Visitai per la prima volta il Real Sito di Carditello in una radiosa domenica di primavera. Il cielo terso brillava di azzurro e il vento, lieve come una carezza, mitigava il calore del sole. Le ampie distese di terreni coltivati, gli alberi di cerri ed eucalipto e i fitti arbusti incorniciavano di sfumature verdi e marroni le stradine di San Tammaro. Alla fine del tragitto, parcheggiato il veicolo e varcata la soglia del massiccio cancello della Reale Tenuta di Carditello, mi incamminai verso l’ingresso della struttura per visitarla. Nell’incedere mi immergevo nell’intensità dei colori e dei profumi dei fiori e dell’erba e questo mi permise, passo dopo passo, respiro dopo respiro, di godere di un momento di pieno abbandono alla natura circostante. Avanzavo, accolta dai suoni della campagna, e cercavo di cogliere tutti i dettagli, che mi si offrivano al passaggio: l’antico galoppatoio per le corse dei cavalli, realizzato in terreno battuto con prato centrale alla maniera di un antico circo romano, nel quale si scorgevano i due obelischi di marmo, utilizzati come fontane, e il tempietto circolare, riservato agli orchestrali.

Ad accompagnare il visitatore nel suo cammino, vi erano le torrette, alcune a pianta ottagonale e altre a pianta quadrata, che in passato erano destinate all’attività casearia e agricola, e i corpi centrali, utilizzati in origine come capannoni. Sul retro si scorgevano i cortili, che un tempo erano impiegati come campi agricoli. Tutto mi incantava e mi suscitava una profonda curiosità, eppure la sensazione, che il luogo trasmetteva, era di profonda malinconia: il passato si manifestava con un’imponenza solenne in ogni angolo, ma il tempo aveva avuto un corso chiaramente spietato, arrivando a contaminare di incuria l’antico splendore.
Ergendosi a simbolo di quel meridione che ha vissuto tanto la magnificenza quanto il degrado, Il Real Sito mostrava con fierezza le vicende della sua tortuosa storia. Storia, che cominciò nel 1628, anno in cui fu realizzata per volere di un feudatario, il Conte di Acerra. Probabilmente il nome “Carditello” trasse origine da una sua peculiarità dell’epoca, ovvero dalla massiccia presenza del cardo mariano: parliamo di una pianta di aspetto simile al carciofo, tipica delle aree paludose, considerata infestante, ma dotata di forti proprietà antiossidanti. Infatti era utilizzato in varie ricette popolari e ancora oggi in alcune zone d’Italia è usato in zuppe e liquori. Successivamente si registrò una profonda svolta: nel 1744 Carlo di Borbone, in seguito all’opera di esproprio e acquisto di feudi, ottenne la tenuta, dando inizio a una serie di trasformazioni in termini di impiego e di prestigio della struttura. Infatti, il sito divenne una delle Reali Delizie borboniche, cioè una delle residenze che offrivano una piacevole permanenza ai sovrani e alla corte, e fu riservata all’allevamento e alla valorizzazione di particolari specie di cavalli. Nacque così la Real Razza equina. Inoltre, i territori di Carditello, ricchi di fauna, permisero di sfruttare il luogo per l’attività venatoria, particolarmente apprezzata dai reali e dall’aristocrazia dell’epoca. In particolare era possibile cacciare i cinghiali, le lepri, i cervi e le volpi. Il processo di sviluppo, avviato con Carlo, continuò con Ferdinando IV, che nel 1787 commissionò all’architetto Francesco Collecini, allievo di Vanvitelli, la costruzione della palazzina centrale, che avrebbe contenuto gli appartamenti reali.

Il contributo di Collecini però non si limitò a questo: egli realizzò per Carditello un progetto all’avanguardia, che permise la trasformazione della tenuta in un’azienda agricola di stampo sperimentale. Il prospetto comportò il raggruppamento delle stalle, scuderie, laboratori caseari, aree agricole e la costruzione di alloggi dei contadini, allevatori e casari, rendendo il Casino Reale uno snodo tra aristocrazia e popolo e tra diversi tipi di produzione. Infatti, nella tenuta si integrò l’allevamento di cavalli, bufali e vacche e la coltivazione della canapa, di cereali e lino alla lavorazione del formaggio e della mozzarella di bufala. L’architetto fu affiancato nella direzione dei lavori di decorazione della Reggia di Carditello da Jakob Philipp Hackert, pittore tedesco, apprezzato dal sovrano per la sua capacità di riproduzione del reale, il quale si avvalse della collaborazione di molti artisti di corte, come Carlo Beccalli, Giuseppe Cammarano, Fedele Fischetti, Angelo e Carlo Brunelli. Il regno borbonico ha dunque rappresentato il periodo più florido per il Real Sito, a cui purtroppo sono susseguiti gli eventi più drammatici. Mi riferisco ai secoli di saccheggi, di abbandono, vandalismo e degrado, che hanno afflitto il connubio di arte, lavoro e natura, che esso rappresentava. Le sofferenze della Reale Tenuta ebbero inizio nel 1799, anno in cui fu proclamata la Repubblica Napoletana, in seguito all’occupazione francese: la reggia fu assaltata e occupata, subendo ingenti danni, come i furti e le devastazioni degli affreschi, arredi e opere d’arte. Successivamente con l’occupazione napoleonica, i sovrani borbonici si videro costretti a fuggire, cercando di trarre in salvo dalle varie residenze gli oggetti a cui tenevano maggiormente.
Da Carditello partirono quattro casse di tendaggi, arazzi, quadri e ornamenti in ottone e ciò che rimase fu sfregiato o saccheggiato. L’ondata di barbara devastazione si aggravò col brigantaggio dell’epoca post-unitaria: i furti ripresero con maggiore violenza e ad essere prelevati non furono solo suppellettili e arredi ma anche animali. Durante la Seconda guerra mondiale, la Reggia fu utilizzata dai soldati americani, che nel tempietto dorico incisero delle scritte per dichiarare la propria presenza. Il declino angoscioso, dovuto all’ abbandono, alle aste, ai furti, alle infiltrazioni camorristiche e allo sversamento illegale di rifiuti, continuò imperterrito fino al 2013, quando messaggi di allarme e richieste di provvedimenti furono lanciati da Tommaso Cestrone, un pastore di quei territori divenuto poi volontario della protezione civile che, nonostante le minacce di morte, ripulì la Reggia dai rifiuti e dagli atti vandalici, conservando ciò che era rimasto.
Il suo famoso motto “Carditello non deve morire”, fu accolto da Massimo Bray, l’allora ministro dei Beni Culturali, che diede inizio ad un intenso intervento di recupero. L’opera di ripristino continuò incessante grazie all’azione congiunta del Ministero dei Beni Culturali, del comune di San Tammaro, dalla Regione Campania, confluiti nella Fondazione Real Sito di Carditello, e al supporto dei volontari di Agenda 21, ispirati dall’esempio di Cestrone. Recentemente dall’esperienza del volontariato è infine sorta la cooperativa sociale “Il Cardo”, alla quale la fondazione ha affidato una serie di servizi, tra cui le visite domenicali: grazie ai suoi operatori è possibile accedere agli appartamenti reali nella palazzina centrale e ricevere informazioni per tutto il percorso sull’evoluzione del sito, sulle curiosità storiche, sulle interpretazioni e le controversie degli affreschi, sulle iniziative presenti e future, aprendo così una finestra temporale sul passato e sul presente del Casino Reale.
Grazie a questa collaborazione sinergica, la Reale Reggia di Carditello sta ottenendo il riscatto che merita, riportando a poco a poco alla luce la bellezza, sepolta sotto le macerie del degrado. L’arte, che permea questo posto, nonostante sia stata per troppo tempo offesa dalla mano di uomini indegni, pian piano torna a svelarsi, a lasciarsi ammirare e a destare stupore. Il Neoclassicismo domina incontrastato tutta la struttura con le sue forme sobrie e simmetriche e con i suoi richiami all’arte e alla mitologia greca e romana. L’equilibrata eleganza di questa corrente settecentesca rappresenta il trait d’union di tutte le residenze borboniche e non è un caso che, nel momento in cui si raggiunge la palazzina reale, si scorga subito una profonda somiglianza con la Reggia di Caserta. Seppur priva di eccessi, la facciata del corpo centrale appare maestosa e si distinguono sulla tettoia le panoplie, cioè il complesso delle parti di un’armatura o di armi, disposte a trofeo per ornamento, al di sopra dei quali primeggia la loggetta, ancora non aperta al pubblico, provvista di vetrate, grazie alle quali un giorno si potrà ammirare il panorama circostante. La natura a Carditello primeggia all’esterno ma anche all’interno della struttura: negli affreschi, salvati dal deterioramento, si distinguono svariati scorci paesaggistici, che valorizzano i soggetti pittorici, riconducibili ai personaggi dei miti classici o ai membri della dinastia borbonica.

Quando la visita si conclude, ciò che si imprime nell’animo è l’augurio di una definitiva rinascita: è indiscutibile che tutto ciò che si trova nel Real Sito di Carditello testimoni l’identità e la storia del popolo campano e ciò è sufficiente a gettare le basi per una profonda riflessione sulla capacità dell’essere umano di creare meraviglie, ma anche di distruggerle. Troppo spesso accade che i luoghi d’arte, come Carditello, diventino turpi scenari di decadenza, a causa dell’indifferenza o della disonestà dell’individuo e, nonostante tutto, il Real Sito ci tramanda con il suo esempio un messaggio di fiducia in quel cambiamento, capace di riesumare l’antico splendore, di rivalorizzare il patrimonio storico-artistico e di risvegliare le coscienze dal torpore.
Marica Fiorito