi della mia alleata città.
Questa passeggiata ebbe inizio da Porta Napoli, sotto all’arco un’epigrafe ricorda la fondazione della contea nel 1030 con l’atto di donazione di Sergio IV duca bizantino di Napoli al normanno Rainulfo Drengot (confermato nel 1037 dall’imperatore Corrado II il salico) per i servigi militari resi contro l’espansionismo longobardo del Principe di Capua Pandolfo IV, da quella data, Aversa divenne la prima Contea normanna in Italia e forse del mediterraneo. I Normanni o Vichinghi erano abili guerrieri, ma anche sagaci negoziatori al punto che riuscirono ad acquisire, alternandosi in alleanze dettate dall’opportunismo, vasti possedimenti, tra cui si annovera il ducato di Gaeta, territori di Alife e altri si ricordano in Puglia, ma la ciliegina sulla torta dei possedimenti conquistati fu il Principato di Capua, per opera del più fiero dei dodici conti che ressero le sorti della contea: Riccardo I di Aversa. Dopo questa piccolissima parentesi sulle origini medievali della contea, fatta anche perché altri studiosi la fanno risalire alla città etrusca di Velsu, ritorno al senso di questa passeggiata più che alla passeggiata storica stessa. L’intenzione è stata quella di rendere vivo quell’ordito urbano definito ad espansione biologica, da cui ha avuto origine una città. Ho cercato da cittadino di far ascoltare la profonda ammirazione e dolore, ai miei colleghi, nel vedere qualcosa di così unico lasciato lì tra silenzio e degrado. Oggi Aversa è spoglia, è affollata nelle strade nuove, ma quasi vuota nella parte più antica.
Il nostro gruppo si è spinto proprio lì dove la fine del suono confuso della città, lascia il posto alle pietre vecchie di tufo consumate, smussate dall’incuria e dall’incedere del tempo chiedono ristoro, un ristoro che potrebbe essere semplicemente una foto, un ricordo, contro il decadere della pietra porosa a favore del cemento duttile.
Dopo aver parlato di normanni, angioini, spagnoli, austriaci, Borbone, francesi, italiani… di Rainulfo, Riccardo I, Giovanna la Pazza, Ladislao, Carlo V, Guitmondo, Cimarosa e Iommelli, San Paolo, ecc… tutti legati a loro volta ad Aversa, raggiungemmo il punto di arrivo del viaggio, che racchiude il messaggio nascosto della ricerca e riscoperta dei borghi. Aversa è una città molto importante, ma la sua origine la deve a quel nucleo caduto nell’oblio, o nei racconti tramandati delle persone anziane, dai narratori dotti e non, che ancora ricordano le antiche consuetudini e festività, le ricette preparate tra quei vicoletti, le processioni lente e calde in quelle piazze nascoste e accoglienti…


Dicevo, raggiungemmo piazza San Domenico, esempio privilegiato di epoche storiche e così vicino sia al Duomo,(1053, da non perdere il Deambulatorio del 1030 con i costoloni delle volte a crociera, tra i primi dell’architettura romanica e gli Ebdomadari, il Cavaliere con drago entrambe di fattura normanna), che all’antico Castello normanno, localizzato anticamente nell’attuale settecentesco Seminario vescovile. La piazza è un vero gioiello, colorato nel suo insieme di edifici, bifore, portici e chiostri, con il bianco candido, lo scarlatto, il giallo oro e terra di Siena… terra toscana da cui son giunti qui pittori di scuola senese…tracce custodite nell’antico borgo dei pescatori dove la chiesa di Santa Maria a Piazza (la più antica) racchiude alcune opere.
Sempre nella piazza c’è uno degli antichi sedili medievali, quello di San Luigi, completamente ristrutturato, ma nonostante tutto completamente vuoto, proprio perché privo di quei nobili intenti antichi che vedeva reclamare diritti per la città. Al centro la bellissima Chiesa di San Domenico (1278), esempio unico ed eclettico di epoche disparate, sintesi perfetta di gotico e di barocco con la disposizione concava della facciata, elaborata dalla mano dell’architetto del papa Raguzzini nel 1742, che tanta scuola fece nei canoni architettonici del Settecento. Al coronamento della facciata, sopra la piazza silenziosa, osserva come un custode il santo re, Luigi IX di Francia, il re taumaturgo in grado di sconfiggere la scrofola con un solo tocco della mano… Crociato e uomo di valore, chissà cosa avrebbe pensato di questa piazza desertica, lui che era cinto dalle acclamazioni dei sudditi festanti nelle piazze del reame per la partenza verso l’Egitto. Ecco appunto questa piazza, organo non funzionante di questa città, borgo dimenticato come tanti altri nella mia amata Campania, orfani senza orfanotrofio, troppo piccoli e scomodi per essere abitati.


Eppure, in questa passeggiata mentre Flora parlava e bisbigliava, Carla ascoltava, Giuseppe pensava, Mena tremava, Laura brontolava, Rossella sognava, prima di tutto ciò, ci accorgemmo che nonostante l’abbandono, resiste la meraviglia della scoperta e la dolcezza del ricordo; in cui l’amicizia tra colleghi può ricordarci l’amicus (devoto) cittadino verso il suo borgo o città. Un ruolo privilegiato ha l’amicizia nel mondo.
Tra tante sconfitte bisogna ricordare un lieto fine, l’opera di un grande cittadino aversano, Pasquale che ha lottato con i Normans per il recupero della Chiesa di San Domenico, con tenacia e coraggio ha visto concretizzare una promessa fatta a uno zio defunto, quella di ridare vita a quell’antico quartiere con il richiamo sacro della messa e della bellezza in essa custodita, manca all’appello il recupero del Chiostro dei domenicani, ma so che anche questa vittoria sarà frutto dell’amore dei cittadini e non tarderà. Passando sotto l’antico palazzo Azzolini con il suo splendido arco gotico, e dopo aver litigato con uno dei proprietari del palazzo, riuscimmo ad avere un ricordo nostro in quel posto, una foto dove amicizia storia e bellezza verranno ricordati per molti anni a venire, e da lì ci siamo riconosciuti borgonauti.

