Incastonato tra le montagne dell’Aspromonte, in quella porzione di Calabria conosciuta come area grecanica, una zona incantevole e aspra situata all’estremità meridionale dello stivale della nostra Penisola, là dove il mar Tirreno incontra il Mar Jonio, si eleva il piccolo borgo di Pentedattilo, oggi frazione del comune di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria.
Sono giunta per la prima volta a Pentedattilo l’estate dello scorso anno, ad agosto 2021, sotto la guida di un amico originario di quella terra a volte dimenticata, custode di fili di tante storie. E quando mi sono trovata ai piedi del borgo mi sono tornate in mente le parole di un libro che indaga i silenzi parlanti dei luoghi abbandonati:
“Guardo le case[…] hanno le felci, le ortiche, i muschi da tutte le parti; hanno crepe che sono tutto sommato confortevoli. Forse un giorno cadranno, ma per il momento resistono […] L’abbandono ha livellato i destini, e ogni casa, ora ogni casa è un teatro, con le quinte in disfacimento, il palco che crepita sotto i passi, un teatro dove possono esibirsi anche quelli che una scena non l’hanno mai avuta. Ogni sera, ad un’ora imprecisata, possono ritrovarsi qui, con grande strepitio di vesti, come fossero attori bruciati, mimi, comparse, tutti un tempo respinti, tutti perciò falliti. Sotto la luce in disfazione, sotto la luce scoppiata, in un momento si ricreerà uno spazio in cui lieviteranno le nuove attese, e anche chi è rimasto sempre indietro finalmente arriverà, tutto trafelato” . (C. Pellegrino, Cade la terra, Giunti).
Durante tutta la visita una domanda non mi ha più lasciato: «Come può un paese vuoto avere così tanto da dirmi?».


LE COORDINATE SPAZIALI
Questo misterioso borgo, dal millenario fascino, sorge alle pendici del Monte Calvario, una parete rocciosa che, come racconta l’origine greca del suo nome, πέντε δάκτυλο- penta daktylos cioè cinque dita, ricorda un’enorme mano aperta, quella di un gigante – forse di un ciclope – disteso a guardare il mare.
Pentedattilo domina la Vallata Sant’Elia, dove lo sguardo non può non essere catturato dalle rocche arenarie di Santa Lena e di Prasterà, circondate da distese di ginestra, ulivi, e tanti fichi d’India. In diversi punti della Vallata ci sono anche tracce di antichi mulini a ruota greca, in passato alimentati dalle acque della fiumara Sant’Elia, preziosissimo bene per l’economia della vallata.
Ma ciò che ipnotizza non appena si giunge ai piedi del borgo è la maestosa rupe di arenaria che lo sovrasta.

LE COORDINATE STORICO-TEMPORALI
La storia del borgo probabilmente risale, anche se non se ne hanno testimonianze certe, alla Magna Grecia ed è collegata durante il periodo greco-romano, per molti secoli, alla sua cruciale funzione di snodo strategico di collegamento tra il mare, il polo di Reggio Calabria e l’Aspromonte. Le sue radici affondano nel terreno di una zona, quella reggina, che cercava di difendersi dalle incursioni dei Saraceni.
Ai tempi della dominazione dei Bizantini il borgo iniziò a vivere un lento declino, a causa dei numerosi saccheggi a opera dei Saraceni. Divenuto possedimento dei Normanni nel XII secolo, per concessione del Re normanno Ruggero d’Altavilla, fu trasformato in baronia e affidato al controllo degli Abenavoli Del Franco e, successivamente, alla famiglia reggina dei Francoperta. Quest’ultima lo cedette agli Alberti, che lo tennero, nonostante la tragedia della Strage degli Alberti, fino al 1760, anno in cui il Pentedattilo passò in mano ai Clemente e, quindi, ai Ramirez.
Nel 1783 il borgo fu colpito da un terribile terremoto, evento che portò al suo completo spopolamento. La popolazione iniziò a spostarsi verso Melito Porto Salvo fino al Risorgimento, spaventata dalle continue minacce di alluvioni e terremoti. Proprio per questo, il vecchio borgo ne divenne frazione nel 1811.
Considerato luogo impervio e difficile da abitare, il borgo viene ufficialmente abbandonato all’inizio degli anni Settanta, quando gli ultimi abitanti sono costretti a trasferirsi a valle per ragioni di sicurezza. Borgo fantasma… ma anche paese di fantasmi e leggende.


TRA STORIA, LEGGENDE E MISTERO: LA STRAGE DEGLI ALBERTI
Il mistero del borgo di Pentedattilo è collegato anche a una vicenda, al confine tra storia e leggenda, che fa parte del patrimonio e della memoria collettiva di questo luogo.
Per scoprirne le fila bisogna ritornare indietro di qualche secolo, precisamente a quando l’Italia meridionale era sotto il dominio spagnolo e Napoli ne era la capitale sotto la guida del Vicerè. Pentedattilo era feudo dei Baroni Abenavoli che dovettero subire un ridimensionamento del loro territorio, che si restrinse a Montebello Jonico e dintorni, mentre il nostro divenne feudo dei marchesi Alberti.
Strage per amore?
Tra le due famiglie non ci fu mai un buon rapporto. La cosiddetta scintilla che fece scoppiare un vero e proprio incendio fu accesa dal più classico dei motivi di ogni “tragedia” che si rispetti: l’amore conteso per una donna. Il barone Bernardino degli Abenavoli si era infatuato di Antonietta, sorella del giovane marchese Lorenzo Alberti. I due si sarebbero anche potuti sposare con un matrimonio nobiliare concordato tra casate ma invece accadde che Lorenzo Alberti sposò Caterina Cortez, figlia del viceré di Napoli e che, in occasione del matrimonio, il fratello della sposa, figlio del vicerè, Don Petrillo Cortez, si innamorò della, affascinante marchesina Antonietta Alberti e subito si programmò il matrimonio.
Si narra che la vigilia di Pasqua del 1686, il barone degli Abenavoli, venuto a conoscenza della cosa, tramite la complicità di un servo di casa Alberti, che gli avrebbe aperto le porte, si sia introdotto in piena notte nel castello degli Alberti con un seguito di circa 40 uomini, compiendo letteralmente una strage. Era il 16 Aprile. La follia omicida del barone non risparmiò nessuno degli Alberti, né Lorenzo né il fratello Simone, un bambino di appena nove anni. Solo la bella Antonietta venne risparmiata e condotta al castello di Montebello, insieme a Don Alberto Cortez, preso come ostaggio. Il 19 aprile Bernardino costrinse Antonietta a sposarlo. La notizia della strage solleticò il viceré di Napoli che ordinò una spedizione militare verso il castello degli Abenavoli. Don Petrillo venne liberato mentre alcuni autori della strage furono giustiziati e le loro teste mozzate furono appese ai merli del castello di Pentedattilo. Bernardo riuscì a fuggire insieme ad Antonietta, che entrò poi in un convento di clausura, e raggiunse Malta, dove dopo essersi arruolato nell’esercito, morì nell’estate del 1692.
Questa vicenda ha segnato profondamente l’immaginario e la storia del borgo: secondo alcuni, quando il vento si insinua tra le dita di roccia del gigante, si possono ancora udire i gemiti degli uccisi che ancora oggi chiedono vendetta.
Strage per un tesoro nascosto?
Un’altra leggenda giunta sino a noi grazie ai racconti popolari delle nonne narra di un tesoro nascosto, accumulato dai vari popoli che occuparono Pentedattilo, forse conservato e nascosto al centro della rupe. Proprio dopo la strage degli Alberti, avvenuta secondo questa altra versione della leggenda a causa di questo tesoro inestimabile, quest’ultimo venne inghiottito dalla montagna e nessuno riusciva a impossessarsene. Un giorno “un cavaliere fantasma” si manifestò a un contadino svelandogli una profezia che gli avrebbe permesso di recuperare il tesoro nascosto nelle dita della montagna: se fosse riuscito a percorrere, poggiando su un solo piede, cinque giri intorno alle cinque dita sarebbe riuscito a spezzare l’incantesimo e la montagna avrebbe restituito il tesoro.
La profezia si diffuse e in tanti cercarono invano di sfidare la montagna per riavere il tesoro. In molti pagarono con la vita la difficile sfida perché perdendo l’equilibrio, precipitavano tra le rocce. Un giorno arrivò un cavaliere dalla Sicilia per sfidare la montagna e spezzare l’incantesimo. A differenza di chi l’aveva preceduto, l’uomo riuscì nel suo intento e man mano che completava i primi 4 giri intorno alle dita della mano, la montagna iniziava ad aprirsi. Nel momento decisivo dell’ultimo giro, intorno al mignolo, il costone di roccia aprendosi, crollò addosso al cavaliere, uccidendolo. Secondo questa seconda versione della legenda quindi le urla che si odono nelle notti di forte vento, apparterrebbero alle anime sacrificate nel tentativo di liberare il tesoro dalle mani del diavolo di Pentedattilo.
L’aspetto del borgo arroccato e disabitato in effetti facilmente accende la fantasia soprattutto se si considera il fatto che il paese è rimasto pressoché inalterato, conservando un’aura di affascinante mistero.

IL BORGO FANTASMA
Il borgo è considerato fantasma in quanto è per gran parte disabitato (si dice sia abitato da una sola persona) a causa dei fenomeni migratori e delle continue minacce naturali che lo hanno interessato nel corso della sua lunga e leggendaria storia.
Da allora Pentedattilo è noto come il paese fantasma più suggestivo della costa calabrese, ma negli ultimi tempi, grazie al lavoro di associazioni e volontari del luogo, sta rifiorendo.
Il borgo è adesso un luogo aperto a chi lo voglia scoprire: molte delle antiche case in pietra formano un albergo diffuso, e tra le vie del paese, restaurate nel rispetto della tradizione, sono sorti il Museo delle tradizioni popolari e il Piccolo Museo del Bergamotto, il profumato agrume tipico di questi luoghi. Degno di nota è anche il castello, i cui resti dominano dall’alto.
PASSEGGIANDO PER LE VIE DEL BORGO
Le casette in pietra che spuntano fiancheggiate dai fichi sono diventate alloggi oppure ospitano piccole botteghe artigiane legate alla lavorazione del legno, della ceramica e del vetro, riscoprendo antiche tradizioni e riportando alla luce l’antica cultura della zona grecanica della Calabria, di cui Pentedattilo è un magnifico e prezioso esempio.



Sono tanti gli scorci sulla vallata, i gradini, le piante che sorgono spontanee tra i blocchi di pietra e man mano che si sale per le stradine del borgo si ode la voce del vento che attraversa la montagna.
Fermandoci a Pentedattilo e attraversandolo, possiamo osservare chiaramente con i nostri occhi le impronte che la millenaria cultura greca ha lasciato: basta ammirare la chiesa del paese, risalente al XVI secolo, la cui architettura è di sapore squisitamente bizantino, per accorgersi di essere nel cuore dell’area grecanica calabrese, anche detta Bovesia. La Chiesa dei santi Pietro e Paolo, appunto di gusto bizantino, a nave unica, con attuale prospetto neoclassico e con il campanile a base quadrata, è stata sede protopapale e, come testimonia la lapide che ancora si conserva, nell’anno 1655 il prete Domenico Toscano di Bova si vantava di essere il primo arciprete latino della chiesa protopapale di Pentedattilo.
Riedificata dopo il terremoto del 1783, ha subito numerosi interventi di restauro, tra i quali, ultimo, quello del 2001, ma anche ahimè il trafugamento della tela, collocata nella pala dell’altare maggiore, raffigurante i santi Pietro e Paolo. La Chiesa conserva le tombe della famiglia Alberti, la famiglia al centro della sanguinaria storia/leggenda che da secoli marchia di rosso il borgo misterioso di Pentedattilo.



CURIOSITÀ
Il borgo, nei secoli, ha ammaliato tantissimi visitatori, illustri e non. Tanti ne hanno lodato bellezza e fascino, come hanno fatto sia il celebre artista olandese Maurits Cornelius Escher, che realizzò di Pentedattilo numerose incisioni, sia lo scrittore inglese Edward Lear, il cui viaggio a piedi in Calabria ha ispirato la creazione di uno splendido cammino – il “sentiero dell’inglese”.
Ancora oggi Pentedattilo è al centro di una terra tutta da scoprire, lungo un asse ancora troppo poco battuto, che va dalle spiagge incontaminate e selvagge del Mar Jonio fino, salendo, al Parco naturale dell’Aspromonte.
Quando si arriva, in fondo abbastanza agevolmente, ai piedi di questo borgo che sbuca dalla mano rocciosa del ciclope, si apre una specie di varco temporale che ti catapulta di colpo fuori dal presente, qualunque esso, e ti proietta in una Storia immortale, scolpita in ogni angolo, assorbita dalla pietra, rintracciabile nei profumi e nella vita della vegetazione, nei colori, nei suoni del vento e nelle tradizioni di un tempo antico la cui voce riecheggia, ritorna e ti ricorda che è lì davanti ai tuoi occhi, fiero della sua esistenza.
Un’esistenza che va omaggiata con la presenza, la rivitalizzazione, la narrazione di un paese ricco di storia in cui tornerò, spero, anche con i miei compagni borgonauti, per aiutare i volontari del luogo a far conoscere questa pietra miliare del patrimonio storico calabro e italiano, che mi auguro diventi una tappa fissa per chiunque ambisca semplicemente a respirare l’essenza della Storia di questa meravigliosa e ancora troppo sconosciuta terra.

Flora Albarano